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Sandro Mancini, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell'espressione , Mimesis, 2001.
di Nicola Comerci

Aggiornato nella bibliografia critica e integrato da riferimenti ai testi postumi di Merleau-Ponty pubblicati successivamente al 1987, anno di sua prima pubblicazione, il libro di Mancini viene riproposto ai lettori con l'aggiunta di qualche modifica contenutistica e di una Postfazione dedicata ai concetti di vita e animalità contenuti nei corsi che il filosofo francese dedicò negli ultimi anni della sua vita al tema della Natura. Si tratta di un testo che rappresenta una tappa obbligatoria per quanti vogliano accostarsi alla riflessione di Merleau-Ponty, un testo la cui importanza è ormai acquisita nel panorama internazionale degli studi critici su Merleau-Ponty, in particolare in relazione alla chiave di lettura che propone, la dialettica dell'espressione, che ha reso possibile cogliere le linee di continuità del pensiero merleau-pontyano al di là di ogni pretesa discontinuista (dalla fenomenologia all'ontologia) della sua filosofia. Come ebbe a scrivere Xavier Tilliette infatti, in occasione della sua prima edizione, «le livre très élaboré, très stimulant, de Sandro Mancini, Sempre di nuovo, fait justice de la représentation d'un Merleau-Ponty novateur, de l'équivoque de la Kehre merleau-pontienne, tout en marquant soigneusemente l'afflux de sens qui irrigue désormais les canaux souterrains de sa phénoménologie perceptive».

Il libro è diviso in due parti: nella prima viene ricostruito l'itinerario merleau-pontyano dalla Fenomenologia della percezione a Il visibile e l'invisibile, mentre nella seconda viene sviluppata una serie di «intrecci» del suo pensiero con temi della filosofia di Schelling, Heidegger, Husserl, Freud, la Gestalttheorie e Lévy-Strauss. La linea interpretativa proposta dall'Autore è racchiusa, dicevamo, nella dialettica dell'espressione dell'originario, che individua nelle tesi merleau-pontyane «una storia unica dell'espressione» fondata su un simbolismo già presente a livello del sensibile prima di sublimarsi nel linguaggio. Simbolismo che spinge la filosofia, secondo il monito di Husserl, a rivolgersi alle «cose stesse» prospettando la ricerca filosofia nell'alveo di un cominciamento che si ripropone «sempre di nuovo», con l'intento dichiarato di raggiungere il senso allo stato nascente. Il raggiungimento di tale dimensione archioriginaria di senso presenta però, nel non poter fare altrimenti, tutte le difficoltà contenute nell'intenzione di raggiungere una sfera, quella dell'«irriflesso» che, in quanto tale, si sottrae per definizione ad ogni forma di riflessione. Ciò determina la trasformazione del concetto di verità, che dall'adeguazione classica si apre ad una dinamica di ripresa e anticipazione concepita in termini dialettici, in modo che l'«iperdialettica» di cui Merleau-Ponty parla ne Il visibile e l'invisibile riassume in sé i caratteri di autotrascendenza della ragione verso ciò che ne rappresenta l'altro da sé. Ed è qui che si deve individuare il nucleo della riflessione merleau-pontyana che consente di coglierne l'evoluzione ontologica. Se infatti, come ebbe a dire lo stesso Merleau-Ponty, il procedimento fenomenologico, in se stesso descrittivo e dunque, in qualche modo, legato alle operazioni di un soggetto, non può non caratterizzarsi per un inevitabile intervento esterno che con l'intento di disoccultare finisce invece con il coprire, sarà allora in una «nuova ontologia», o «endoontologia» che si dovranno ricercare le dinamiche di espressione dell'Essere e del suo senso «grezzo» o «selvaggio». Mancini spiega come questo movimento di espressione sia in realtà un movimento di auto-espressione di un «Assoluto dialettico» che non rimanda ad alcuna metafisica nostalgica ma ad un «Irrelativo» che si pone come presenza-assente, condizione di senso essa stessa non presentificabile se non come assenza, rimanendo tuttavia tale assenza, l'unico modo che esso ha per rendersi presente (e visibile). Il tutto attraverso un movimento di deiscenza ontologica che origina la dimensione specifica della chair, che Merleau-Ponty rielaborò a partire dal Leib husserliano (con tutte le critiche che si attirò con questa operazione, basti pensare a Derrida) estendendola dal «corpo-proprio» al sensibile, con il risultato di de-antropologizzarne il significato a favore di una concezione dialettica (assolutamente antiteologica) di ragione e non-ragione, nel segno di una coappartenenza che sfocia in una prospettiva teleologica nuova che non inficia il ruolo dell'uomo pur spossessando il Cogito del suo primato. Se infatti la concezione ontologica della chair delocalizza il soggetto decentrandolo rispetto al luogo di origine del senso, ciò in Merleau-Ponty non comporta, ed è uno dei meriti di Mancini averlo sottolineato, la svalutazione della prassi umana e la sua funzione rispetto al venire ad espressione del senso dell'Essere. Merleau-Ponty scrive infatti che «l'Essere, per essere veramente, ha bisogno dell'uomo…», e tale bisogno si specifica come una necessità inscritta nel Logos, in quanto nella prassi umana ne va dell'Essere, del suo necessario movimento dialettico e teleologico.

