Il presente volume costituisce una selezione ragionata degli interventi ( perlopiù
lectures e conferenze tenute in occasione di congressi o commemorazioni ) che
il sociologo e politologo amburghese è andato via via svolgendo lungo
il corso dell’ultimo quindicennio, seguendo passo passo il dipanarsi di
crisi e mutamenti innescati da quella che l’Autore non esita a definire
una «cesura profonda nella storia della modernità» (p. VII).
E si tratta, ovviamente, della “rivoluzione del 1989”, accostata,
per importanza e incisività, ad altre “fratture” più
nettamente rappresentabili, in virtù della loro distanza temporale e
della lunga elaborazione storiografica di cui sono state fatte oggetto, come
decisive: «la ripartenza dopo il 1945, forse, gli incerti tentativi rivoluzionari
del XIX secolo e quelli invece riusciti di fine XVIII secolo». L’estinzione
del dominio sovietico e l’implosione delle democrazie popolari ha costituito,
secondo Dahrendorf, un vero e proprio Widerbeginn der Geschichte (
come suona il titolo tedesco originale della presente raccolta ), una riapertura
di società e individui, a lungo costretti nella morsa dell’immobilismo
ideologico e burocratico, al tempestoso e imprevedibile vento del cambiamento.
La liquefazione delle nomenclature e degli apparati ha consegnato ai cittadini
di quei paesi non la libertà ma la possibilità, rischiosa e impervia,
di elaborare una propria via per tentare di «costruire una società
aperta sulle macerie della tirannia» ( p. 18 ), società nata da
una rivoluzione ma che dovrà edificarsi in modo tale da rendere costantemente
“inattuali” le “ragioni” che di una rivoluzione costituiscono
gli elementi scatenanti (in particolare la situazione per cui «una classe
rimasta per un lungo lasso di tempo in posizione di dominio non soltanto ha
schiacciato altri gruppi, ma ha represso anche le esistenti potenzialità
di cambiamento» p. 15). E questo tentativo di costruzione viene realisticamente
prospettato da Dahrendorf come insidiato costantemente dai rischi di un’involuzione
di tipo demagogico-autoritaria (la “sindrome di Singapore”) oppure
di un’incontrollabile anomia, allorquando non si sia capaci di costruire,
pazientemente e attraverso il faticoso metodo delle riforme, quell’intreccio
tra istituzioni democratiche (fatte di rappresentanza e partecipazione), libertà
di mercato (ma con una forte rivendicazione del primato della politica sull’economia)
e attiva presenza di una articolata società civile (interpretata anche
attraverso la kantiana “insocievole socievolezza”, cioè come
luogo dello svolgersi di un conflitto disciplinato in un equo sistema di regole
che garantisca la necessaria coesione sociale), che costituisce una delle possibili
definizioni minime di quella società aperta difesa dall’Autore.
Essa va “costruita” proprio perché gli elementi dal cui intreccio
dovrebbe esser resa possibile non sono affatto “naturalmente” destinati
a convergere in scontati equilibri (ma di equilibrio si tratta: da qui la ricerca
di una “quadratura del cerchio”). In questa ricerca di equilibri
è forte il richiamo alla fragilità delle configurazioni socio-politiche
e alla molteplicità delle vie, indefinite, come dice Dahrendorf, che
nasce dalla persuasione che «la molteplicità non è un beneficio
supplementare per le culture evolute; è invece il nocciolo di un mondo
che si è liberato dalla nostalgia per i sistemi chiusi che abbracciano
tutto» (p.227).
La notevole capacità di analisi delle realtà sociali e politiche
fa di Dahrendorf una guida lucida per cercare di decifrare alcuni degli aspetti
fondamentali del mondo in cui ci troviamo a vivere. La difesa di quello che
l’Autore chiama “l’ordine della libertà” ( o,
à la Hayek, “la costituzione della libertà” ), che
riesce ad essere, allo stesso tempo, ben argomentata, realistica e animata da
forti idealità, rappresenta il perno di quel progetto di un “nuovo
liberalismo” a cui l’autore, nel corso ormai di più di quarant’anni,
ha dedicato le sue migliori energie di studioso e che hanno trovato un altro
modo di esprimersi nel suo non professionistico impegno politico.
La non celata, ma sempre sorvegliata, passione per la teoria – con il
costante richiamo, dal punto di vista metodologico, alla lezione del falsificazionismo
popperiano e, in generale, dal punto di vista dell’elaborazione politica,
ai classici del pensiero liberale, con una predilezione per alcuni temi del
Kant illuminista – si nutre costantemente di analisi, prevalentemente
di tipo politologico e sociologico, di circostanziate costellazioni storico-politiche
sempre tese ad individuare i nodi strutturali e le dinamiche di fondo del contesto
o del problema di volta in volta preso in considerazione.
C’è in Dahrendorf una sobria progettualità riformatrice
che riesce ad ospitare in sé slanci coraggiosi senza mai farsi astratta
e dottrinaria; c’è l’attenzione vigile ma mai subalterna
alle “lezioni della storia” e alla complessità, spesso inestricabile,
dei problemi proposti o riproposti dall’ineludibile intreccio tra l’irrompere
del nuovo e il vischioso persistere del vecchio; ci sono il gusto per le libertà
individuali e la rivendicazione del “rule of law”; c’è
la lotta per una “maturità” civile che riesca ad essere criticamente
disincantata e immune da utopismi ma, ancor di più, sostanziata di passione
per la cosa pubblica; c’è l’esercizio rigoroso della “ragione
laica” e la sensibilità inquieta per la questione del senso e dei
valori, ma con una forte vena “problemistica” e antiretorica che
la tiene lontana sia dall’appello velleitario a presunte radici sia dalle
vacue e irresponsabili lamentazioni sulla fine della civiltà.
Di qui il forte convincimento circa la “natura” procedurale e
pattizia della società aperta, che non va disgiunto dalla rivendicazione
della necessità di un impegno etico critico e consapevole (di un “illuminismo
applicato”) da parte di individui che quella società vogliono difendere
e rafforzare. Allo stesso modo l’adesione a un modello di società
secolarizzata e immune da autoritarismi a sfondo etico non fa velo alla preoccupazione
per la distruzione dei legami sociali (le “legature”) e l’indebolimento
del senso di appartenenza e di condivisione di comuni responsabilità,
che tende a trasformare le chances di vita ( la cui offerta e garanzia è
il compito e l’obbiettivo fondamentale dell’ordine liberale) in
meri involucri privi di concretezza e di effettività, con il rischio
di un precipitare negli opposti simmetrici dell’apatia e del fondamentalismo
(etnico, religioso, politico), entrambi distruttori del conflittuale e irrequieto,
ma sobriamente disciplinato, cosmo liberale.
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