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Henry Corbin, L'immaginazione creatrice. Le radici del sufismo , Laterza, 2005.
di Pietro Secchi
L’altro Islam. Uno squarcio di luce mistica ed emotiva sul volto eterodosso, teosofico e gnostico del pensiero arabo che l’Occidente ignora quasi del tutto. Così si presenta al lettore lo studio di Henry Corbin, di cui viene proposta per la prima volta la traduzione italiana. Il libro, che raccoglie due ampi saggi sulla figura di Ibn Arabî (1165-1240), ha in realtà come primo intento quello di complicare la nostra visione dell’Islam. Chiunque si occupi di Medioevo sa che c’è stata una filosofia “araba” e una scienza “araba”, senza sospettare che c’è stato molto di più e che proprio in quel “molto di più” “c’è una somma di esperienze umane, la cui ignoranza non è estranea alle angoscianti difficoltà del nostro tempo” (p. 34). Infatti, se la cultura filosofica latina ha decretato il trionfo dell’averroismo sull’avicennismo, in accordo a quanto già avveniva nell’Islam arabo, l’Oriente iranico ha invece seguito un cammino inverso. L’angelologia di Avicenna, combinata con un forte revival del platonismo, ha dato luogo ad una corrente eccezionale per fecondità, che secondo Corbin sfugge ogniqualvolta si tenti di comprenderla con le categorie con le quali siamo abituati a lavorare: il sufismo. Per non perdersi in questo universo è opportuno, si suggerisce, lasciar cadere la separazione tra storia della filosofia e storia della spiritualità. La mistica più che pensiero è vita vissuta, com-passione, dialettica d’amore in cui Dio e la creatura si conferiscono reciproca esistenza. È questo l’argomento della prima parte, intitolata Simpatia e teopatia. L’opera di Ibn Arabî viene colta nel suo nucleo più originale, il rapporto di interdipendenza tra Creatore e creatura. Nell’essenza di Dio sono collocati i Nomi, che costituiscono le esistenze in forma archetipica di tutto il possibile. Ebbene, questi Nomi soffrono per la loro condizione di latenza ed aspirano ad essere rivelati e conosciuti. Siamo di fronte alla drammaturgia divina più emozionante del mistico sufi. Il suo Dio non è il Dio della tradizione occidentale, l’Infinito e l’Onnipotente; al contrario, è un Dio patetico, che si strugge per la condizione di occultamento cui soggiace: per Ibn Arabî può chiamarsi Nostalgia e Tristezza. Questa Passione è il principio dell’esistenza, il dolore che spinge Dio a rivelarsi e a dar luogo alla molteplicità attraverso la quale Egli stesso si conosce. Il compito dell’uomo è dunque quello di dialogare in un colloquio essenziante con Dio, riconoscendo l’originarietà assoluta del rapporto io-tu. È soltanto grazie alla conoscenza che l’uomo ha di sé, come creatura ed immagine divina, che anche Dio giunge a sapere qualcosa di sé. La Passione divina deve essere colta e recuperata dall’uomo affinché diventi Com-passione, la sola condizione autentica del mistico. Corbin ricorda in proposito Il pellegrino cherubico di Angelo Silesio, precisando però che per Ibn Arabî nessuna hybris è possibile. Infatti, se è vero che Dio giunge a compimento solo per mezzo dell’uomo, è altrettanto vero che quest’ultimo non può non accorgersi che il tutto non parte da lui, che egli in realtà è un verbo pronunciato al passivo, un cogitor e non un cogito. L’identità tra unio mystica e unio simpathetica deve perciò culminare in una devotio, simile a quella cavalleresca.
La seconda parte del libro, Immaginazione creatrice e preghiera creatrice si occupa invece del ruolo peculiare della facoltà dell’Immaginazione. Essa, ancora una volta, non ha nulla a che vedere con il modo in cui è concepita dalla nostra cultura. L’Immaginazione attiva è ciò attraverso cui l’uomo coglie le Teofanie, le vere manifestazioni del divino. Lungi dall’essere visione di ciò che non esiste – per Corbin questo intendiamo oggi con “immaginario” – detta facoltà è il canale attraverso cui ogni individuo può incontrare Dio nella forma specifica, angelica, antropomorfica, nella quale gli si rivela. Il mundus imaginalis è il luogo intermedio tra sensibile e intelligibile, nel quale si consumano incontri incomprensibili e incomunicabili, in cui il dramma di Dio si congiunge al dramma dell’uomo nella duplicità della preghiera. Ne scaturisce una religiosità lirica, irripetibile, che sfugge ad ogni inquadramento e ad ogni legalismo. Per questo i sufi e Ibn Arabî sono stati sempre osteggiati e attaccati dai “dottori”, dall’Islam ufficiale e più noto. Che però non è solo e Corbin in questo studio ha il merito impareggiabile di farcelo sapere.
PUBBLICATO IL : 21-02-2005

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