Proprio in questa necessarietà del movimento di (auto)espressione dell'Essere Mancini individua il discrimine capace di differenziare la proposta merleau-pontyana da quella di Heidegger, chiarendo i contorni esegetici di una vicinanza che non si pone però nei termini di una identificazione. Se le interpretazioni precedenti vedevano un Merleau-Ponty scisso tra un «primo» periodo fenomenologico di stampo husserliano ed un «secondo» di profilo heideggeriano, l'Autore rileva invece che il comune intento di deposizione del primato del Cogito, così come l'intenzione di superare l'odiata dicotomia cartesiana a favore di una apertura della coscienza all'altro da sé, non sfocia tuttavia in una prospettiva ontologica comune. Il punto di distanza è costituito da Hegel, che Heidegger interpreta come l'ultimo gradino della scala soggettivista, mentre invece per Merleau-Ponty la nozione hegeliana di Assoluto ne consente una fluidificazione esperenziale capace di rinnovare la struttura e le dinamiche stesse del filosofare. Il risultato è una concezione ontologica caratterizzata dal necessario e dialettico movimento di espressione dell'Essere ed imperniata su una «dimensione prassica» dell'uomo (in quanto «anche quando Merleau-Ponty rivolse il suo interesse all'ontologia, non cessò mai di essere umanista», p. 176) parallela ad una visione dialettica della storicità, mentre invece Heidegger dalla gratuità dell'avvento del Sein non «sorge alcuna teleologia» (p. 179). Ora, tale visione dell'Assoluto si libera in Merleau-Ponty da ogni prospettiva provvidenzialistica di tipo hegeliano attraverso il recupero della posizione di Schelling, al quale il filosofo francese «si ispira» per rifiutare ogni superamento della natura nell'umanità a favore di una loro coappartenenza  intesa nei termini carnali della reversibilità. Il richiamo al «principio barbaro» di Schelling si riallaccia e consente di comprendere lo sviluppo «non-filosofico» dell'ultimo Merleau-Ponty volto a ridefinire il chiasma di raison e déraison che costituisce la cifra di tutta la speculazione merleau-pontyana. Il richiamo ai due idealisti tedeschi compiuto da Merleau-Ponty rappresenta così il nucleo centrale della lettura offerta del suo pensiero da Mancini, in quanto l'Autore mostra la fecondità e la contemporaneità della nozione di Assoluto dialettico, rispetto alla quale Merleau-Ponty ha il merito di aver avviato la «riforma» della dialettica in vista di un superamento di ogni chiusura totalizzante a favore dell'opera di riconoscimento dei diritti di quella contingenza su cui tanto Merleau-Ponty insiste.
Nella seconda parte del libro Mancini chiarisce e specifica il legame di Merleau-Ponty con diverse prospettive teoretiche, tra le quali la più importante è senza dubbio quella husserliana. È noto come Merleau-Ponty rilevi in Husserl i tratti di una involuzione coscienzialista di tipo cartesiano, e Mancini mostra le sue riserve rispetto a tale interpretazione spiegando come in realtà l'io trascendentale husserliano si muova già all'interno di quell'orizzonte pre-tematico di coappartenenza tra riflesso ed irriflesso.

