Il proposito di questo recente libro di Fabrizio Desideri, di cui restituiremo alcune linee-guida, è piuttosto semplice: dimostrare, nelle due parti di cui si compone il volume, la prima dedicata all’estetica, la seconda dedicata all’arte, che l’estetica è filosofia “prima”, e che tale ‘primato’, già per la sua struttura teorica, lungi dall’indicare una mera anteriorità temporale, annuncia ogni questione filosofica. Non si tratta, ovviamente, di una deduzione del diritto ‘disciplinare’ dell’estetica a offrirsi per prima a chi interroga l’esperienza, ma di scoprire, con una tenacia e un approfondimento nell’argomentare che sono tra le prime, piacevoli sorprese del libro, come diventi virtuoso, filosoficamente parlando, tracciare quel classico ‘circolo’ che Desideri subito presuppone – perché è l’esperienza a farlo – tra originario e derivato, tra ciò che l’esperienza ci dona come anteriore alla predicazione e la sua stratificazione storica, linguistica e culturale.
Tra fenomenologia ed ermeneutica, tra una presunta, autonoma purezza del percepito e l’iper-determinazione socializzata che ne segue, Desideri sceglie di reimpostare l’intera questione, togliendo l’aura ingenua e alquanto mitologica di un’inesistente originarietà del dato, e rivendicando piuttosto la dimensione costruttiva (schematica, attributiva), in fieri, di qualsiasi percezione. Non c’è libertà senza condizione, afferma molto presto l’autore (p. 11), ma di libertà senza dubbio si tratta – e qui viene genericamente da pensare a un autore, Eric Weil, che si è mosso, con molta indipendenza, tra Kant, Hegel ed Aristotele. A dispetto del preciso rinvio a tutti i dibattiti più attuali, la linea seguita qui da Desideri non è dissimile (benché vada aggiunta senz’altro la linea platonica): prendendo le mosse da una storia della filosofia impiegata come stimolo e pungolo perpetuo per il lettore e lo specialista (si veda l’utilissimo apparato di Note, dove cambia il registro espressivo e si esplicitano i riferimenti), già a un primo, superficiale sguardo, il testo suggerisce di cercare, al di là delle formule citate di rito, la sostanza teorica che innerva le soluzioni dei classici come sostanza ancora agente e reagente (non essendo finita l’arte, ma solo “una” sua storia, l’eco di certe risposte è ben viva).
Non è insensato quindi pensare che il concetto di libertà si valga di una logica che è innanzitutto estetica. Una logica innanzitutto della qualità, dove il “vedere come” wittgensteiniano si traduce in una competenza, un sapere speciale che annuncia la co-appartenenza dell’Io al mondo, quella reciproca costruzione tra soggetto e oggetto che può dirsi “relazione”. Una relazione che è appunto un “passaggio” estetico (che è il titolo del recente volume di saggi kantiani dell’autore, uscito per i tipi del Melangolo) e che si co-implica col linguaggio. La relazione qualitativo-modale si affaccia pertanto – è la prima mossa di Desideri – come “genesi estetica della soggettività” (p. 20). Il soggetto nasce esteticamente, e lo fa come “sfondo”, come “nodo” di relazioni con l’altro da noi, un nodo che è una continua ridefinizione di limiti (e di reciproci arricchimenti). Un rapporto complicato, quello tra esperienza e linguaggio, perché i due elementi si fondono l’uno nell’altro, dalla ricezione nasce una creazione, ma l’esperienza è sempre pronta a stupire il linguaggio, disarticolandolo.
Desideri tematizza subito il “come” percettivo di questo gioco di limitazione e trasgressione che l’esperienza ci impone. E gioca su una metafora, quella dell’input-output messo in campo dalla percezione, che attesta l’immissione nel soggetto esperiente non tanto di contenuti, ma di tonalità emotive che possiamo ben chiamare “differenze”. Prima d’ogni categorizzazione riflessiva del dato, a stupire, a piacere, a ferire il soggetto sono i toni percettivi della traduzione dall’altro al sé, i qualia del sentire che impongono un allargamento, un ampliamento dello sfondo che il soggetto era, imponendogli ora un vincolo, un’identificazione dell’oggetto. Nella sua configurazione iniziale, l’esperienza si mostra infatti come enorme stream of perception, ricco di affluenti e di sbocchi nella sfera noetica. Uno di questi affluenti è il piacere, che è il segno specifico (l’autore lo chiama il “sigillo”) della haecceitas dell’oggetto estetico, quella singolarità che lo fa sfuggire, in virtù della sua primarietà, alla funzionalizzazione. È forte, nelle prime movenze teoriche del testo, l’idea di una costitutiva apertura dell’esperienza, di un’eccezionalità, di un’irriducibilità a norme predefinite: una sfera che, pur non aderendo essenzialmente alla norma, tuttavia la prepara, la mette a tema, in questione.
