Il testo Lacan et la littérature (Houilles, Manucius, 2005)
raccoglie gli interventi del congresso organizzato da Éric Marty, Catherine
Millot e Pierre Pachet nel novembre 2002, presso l’Università Paris
VII. Il volume si apre con un saggio di Catherine Millot sull’Hommage
fait à Marguerite Duras, du ravissement de Lol V. Stein (In Autres
écrits, Paris 2001, pp. 191-197. In questo scritto, Lacan analizza
il testo di Marguerite Duras Il rapimento di Lol V. Stein). uno degli
scritti più commentati di Lacan. La psicanalisi è una pratica
poetica? Freud lo ha lasciato intendere dicendo: “Sono stato capace di
vincere il mio destino in maniera indiretta e ho realizzato il mio sogno: restare
un uomo di lettere sotto le apparenze di un medico”. Lacan scrive che,
senza saperlo, la Duras racconta ciò che lui insegna. La scrittrice ritrae
i personaggi con pennellate asciutte e incisive: a Lol “mancava qualcosa
per esserci”, una parte di lei era di continuo altrove mentre al suo dileguarsi
si dava nome “dolcezza”. Era immersa in uno stato d’indifferenza,
in una completa assenza di gioia o dolore. Impossibile afferrarla: sfuggiva
di mano come l’acqua.
In qualche modo, scrive Lacan, il libro è la “rimemorazione”
della scena iniziale: la scena del ballo o del trauma. Qui Anne-Marie Stretter,
donna “senza sguardo”, rapisce a se stesso il fidanzato di Lol che,
a sua volta, assiste a questo furto in uno stato di rapimento. Lol va via. Tornerà
nel luogo della sua infanzia solo dieci anni dopo. Durante lunghe passeggiate,
Lol comincia a cercare il luogo, l’altrove che da sempre è la sua
terra. C’è una relazione tra queste uscite e le parole che furtivamente
ha udito pronunziare da una coppia. Parole che agganciano il vuoto scavato la
sera del ballo, quando una nuova coppia è andata via senza parlare. Una
coppia sorta sulla silenziosa disgregazione di quella che includeva Lol rimasta,
per questo, fuori, esclusa, sospesa sul vuoto che segna, tra notte e giorno,
l’istante dell’abbandono: «Mi piace credere, poiché
l’amo, che se Lol è silenziosa nella vita, è perché
ha creduto che tale parola poteva esistere. Non esiste, e lei tace. Sarebbe
stata una parola-assenza, una parola-vuoto, con un vuoto scavato nel centro,
quel vuoto che avrebbe inghiottito tutte le altre parole. Impossibile pronunciarla,
quella parola, ma forse si poteva farla risuonare» (M. Duras, Il rapimento
di Lol V. Stein, Milano 1989, p. 37). Siamo nel luogo della rimozione originaria
che introduce un trou nell’ordine del linguaggio, un trou
a partire da cui si dispiegano tutte le altre parole.
Queste passeggiate ricalcano la traiettoria erratica dello sguardo, l’oggetto
che causa il desiderio dei protagonisti e perciò determina la trama degli
eventi. Mettere a nudo fantasmi e godimento: gli uomini denudano le donne, Michael
Richardson è un Dio “affaticato da questo denudare”, un Dio
che ogni pomeriggio “comincia a spogliare una donna che non è Lol”.
Lol ritrova questo sguardo avido di donna in un altro uomo: Jacques Hold. Seguendo
la direzione di questo sguardo, Lol perverrà al corpo di un’altra
donna: “Lei che non vede se stessa, si rispecchia così, negli altri”.
