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Sergio Landucci, I filosofi e Dio , Laterza, 2005.
di Luca Viglialoro

L’idea di Dio, l’“avvento” dell’infinito che penetra la finitezza squarcia di netto la fenomenalità. Non c’ è più, oggi, il Dio-per la fisica; si è attuata la frantumazione del continuum, la diacronia spazio – temporale, che slega logica ed episteme dal vacuum generato dal pensiero alla ricerca del concetto di Dio. Entra in ballo, quindi, la tematizzazione (impossibile) più della salvezza, l’iperbole della ragione più della Erlösung (redenzione).
In I filosofi e Dio di Landucci, i grandi pensatori del passato da Aristotele a S. Tommaso, da Averroè a Spinoza, si domandano quale sia il principio, l’inizio: da una parte c’è la causa efficiente (artifex materiale di ogni ente), dall’altra il motore immobile (quale cominciamento pneumatico senza intenzionalità).

Le linee portanti dell’ intero lavoro divengono Platone e Aristotele, in cui confluiscono tutti i successivi innovatori nei cinque secoli tra il ‘200 e il ‘700.
Ci sono due vie tramite cui arrivare all’idea di Dio: una porta ad un fattore originario che plasma la materia conferendole una volontà; l’altra porta ad un prima che dà una spinta meccanica a tutto il sistema naturale, in cui, dunque, le cause diventano, anzi, già sono, effetti. La diversità delle posizioni è estremamente grande perché, se l’una implica una presenza divina sul dato sensibile e l’altra lo nega, il concetto di tempo si deforma. Da tempo segmento discreto scandito dai grandi eventi biblici (dalla genesi vetero-testamentaria), lo si concepisce come una retta ingenerata e densa. La perdita del punto individuativo lascia il terreno ad una causa agente, che rende tutti gli accadimenti necessari (male, contraddizione, ignoranza). Sigieri di Brabante è, per Landucci, uno dei pochi a provare a coniugare un fine con l’emanazione aristotelica, quando arriva alla questione: «utrum finis sit aliqua causa generationis rerum naturalium»(pag. 34). La specificità di ogni processo (ad esempio: da una foglia può nascere solamente una foglia) in natura, ci induce a concludere una qualche teleologia eteronoma; così, la seduzione vitalistica che anche una foglia possa determinare una res ex novo, o che l’uomo possa generare dal nulla è panteismo con perfettibilità del congegno naturato.
Con lo slogan spinoziano ‘la natura non fa niente invano’, il divario tra ciò che si produce in vista di qualche proposito e quel che si “lascia” divenire, mette in discussione l’attività dell’uomo, il carattere del Schöpferwollen (volontà del creatore):

«Considerandola come un’ evidenza, quando si dà, Aristotele assume la finalità nella natura come una nozione descrittiva. Lo si vede bene nel modo in cui egli propone l’ analogia della natura con l’ arte umana, quale argomento per sostenere la finalità anche alla prima. Analogia vuol dire infatti ‘proporzione’, nel senso in cui questa nozione è usata in matematica: il risultato a cui tende un processo naturale, sta a questo come la realizzazione d’un progetto da parte di un artigiano; la materia - e cioè le ossa, o i tessuti carnosi- sta all’ animale compiuto come il legno a un artefatto fabbricato da un falegname» (pag. 101).

Partendo da questa analisi, il criterio di funzione viene ad essere richiamato in maniera essenziale; la materia è tale per la potenza che la genera, ed è già forma (o atto) piena di anima. Qualora il flusso di funzione cessasse il suo apporto, allora gli attributi si disgiungerebbero, e l’oggetto smarrirebbe la sua significazione (es.: un braccio amputato non è più un braccio in mancanza di un corpo).
Sul versante della cosmologia, la formulazione che arriverà fino a Kant, che va da un qualsiasi ente contingente all’ente necessario, trova riferimento in Avicenna. La sua dislocazione della prova dell’esistenza di Dio dalla fisica alla metafisica (causa di ribaltamento delle prospettive medievali) è la novità dell’elevazione al di sopra della causalità motrice; mentre per Averroè la verificazione è installata ancora nella fisica, in correzione del “doppio tempo” dell’unum di Tommaso edificato sulla necessità rispetto alla natura e all’autosussistenza (in sé e per sé), Avicenna richiama alla distanza, appunto. L’eziologia, espone Landucci, manca il centro col suo movimento che arretra, si sposta sempre di più, ma non giustifica dei momenti: «[…] la questione non è se il mondo sia eterno o no, bensì se sia o non opera di Dio[...]» (pag. 97), e se Cartesio divide le cause in fieri (ordinate accidentalmente con possibilità di regresso all’infinito) e in esse (ordinate essenzialmente, e perciò tutte egualmente importanti per raggiungere l’effetto), è per un ozio del pensare per regioni , anche in questioni di spirito.

Come, dunque, anticipato, il debordare dell’idea di Dio fuori dal seminato della coscienza trascendentale, del summum bonum kantiano - non come rifiuto della teodicea, almeno non fino all’idealismo - è un intrigo che si ispessisce, ma Duns Scoto si discosta:

«Perché Dio in se stesso come causa delle cose possiede tre attributi: essenza, saggezza, esistenza».

E poi:

«Di nessuna cosa posso conoscere se esista, a meno che non ne abbia prima un concetto» (pag. 191).

Dio è concetto di verità che sviluppa il molteplice; la singolarità può arrivare alla verità (concetto mentale, che non trova relativo dimostrativo, ecco perché manca il maiuscolo) che non è variazione della verità a seconda del soggetto, ma la condizione in cui appare al soggetto la verità di una variazione.

PUBBLICATO IL : 01-06-2005

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