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Franco Riva, Filosofia del viaggio , Cittą Aperta, 2005.
di Andrea Serra

La filosofia non ha mai tematizzato apertamente il tema del viaggio, e ne ha dato versioni e letture dialettiche e contrapposte (Agostino, Montaigne, Hegel, Kierkegaard, Marcel, Bloch). Il viaggio è metafora universale e perfino abusata, che però al contempo consente di cogliere e pensare l’al di là del pensiero stesso, in una prospettiva finalmente libera da remore metafisiche. Dalla Filosofia del viaggio di Franco Riva emerge un nuovo pensiero, fragile e responsabile insieme, che non cede più ad alcuno sforzo prometeico ed autoreferenziale. Il viaggio è infatti uno stare nella precarietà della propria fragilità, senza assolutizzare la propria debolezza. È un partire verso l’altro, in cui l’identità è aperta costitutivamente alla pluralità.
Il libro si presenta come una descrizione fenomenologica dell’esperienza del viaggio. Si tratta di una fenomenologia concreta, che parla dentro e non astrattamente sopra il viaggio. La struttura del volume è ternaria e affronta i grandi temi dell’alterità, dell’accoglienza e dell’unicità. In realtà circola un filo comune, che percorre e lega intimamente tutti e tre i capitoli, a partire dalla paradossalità del viaggio. In primo luogo perché in quanto alterità che irrompe e s’impone, il viaggio non può essere definito, giudicato o normativizzato. Il viaggio è anche accoglienza aperta e concreta, e dunque di nuovo paradosso per ogni tentativo di omologazione e generalizzazione. Il terzo motivo, che è il centro di questo pensiero del viaggio, è l’unicità, paradossale per definizione, perché sfugge ad ogni catalogazione, ad ogni identità che vuole rispecchiare se stessa. 

Nel primo capitolo Viaggio, comunità e racconto viene analizzata la frattura, il distacco che il viaggio comporta. Il viaggio si dà nell’uscita, dalla propria casa, dalla propria terra, dalle proprie abitudini, da se stessi insomma. Ed è paragonabile ad una linea retta dove la fine non coinciderà con l’inizio, ma costituirà un suo differenziamento. Viaggiare è anche tornare, ai propri luoghi e infine a se stessi. Alla linea occorre sovrapporre il cerchio, come figura della circolarità di ogni esperienza, che non significa ripetitività dell’identico, ma possibilità dell’apertura. Senza l’io non si dà neanche l’altro.
E’ dunque l’alterità che struttura il viaggio. Viaggiare significa incontrare altro dall’abituale ed esporsi liberamente nell’apertura al mondo. Emerge una mobilità che non rassicura e presenta i caratteri della precarietà. Dal confronto con la diversità, l’identità diventa se stessa, come appare evidente nel nesso che lega viaggio, racconto e comunità. Viaggiare è anche raccontare il proprio viaggio. Il racconto d’altra parte presenta la stessa struttura del viaggio, con una partenza, una trama e una conclusione. Il racconto avviene in un gruppo, in una comunità. Ma una comunità è tale quando è animata e composta da voci differenti tra loro, altrimenti non sarebbe altro che la ripetizione del monologo di un’unica ideologia. La comunità è dunque tale quando la sua identità si basa sull’accoglienza polifonica e l’apertura per il diverso.
Nel secondo capitolo Riva affronta il tema dell’accoglienza. Se il viaggio si configura come apertura accogliente e accoglimento aperto insieme, il nostro mondo, dove veniamo accolti sempre, dall’aereoporto al sito Internet, sembra appartenere alla disponibilità aperta del viaggio. L’accoglienza globale è davvero tale? Un’analisi fenomenologica ci dice che, proprio perché siamo sempre a casa nostra, non si dà più uscita da sé, ma continua ripetizione dell’identico. L’accoglienza non è apertura al diverso ma reiterazione dell’omologazione generale. L’accoglienza avviene in un luogo, la mia casa, una locanda, un palazzo, uno stato, una città. La de-spazializzazione denuncia l’impossibilità del viaggio, in quanto non esistono più luoghi e spazi diversi, sconosciuti, perché sono già tutti ricompresi nei depliant degli operatori turistici, o in qualche file della rete globale. Lo spazio è ridotto a tempo. Perché ogni cosa deve essere veloce e rapida e il viaggio è inteso in maniera temporale. Con Internet sono nello stesso momento in Inghilterra e Brasile. Il viaggio sembra invece, in quanto accoglienza ospitante, innanzitutto spazialità. Un odore nell’aria, un sentiero difficile da risalire, un cibo col suo sapore unico, una stretta di mano. Nel mondo globale siamo tutti a casa, e non ci sono più estranei e dunque neanche ospiti. La casa si è trasformata in un mercato, perché il villaggio globale è l’insieme delle proposte e degli acquisti che strutturano la nostra esistenza. Come acquistiamo un viaggio all’estero, così compriamo il cibo, il cellulare, la musica, perfino la pace dell’anima. Il denaro è il linguaggio unico della globalizzazione. Se non si ha denaro, non si può essere accolti: questo è il monologo del villaggio globale, all’in fuori di cui non esiste più nulla di diverso, di altro, di unico.
Si impone nel terzo capitolo un’analisi del tema dell’unicità. Se osserviamo bene anche nello scambio omologante del denaro c’è qualcosa che resiste, che sfugge. E sono il massimo e il minimo rispetto al di più e al di meno: oggetti, persone, affetti che valgono troppo o troppo poco. Non rientrano nello scambio e allo stesso tempo ne sono inclusi. Unico significa proprio non scambiabile, insostituibile. Il nuovo, il diverso del viaggio si può raccontare e comunicare fino ad un certo punto, perchè certi luoghi e certe esperienze devono essere vissute nella loro irrepetibilità. Il viaggio avviene solo nell’incontro, nello spazio aperto tra me e altro., che rimane irriducibile.

Così l’unicità rimane fuori da ogni tentativo di ripetizione dell’identico. L’io è costretto ad uscire fuori, ad incontrare altro da se stesso. L’unicità è anche fuori da ogni assoluto e può permanere nella propria mobilità fragile ma al contempo lucida, responsabile e aperta. La sua alterità sfugge ad ogni tentativo panoramico del pensiero. L’irripetibilità del viaggio rispetta i luoghi e gli spazi, non si ha più l’indifferenza generalizzata dell’accoglienza per tutti uguale. Gli spazi sono esperienze sempre diverse e uniche. L’irripetibilità dice dell’alterità originaria del viaggio: nell’uscire fuori da sé, nell’incontro con altri e altro, nella situazione di ritorno mai uguale all’inizio. Anche il viaggio è sempre altro, sempre diverso rispetto a se stesso. Sfugge qualsiasi definizione del viaggio. Il viaggio è l’alterità, che chiama, che interpella, che costringe al confronto.
Il rischio più pericoloso per un pensiero del viaggio è considerare la rottura che il viaggio instaura come semplice rottura, celebrandola, idolatrandola o condannandola. Ma la rottura è l’alterità che chiama. Nell’uscita da sé che il viaggio comporta, anche e soprattutto il viaggio interiore, non si sta nell’apertura se non si risponde all’appello dell’alterità, all’unicità di un luogo, di una voce, di un volto.

PUBBLICATO IL : 29-12-2005

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