Il romanzo disegna un’accurata cartografia di luoghi, in particolare del
luogo dell’incontro impossibile con il nudo oggetto del desiderio. Anche
Lacan mette a nudo il testo di Duras, l’oggetto che circola nella storia
e i fantasmi che la popolano. Nella scena del ballo anche Lol è stata
rapita: è stata derubata dell’immagine del proprio corpo. Al posto
di quest’immagine sta un vuoto: il vuoto dello sguardo di Anne-Marie Stretter,
quello che Lol ritrova nello sguardo degli uomini che guardano le donne, il
vuoto incarnato dall’indicibile nudità dei corpi delle donne. Millot
indica tre nodi: quello formato da Lol V. Stein, Michael Richardson e Anne-Marie
Stretter; il triangolo che include Lol, Tatiana e Jacques Hold e infine quello
formato da Jacques Lacan, il testo letterario e Marguerite Duras. Cercando il
punto d’enunciazione, l’ex nihilo del discorso di Lacan,
Millot sceglie il termine hommage per decifrare il rapporto di Lacan
con Duras. Con questo “omaggio” Lacan vuol sottolineare che la pratica
della lettera converge con l’uso dell’inconscio. Ma perché
Lacan ha scelto un termine tipico del vassallaggio amoroso dell’amor cortese?
Millot insinua: lo psicanalista sta riconoscendo il proprio debito verso lo
scrittore che sempre lo precede.
Un furto, molto differente però da quello di Lol, segna anche il rapporto
di Antonin Artaud con la lingua. Per Artaud, suggerisce Hervé Castanet,
“il linguaggio è partito”. L’artista denuncia che “qualcosa
distrugge il suo pensiero”, che “qualcosa di furtivo gli sottrae
le parole che ha trovato”. Con la disparizione del linguaggio anche l’essere
non esiste più - perché è il linguaggio che istituisce
l’essere. Questo furto delle parole e del pensiero lascia un resto: il
corpo di Artaud. Un corpo che non è né contenuto, né contenete,
ma presenza divenuta attiva e che vuole uscire. È un corpo sofferente.
Il teatro della crudeltà è l’invenzione di Artaud:
il suo tentativo di recuperare questo corpo, di produrre un corpo nuovo. Un
teatro, diceva Artaud, che faccia guadagnare qualcosa “corporalmente”.
Jacqueline Chénieux-Gendron ricostruisce invece il dialogo sommerso
tra Lacan e Breton iniziato durante la stagione surrealista. È l’epoca
in cui L’interpretazione dei sogni e Il motto di spirito
dettano le regole della sperimentazione linguistica. Gli scrittori amano il
genere giallo, prediligono vicende di cronaca nera, in particolare i casi di
follia. Si fa strada – ricorda Érik Porge - un nuovo genere letterario:
la letteratura degli alienati. Gli psichiatri s’ispirano allo stile degli
scrittori – primo su tutti Balzac - e pubblicano i loro casi sulle riviste
letterarie. D’altra parte, anche i malati scrivono e i loro scritti sono
oggetto d’osservazione medica. Anche il medico si fa scrittore: scrive
la propria follia. Scritti “ispirati”: schizografia
è il testo in cui Lacan analizza i disturbi della scrittura di Marcelle
C., interpretando la sua psicosi come il sintomo creativo di una donna che si
è data una missione: “far evolvere la lingua. Svecchiare tutte
queste vecchie forme”. Siamo nel 1931 l’anno in cui, con la Tesi
su Aimée, Lacan rigetta la concezione della psicosi come deficit organico
e ne fa, piuttosto, un modo di abitare il linguaggio. Il termine “missione”
evoca immediatamente i propositi di un altro scrittore: James Joyce, al centro
dell’analisi magistrale di Jean-Michel Rabaté. L’anglista
ricostruisce le tappe dell’incontro di Lacan con Joyce e di una passione
durata tutta la vita. Joyce non smetteva di chiedersi se il suo Work in
Progress non fosse una follia, riteneva che solo un foglio trasparente
separasse l’Ulisse dalla follia. Lacan riprende la questione di Joyce:
Joyce era folle? Da quando si comincia ad essere folli?