La percezione apre all’oggetto estetico come nozione volutamente vaga, che rispecchia il flusso, il rumore di fondo di cui sopra, aggiungendovi però quel “sopravveniente”, il piacere, che comporta l’attitudine attenta che sostanzia la percezione. Qui, in questa nozione di “oggetto estetico”, vi è un tratto importante, cui l’autore tiene: il radicamento ‘oggettuale’ della percezione e dello stesso schematismo applicato all’oggetto. C’è un necessario ‘oggettivismo’ dell’estetica prima di ogni Vorspiel immaginativo e cognitivo ed è un oggettivismo della relazione, un oggettivismo ‘paradossale’, ‘eventuale’. L’evento dell’attenzione estetica scaturisce cioè da un paradosso: quello per cui io, mentre percepisco, so ‘come’ l’oggetto mi si sta offrendo alla percezione, proprio perché sono attento. La nozione di oggetto estetico configura quindi un campo indefinito di ‘emergenze’ latenti nell’alterità del reale che il soggetto va esperendo. Detto altrimenti, nella realtà ci sono sfide che non sono state ancora lanciate (e quindi neppure raccolte).
Lo snodo concettuale della mossa dell’autore può individuarsi nella posta del riconoscimento (nel senso profondo della lezione hegeliana) che è in gioco nell’oggetto estetico. L’oggetto estetico provoca e sfida il soggetto ad aprirsi, a giudicarlo e a mettere in campo l’alleanza tra le sue facoltà che è implicata dal giudizio. Se non si tratta proprio di una lotta a morte (come nel conflitto hegeliano tra servo e signore), nel deperire dell’alterità ne va comunque di un deperimento del vitale. Riconoscere non vuol dire qui conoscere, ma attribuire senso a una regola in fieri che universalizzi le proprietà eidetiche (attinenti alla forma interna) dell’oggetto, nel momento in cui lo giudica. Per questo Desideri preserva, contro Schaeffer, l’ipoteticità della percezione, la salva da una sua funzionalizzazione cognitiva e gioca a favore dell’estetica il rischio corso assieme dal giudizio e dall’oggetto estetico. Il rischio è quello dell’attribuzione, contingente e indeterminata, di senso. Ed è un rischio che produce una sintesi immaginativa tra indeterminato e determinato, tra la necessaria contingenza del particolare esperito e il suo rimando a una regola possibile (p. 67).
Diciamo di un rischio corso assieme dal giudizio e dall’oggetto. Ma questo non implica una visione fusionale del loro rapporto. Proseguendo l’analogia con l’Anerkennung hegeliana, qui ne va di una distanza, della statuizione di un’alterità, di una differenza, proprio nell’istante dell’emozione estetica che sancisce la loro risonante alleanza nel nome del vincolo di senso (p. 56). La verità del bello non è né da una parte (nel giudizio di percezione) né dall’altra (nell’oggetto), ma nella loro relazione, nel vocativo che suscita (Desideri recupera la nota acustica e nominale del vero, una traccia che dal De Anima porta a Benjamin). E questa verità si connette alla dimensione (genericamente) riflessiva proprio per l’eccesso di senso, per la sovra-determinazione semantica che immaginativamente arreca.