el capitolo conclusivo dell'opera, che come si è detto costituisce un aggiunta rispetto all'edizione originaria del volume che presentiamo, Mancini analizza il concetto di Natura («di cui quello di chair costituisce l'ultima modulazione») così come venne sviluppato da Merleau-Ponty nei suoi corsi tenuti tra il 1956 e il 1961 presso il Collège de France, cioè come «principio di produttività, […] invisibile pregnanza di possibili che è già operante nell'accezione greca di φυσις». Se gli ascendenti filosofici sono ancora Schelling, Bergson, Whitehead, Husserl e Heidegger, è tuttavia nel confronto con la biologia e l'etologia (J. von Uexküll) che «l'istanza antiantropocentrica» che fonda la «tesi dell'indivisione originaria, e del logos selvaggio in cui si dimensionalizza» deve confrontarsi (p. 299). Il nodo dell'interpretazione merleau-pontyana si concentra sulla originaria sensatezza della natura, nel «suo sordo premere irriflesso, dalla cui deiscenza si origina l'articolazione dell'inconscio e del cosciente» e da quella «ulteriorità di senso» che da essa si origina, cioè la «Vita», secondo quel processo teleologico e dialettico che Mancini ha già messo in luce. In questo modo la Natura va pensata a partire «dalla deiscenza della chair, dall'il y a inaugurale» che da origine al processo di significazione, in cui la vita si presenta come «piega» (pp. 300-301), a partire da «una iniziale visibilità massiccia e grezza, nei termini di un vuoto conficcato in un pieno». In questa vacuità si definisce l'ulteriorità ontologica della carne, nel suo rapporto sia con la pienezza del Boden, sia con il «suo inseparabile rovescio», cioè l'Abgrund, in una domanda di senso che rivela i suoi inevitabili legami con la sua possibile mancanza o il suo venir meno. È dunque qui che la Grundfrage si apre alla domanda sul senso della vita, domanda che però Merleau-Ponty non si pone giacchè è la vita stessa ad essere fonte di senso. in questo modo, spiega Mancini, in coerenza con l'intero itinerario antidicotomico merleau-pontyano, il filosofo francese «si rifiuta di rinchiudere l'interrogazione dell'originario entro l'astratta sintesi dell'essere e del nulla», proponendo la sua filosofia «come una philosophie du <quelque chose>» (p. 303), secondo una definizione che Mancini oppone a quella classica di «filosofia dell'ambiguità». Per Merleau-Ponty infatti l'istanza antinichilista (e antiidealista, contrariamente a quanto vorrebbe ancora qualche interpretazione superficiale e frettolosa) l'il y a rivela una dimensione di senso primordinale che sancisce la cifra stessa della sua visione ontologica, strutturata nel quadro di una articolazione archioriginaria dell'Essere che spinge Mancini a «qualificare l'intera impresa filosofica di Merleau-Ponty come una filosofia dell'articolazione» (p. 304), nel segno di una coappartenenza, o meglio di una inerenza tra le diverse sfere dell'Essere che rivela, ancora una volta (come emerge, ad esempio,  dagli esiti, in senso generale, bioetica, dell'unione «laterale dell'umanità con l'animalità» teorizzata in questi corsi), l'attualità del pensiero merleau-pontyano nell'universo del discorso filosofico contemporaneo.

PUBBLICATO IL : 18-02-2006

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