L’ennesima ‘fatica’ letteraria – o forse dovremmo dire
scientifica? – di Piergiorgio Odifreddi riguarda quell’annoso e
celebre rapporto fra arte e scienza, fra cultura umanistica e cultura scientifica,
che ci sforziamo di capire e di risolvere da tempo senza mai trovarne soluzione.
Odifreddi sicuramente non cerca affatto di mettere la parola ‘fine’
al dibattito. Al contrario vi si inserisce osservando la questione da un particolare
e curioso punto di vista: l’invidia. Tale emozione, tale sentimento, portano
il matematico sul lettino dell’analista per affrontare gli ‘scherzi’
che l’incoscio può essere in grado di tirare anche al più
freddo e razionale degli esponenti del pensiero scientifico, quando deve confrontarsi
con altri ‘colleghi’ o tradizioni disciplinari. L’Autore quindi
si diverte a mischiare da subito le carte, ‘colorando’ di emotività
la scienza e di razionalità l’arte, con un’autoironia capace
di mettere il lettore immediatamente a proprio agio, catturandone l’attenzione
col sorriso. Ma un tale incipit non ha solo una funzione di stile,
essa è tesa a riportare il matematico ‘sulla terra’, infrangendo
quell’iperuranio in cui si pensa si rifugi. Se il matemattico prova invidia
non è immune dalle emozioni, è dunque umano quanto gli altri.
L’invidia, il suo riconoscimento e l’esigenza di superarla, riportano
la discussione fra le due culture su di un livello comune, facendo in modo di
sgomberare il campo da ogni opinione preconcetta che vuole separati da un discrimine
di disumanità il matematico e il resto del genere umano.
Questa è dunque la chiave di volta, l’assunto o assioma fondante,
del libro, o meglio del dialogo-lezione. Poiché il testo che il lettore
ha per le mani è stato trasmutato e trasdotto da un ciclo di lezioni,
organizzato dalla Fondazione Sigma-Tau, tenutosi nell’Aula Magna
dell’Università degli Studi di Bologna a fine marzo del 2004, curato
e moderato da Umberto Eco.
Tale origine caratterizza lo stile espositivo che Odifreddi assume nell’argomentare/dimostrare
le proprie tesi. Se infatti, come abbiamo detto, la strada che indica Odifreddi
è quella dell’intersezione fra le due culture su di un condiviso
terreno di gioco, la stessa struttura del libro testimonia tale approccio. Da
un lato il lettore pare dialogare con l’Autore, ascoltarne il racconto
(a volte si ha l’impressione di conversare con Odifreddi piuttosto che
leggerne un testo). Dall’altro si ritrova in mezzo ai numeri, alle formule
e alle dimostrazioni come stesse risolvendo problemi di logica, matematica o
fisica. Se si vuole, dunque, si può interpretare il testo come un racconto
dimostrativo. Una storia corredata da aneddoti curiosi ed eruditi, dalle
‘relazioni pericolose’ di quelle culture considerate così
distanti, e al tempo stesso la risoluzione di un problema mediante dimostrazione.
Nel raccontare dimostrando sta il pregio di Odifreddi, il quale, con uno stile
capace di tener alta l’attenzione e l’interesse, conduce il lettore
alla dimostrazione-equazione-sillogismo che conclude le tre parti del libro
come un fulmen in clausula. – A proposito, tre parti per tre
equazioni a tre termini, come i tre pannelli di un trittico o le tre Cantiche
della Commedia. Che Odifreddi si sia divertito a confondere, a livello d struttura
del testo, intrecci ulteriori di derive semantiche fra matematica e numerologia,
fra Pitagora e le serie di Fourier?
L’invidia del matematico, i pregiudizi sulla sua freddezza d’animo
o sulla totale emotività dei suoi colleghi-avversari artisti, vengono
smantellati con la forza sia del racconto, della logica storica, che con la
persuasione della dimostrazione razionale del mos mathematicus.
Il libro di Odifreddi non è dunque un’opera che si articola su
di un piano teorico e astratto. Come avrebbe potuto, avendo l’Autore inventato
un nuovo genere: “la divulgazione creativa” – biglietto da
visita che con le parole di Eco avvolge con nastro rosso la copertina del testo.
Di contro l’Autore cerca di convincere il lettore portandolo su di un
piano dialogico, tramite esempi tratti dalla storia delle discipline analizzate.