Nella sua verità sovradeterminata, il bello è soltanto indeterminato? La risposta, sulla scorta di un Simposio rivisto e riletto in chiave kantiana, non può che esser negativa: il bello, per come si percepisce e si giudica, è il riconoscimento di una condizione interna all’esperienza, di un’unità di senso interrogabile e non esplicitabile, ma incarnata come simbolo nell’opera determinata. Il problema della riconoscibilità di un oggetto artistico – leggi opera d’arte – trattato in tutta la seconda parte del volume, apre anche la questione della teleologia, sotterranea all’estetica, proprio nel sancire lo scarto tra i due ‘oggetti’ (estetico e artistico). Se “l’autonomia funzionale dell’artistico e, in particolare, del suo grado di oggettività” consiste “nella fusione intenzionale del tecnico e dell’estetico”, se la specificità dell’opera è nella sua eccedenza (intransitività) rispetto al tecnico e all’estetico, la dimensione estetica resta in qualche modo presupposta all’opera. Nel senso di un estetica dell’intenzione artistica, che unifica la sintassi e la semantica dell’opera profilando efficacemente anche il suo funzionamento come opera d’arte (il tratto goodmaniano che Desideri accoglie con molte riserve). Nel rilevare il vincolo-scarto tra estetico e artistico, la sottolineatura dell’autore verte però sull’accesso estetico che qualcosa come l’oggetto artistico reclama, benché esso, in alcuni suoi esiti contemporanei, sia del tutto opposto al “piacere del bello”.
La definizione di Desideri libera il concetto d’arte da zavorre sostanzialistiche, e le apre intelligentemente all’attualità: ed è qui che, anziché rinverdire i fasti del “genio” sotto le vesti di una nozione spregiudicata – perché anomica – di “intenzionalità artistica”, si apre la sotterranea direttrice teleologica che lambisce il testo, evidenziando la “criticità” dell’estetica messa in campo (mettendolo bene al riparo dalla celebrazione dell’esistente). La rivalutazione, sulla scorta di Adorno, di generi e stili come forme dell’estetica effettive ed efficaci (pp. 106 sgg.) àncora l’artistico a una tipicità ideale che se non dà criteri e regole all’arte, tuttavia la rende esemplare, stimolando a cogliere esteticamente “l’universale soggettivo oggettivato in ogni opera”. Contra Heidegger, arte (poiesis) ed estetica vengono strette in un nesso, potremmo dire, di efficacia della forma. La forma interna dell’opera, come suo tipo, agisce, significa (e viene recepita), attraverso l’opera come oggetto estetico che si fa artistico, come unità interrogabile di senso. In questo vincolo vi è la costruzione della criticità virtuale interna all’orizzonte mimetico dell’opera: la dottrina platonica e quella aristotelica vengono rivisitate così da far emergere quanto Desideri chiama la “trascendenza del segno”, il “sovrasenso” dell’opera (p. 118) che non può sfuggire a un quoziente di mimeticità – limite dell’artistico – ma solo nel senso autentico della lezione aristotelica: nel modo del “come se”, il rapporto d’appartenenza del segno alla sua forma è mimetico e finzionale insieme. Qui Aristotele getta un ponte verso Kant: è così che viene salvata l’autonomia dell’espressivo, del performativo artistico, insieme al suo vincolo, evitando che l’autoriflessione – matrice e simbolo della sua potenza critica – si rovesci in auto-referenzialità. L’opera d’arte non resta mera intenzione significativa solo se è capace di “suonare” come vera – è mossa a dir poco azzeccata che Desideri interroghi Tangled up in blue di Dylan a riguardo –, di suonare come riconoscibilità della potenza critica immanente alla trascendenza del segno davanti al nostro mondo percettivo. Solo quando – come esemplarmente nella poesia – il simbolico dell’armonia tra segno e significato resta in tensione con l’allegorico della plurivocità semantica.
La teleologia immanente a questo testo sulle forme dell’estetica sta forse proprio nella tensione produttiva – sotto tutti i profili – tra simbolico e allegorico, nell’equilibrio instabile tra il segno, maestoso, sovrano e violento, e la sua idealità critica. Sottilmente, il fine cui mira il senso estetico ha i contorni dell’universalità come problema, come baluardo critico, certo, ma innanzitutto come idea, se non progetto, agente fin nelle determinazioni più elementari dell’esistente.
he si faccia filosofia a partire dal senso non può nascondere che il senso è anche la mèta (quella che a volte si preferisce scrivere con la maiuscola) e che il suo “progetto” passi esteticamente per l’intreccio di realtà e finzione, per l’alleanza tra l’efficacia simbolica che impone la forma e la frattura allegorica che la forma preferibilmente la mina, la decostruisce. “In fondo si tratta soltanto di chiarire quello che tutti, bene o male, già sappiamo” (p. 29). Ovvero che il paradosso s’intreccia inestricabilmente col senso – per dirla con Emilio Garroni, radicato e finemente presente nell’ispirazione del volume –, che proprio in quanto è la prima a ricever questo “dono”, l’estetica, davanti alla violenza di un senso offerto in questa forma, a buon diritto apre alla filosofia.
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