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Guenther Anders, Kafka. Pro e contro , Quodlibet, 2006.
di Dario Cecchi

Sembra crescere una moda "andersiana" con la ripubblicazione, a cura di Barnaba Maj, per i tipi di Quodlibet -giovane casa editrice molto attenta alla filosofia e all'estetica in particolare- di questo provocatorio pamphlet, Kafka.  Pro e contro, in cui il filosofo tedesco Günther Anders se la prende con una moda che considerava crescente alla sua epoca: quella kafkiana. Per Anders non era in questione tanto l'ammirazione per l'opera dello scrittore praghese -ammirazione che, come si coglie nelle pagine del libro, peraltro condivideva-: è facile immaginare che, in un'epoca, quella in cui scrive pubblica il saggio, di riscoperta della "condizione umana" (si pensi a Hannah Arendt o ad André Malraux), di cui l'angoscia costituirebbe tanto un fondo esistenziale, con Heidegger, quanto lo sfondo apocalittico contemporaneo, con la stessa Arendt, Anders tema una sorta di innamoramento per questa 'apocalissi', in cui l'uomo è tenuto a seguire una legge che, tuttavia, lo porta solo a scoprire l'impossibilità di vivere (e se ne potrebbe ricostruire una lunga tradizione, che rimonterebbe perlomeno a San Paolo).

Di tale moda kafkiana Günther Stern -questo era il vero cognome di Anders- si considera addirittura un precursore: quando il nome di Kafka non era ancora divenuto celebre in tutta Europa, il giovane Stern, esule a Parigi, tenne una conferenza sull'opera dello scrittore praghese. Da quella conferenza, afferma Anders, nacque il nucleo del suo libro e all'epoca probabilmente solo due uditori, il cugino Walter Benjamin e l'allora moglie Hannah Arendt, riuscirono a cogliere le implicazioni anche personali di quella conferenza. Anche Arendt e Benjamin dedicarono dei saggi allo scrittore di Praga e viene da chiedersi se l'accusa di una "moda kafkiana" impernate non fosse rivolta anche a loro e più precisamente a Hannah Arendt, che era ancora viva quando il libro fu pubblicato, e che a più riprese esprime l'idea che l'eroe kafkiano possa rappresentare la condizione dell'uomo che tenta di riaffermare la propria capacità di agire nel presente contro l'immagine della storia come inarrestabile fluire dal passato al futuro (Arendt a proposito cita a più riprese l'aneddoto kafkiano di Er).
La sospensione del tempo attraverso immagini letterarie è al contrario, per Anders, la forza letteraria e, insieme, la debolezza etica dell'opera di Kafka. La bellezza delle immagini kafkiana è "gorgonica", scrive Anders; riesce, cioè, a risalire all'origine mitica ed inquietante dell'arte, recuperando, per così dire, la forza 'pietrificante' delle immagini, ma non è poi capace di liberare la letteratura da questo debito originario con l'incontro del divino.

È a partire da questo snodo che si gioca con più forza la critica all'opera del praghese. Fino a che il riferimento è alla rievocazione della mitologico come fondo cui attinge la cultura occidentale, l'autore ha potuto giocare sul piano della critica estetica, offrendo peraltro spunti interessanti per approcciare l'opera di Kafka, letta -anche se implicitamente- nel filone della riflessione poetica otto-novecentesca. Con il IV Capitolo, Anders affronta il tema più scivoloso delle 'opinioni e credenze' dell'autore. Il Capitolo porta perciò un titolo sintomatico: Ateismo che si vergogna. È forse questo il punto più debole dell'argomentazione di Günther Anders, perché presuppone che lo scrittore abbia un messaggio, una 'dottrina', da spiegare al lettore attraverso i suoi racconti. E siccome Kafka sarebbe un autore che si vergogna della propria dottrina scandalosa, ripiegherebbe allora su una teologia del Dio malvagio: Kafka è un marcionita; è seguace di Marcione, che sostiene l'esistenza di un Dio demiurgo malvagio, che crea un mondo malvagio. Naturalmente è Anders a ricostruire questa 'paternità' attraverso i riferimenti a Kafka.
Max Brod, l'amico ed (infedele) esecutore testamentario di Franz Kafka, ebbe così gioco facile a contestare le tesi di Anders in uno scritto, riportato in Appendice con la Replica di Anders e la sua Controreplica. Quello di cui parla Günther Anders è e non è il pensiero di Franz Kafka, è l'opera di Kafka e la ricaduta che avrebbe avuto sul suo pubblico. Ma in questo consiste forse il maggiore limite dell'interpretazione di Anders. Nel momento in cui l'interpretazione abbandona campo dell'estetica per quello dell'etica, ci resta da chiederci se Anders sia abbastanza generoso con un genio della letteratura mondiale come Kafka, la cui fortuna è andata ben oltre i confini dell'Europa.

Kafka non è, per Anders, un un "teologo dell'ebraismo", bensì un "teologo dell'esistenza ebraica", fece cioè assurgere ad assoluto la condizione di perseguitati che ha caratterizzato la storia della diaspora ebraica. Kafka stesso si innamorò, in altre parole, non di un ebraismo per lui lontano e vagheggiato (diversi studiosi si sono soffermati sul fascino provato da Kafka per il mondo dell'ebraismo tradizionale), ma della condizione di perseguitato imposta al popolo ebraico. Forse questo è il giudizio troppo sbrigativo che pronuncia Anders, dopo una brillante disamina delle opere di Kafka: dei giorni trascorsi a Parigi e ricordati all'inizio di questo libro forse l'autore non aveva memoria del tentativo che lui, Hannah Arendt e Benjamin fecero per pensare la condizione ebraica moderna, stretta proprio tra l'impossibilità di un ritorno al passato, al mondo degli shtetl, dei villaggi dell'Europa centro-orientale, e il desiderio che l'integrazione non significasse semplice assimilazione alla cultura dominante. Forse è ancora il caso oggi di rileggere le pagine di Kafka, magari consapevoli dei limiti di questo grande, o forse del fatto che un libro può rappresentare una grande lezione umana, ma difficilmente procura direttamente risorse per l'azione.

PUBBLICATO IL : 04-10-2006

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