Rabaté ritiene che Joyce non fosse folle: la scrittura lo ha salvato
da questo rischio, la follia resta dall’altra parte di quel foglio. Su
Le figaro, Jacques Aubert ha scritto che Joyce ha tentato di scompigliare
la lingua materna. Joyce - scrive infine Lacan – ha trovato da solo quanto
di meglio offre un’analisi giunta a buon fine: un incontro con la lettera
e un sapere sul godimento che essa veicola. Cosa predispone la convergenza tra
medicina e letteratura? È difficile rispondere. Possiamo solo notare
che la pratica dell’ascolto si sostiene sulla scrittura, sulla trascrizione
delle parole del paziente. Anche Lacan, nota Pierre Pachet, scrive partendo
dalle trascrizioni o dagli appunti di ciò che ha detto. Se le storie
cliniche di Freud hanno lo stile di “novelle”, lo stile di Lacan
ostenta “cattivo gusto”: è debordante, ingombrante. “Iper”
è la sua cifra. Si tratta di una mancanza o piuttosto di una rivendicazione:
quella di un’espressione sempre inadeguata a farsi intendere? L’autore
ricostruisce lo stile del linguaggio orale e scritto. Lacan usa le proposizioni
come Mallarmé, forza la frase con incisi, parentesi, allusioni. Riconosciamo
lo stile dei maestri – Barthes, Derrida, Foucault – ma è
determinante la lezione di poeti come T. Eliot, Éluard e Rimbaud. Lacan
conviene con i poeti: si può divulgare un segreto senza per questo svelarlo,
delimitare un enigma senza che la soluzione lo risolva. Lo psicanalista si trasforma
in poeta quando parla d’amore: si ama una donna senza poter avere un rapporto
con lei. Si ama una donna per smettere di amarne un’altra. Così,
per dire del nuovo sull’amore ha scelto una frase enigmatica: non
c’è rapporto sessuale – formula sorprendente con la
quale Lacan annuncia che al fondo della vita sta che tutto ciò che concerne
il rapporto tra uomo e donna non funziona. Éric Marty dedica pagine molto
belle alla relazione tra amore, essere e non rapporto sessuale. Sottolinea che,
dietro questo enunciato, sta la logica aristotelica dell’universale e
del particolare su cui Lacan fonda la dissimmetria tra l’uomo e la donna.
Évelyne Grossman prende spunto da un confronto con Beckett per dar
risalto ad uno dei punti maggiori della teoria lacaniana: la negazione. La verità
ha struttura di fiction, cioè struttura linguistica. La verità
può dirsi solo a metà: solo a patto di negarla, di alterarla,
di presentarla come una menzogna. Va ricostruita seguendo le leggi isolate da
Saussure e Jakobson. Chiude il volume Élisabeth Roudinesco che propone
un inventario di ciò che il Lacan collezionista ha raccolto – o
trovato? – nel corso della sua esistenza. Le liste si susseguono: dai
libri agli oggetti, dai pazienti ai neologismi. Ogni lista ha un carattere traumatico
suggerisce Roudinesco. Fa avvenimento, testimonia che una storia non si riduce
ad un delirio, né ad una finzione. La lista iscrive la traccia che permette
ad un archivio di divenire tale. C’è un solo trauma ammoniva Lacan:
l’apprensione di una lingua. L’inconscio è un’invenzione:
è un sapere che s’inventa a partire da un trou (buco).
O da un trauma. D’altronde, inventariare è assonante
con inventare.
Il volume porta con sé molte domande, in particolare una: è legittimo
che la psicanalisi parli di letteratura? Non rischia di fare psico-biografia
d’autore? È possibile evitare questo scivolamento? O, al contrario,
è possibile sottrarre l’autore a ciò che scrive, come se
non vi fosse implicato? E ancora: la psicanalisi non rischia di smorzare la
forza eversiva delle opere letterarie con letture che cercano di spiegare, d’inquadrare
un evento di linguaggio: un evento che supera sempre anche le intenzioni dell’autore?
Eppure Jacques Lacan ha letto i testi letterari in modo tale da indurre Marguerite
Duras a scrivere: «J’étais abasourdie par Lacan. E cette
phrase de lui: “Elle ne doit pas savoir qu’elle écrit ce
qu’elle écrit. Parce qu’elle se perdrait. Et ça serait
la catastrophe”, c’est devenu pour moi, cette phrase, comme une
sorte d’identité de principe, d’un “droit de dire”
totalement ignoré des femmes» (M. Duras, Écrire,
Paris 1993, p. 20).
|