Mettendo in luce non perché la matematica da un lato
e letteratura, arte e musica dall’altro avrebbero dovuto e dovrebbero
connettersi, secondo principi a priori, bensì come
tali campi del sapere umano abbiano trovato nella loro evoluzione il modo di
accordarsi. D’altro canto tali exempla, che sono il contenuto
dell’intreccio narrativo, trovano giustificazione teorica nella tesi di
base del testo in cui umanesimo e scienza si sviluppano a partire dalla condivisione
di finalità e quindi di strutture e modalità comuni. Pitagora,
Platone, le serie di Fourier, Fibonacci e la sezione aurea, Calvino, Pollock,
Queneau, Borges e Bach, sono i protagonisti di una particolare storia del genere
umano, una storia di lògos, di ratio, cioè di
rapporto. In quanto tale si giustifica quella costellazione
di significati che il termine greco racchiude in sé, facendo da guida
alle tesi di Odifreddi. La sovrapposizione fra parola e discorso con numero
e nota è possibile grazie al concetto di rapporto o connessione. Non
si riducono forse a ciò le parole della letteratura, le note della musica,
i segni dell’arte, e infine i numeri della matematica? Quest’ultima
può quindi condividere con, rispetttivamente, letteratura, arte e musica
i concetti chiave: “gioco”, “astrazione”, “armonia”.
Tali sono le finalità comuni, di cui si parlava in precedenza. La letteratura,
espressione su carta (o su schermo) del linguaggio, è rappresentabile
come un gioco – richiamando espressioni come il “linguistic
game” di Wittgenstein o “le jeu des signes”
di Saussure. L’arte come una ricerca d’astrazione del rapporto uomo/natura,
nella ricerca degli elementi primi della percezione estetica dell’immagine.
E la musica trova il suo nucleo e fondamento nell’armonia, cioè
nella capacità di connessione di elementi discreti in una struttura e
configurazione capace di dare senso e ordine. La matematica in tutto ciò
non è una disciplina caduta da mondi ignoti ed extraumani. Se gli artisti
nella storia si sono ispirati ad essa non è stato certo per un bizzarro
amore per l’esotico, o per un impertinente spirito di contraddizione.
Se la storia che Odifreddi narra ci testimonia feconde intersezioni fra tali
discipline è perché anche la matematica è gioco, astrazione,
armonia. Anch’essa fa parte del kòsmos, inteso come sistema
razionale di configurazione della realtà, che la storia umana ha prodotto
nei secoli. Anch’essa è dunque umana e frutto della ricerca razionale.
L’umanità del matematico non riguarda esclusivamente la sua emotività,
i suoi sentimenti – come si afferma nelle prime battute del libro. Bensì
il matematico si riscopre uomo anche e soprattutto in quanto essere pensante
e razionale, riscoprendo proprio su questo livello un legame intimo con la cultura
umanistica, ritenuta indebitamente distante.
Lògos e kòsmos – non a caso parole, idee
della tradizione greca – al fine sono la soluzione scelta da Odifreddi,
per condurre il discorso e il dibattito, che di certo non conosce qui la sua
fine, ma forse riacquista un punto di vista dimenticato da troppi e da troppo
tempo, capace di mettere l’accento su una struttura comune che interconnette
i livelli del sapere umano in quanto frutto di un cercar comune, del voler rispondere
alle domande che poniamo a noi stessi per mezzo di ciò che ci circonda.
Una ricerca a sua volta conseguenza di quel thaumàzesthai, di
quella meraviglia che accomuna la curiosità e la sete di conoscenza degli
uomini.
Odifreddi rivendica così un’origine unica per le due culture. Un’origine
che deve essere cercata proprio nel moto del pensiero fra emozione e intelletto,
fra sentimento e razionalità. Nel disinteresse del cercare per il cercare,
in quel particolare dialogo che facciamo con noi stessi, il resto dell’umanità
e ciò che chiamiamo mondo.
In conclusione un appunto, o forse un rimpianto. Abbiamo detto all’inizio
che il testo ha origine da un ciclo di lezioni. La parola che si legge su carta
è stata parola-suono, è nata in un contesto orale e dialogico.
Sebbene lo stile di scrittura di Odifreddi rende quasi impercettibile tale differenza,
simulando un vero e proprio colloquio col lettore, arrivando a conservare buona
parte della dinamicità del discorso orale, alla conclusione del libro
si ha l’impressione di aver perso qualcosa. Come se la trasduzione da
orale a scritto avesse lasciato degli elementi non detti. Si ha l’impressione
che il testo si fermi proprio quando vengono alla luce concetti importanti –
ad esempio quelli di lògos o di gioco, che l’analisi si
fermi sul legame che accomuna ma non dia peso ai parametri di riferimento che
ci rendono capaci di cogliere la differenza fra un interesse artistico ed uno
matematico. Pare che la scrittura abbia dei limiti visibili proprio perché
è lei stessa a dare l’impressione dell’eco lontana di discorsi
che, invece, avrebbero potuto spingersi oltre. Quindi ecco il rimorso, il rimpianto
di non esser stati lì, nell’Aula magna, a godere del discorso
nella sua interezza, ad assistere alla lezione. Certo, il lettore ha per le
mani un testo divertente, capace di far riflettere donando spunti per ricerche
ulteriori – grazie anche a una buona ‘bussola bibliografica’
ripartita in tre sezioni speculari ai tre capitoli del testo. Eppure qualche
pagina in più avrebbe potuto render meglio quel ciclo di lezioni che
la carta non è riuscita a ridare al lettore nel tempo.
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