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Jocelyne Vincent Marrelli, Words in the Way of Truth , ESI, 2004.
di Arturo Martone

Oh Montaigne! Toi qui te piques de franchise et de vérité, sois sincère et vrai si un philosophe peut l'être, et dis-moi s'il est quelque pays sur terre où ce soit un crîme de garder sa foi, d'être clément, benfaisant, généreux, où l'homme de bien soit méprisable et le perfide honoré.
(J.-J.Rousseau, Profession de foi du vicaire savoyard , 1762)

Einer kann sich bewusstlos stellen; aber auch bewusst  ?
(L.Wittgenstein, Zettel, 395)

[…] only animals who are below civilisation and the angels who are beyond it can be sincere. Human beings are, necessarily, actors who cannot become something before they first pretended to be it; and they can be divided, not into the hypocritical and the sincere, but into the sane who know they are acting and the mad who do not.
(W.H.Auden, The age of Anxiety, 1947)

 

Nove Capitoli e quattro Appendici e oltre trenta pagine di Bibliografia (con relativo Indice analitico), il tutto per oltre quattrocentocinquanta pagine, questo l'insieme di un lavoro di Jocelyne Vincent Marrelli  (Words in the Way of Truth, Napoli, ESI 2004) - tenuto 'aperto' per la durata di oltre una diecina d'anni e, per esplicita dichiarazione dell'A., ancora tale rimasto e in questo stato consegnato alle stampe - il cui titolo esemplarmente rintraccia quello di un Autore riccamente ivi documentato (Grice, 1989).
Il ponderoso e complesso reticolato di questioni che l’A. pone ed espone («questions rather than answers», nella misura in cui «the questions are the answers», loc.cit.: 12) da un lato, e dall’altro lo spazio di questa Nota, inevitabilmente ridotto e contenuto, impongono la scelta di una via da seguire, una via che non sia d’intralcio (com’è segnalato dalla equivoca locuzione ‘in the way of’) a quanto attraverso di essa si cerca: come spesso accade in questi frangenti, le opzioni si riducono a due: o l'improbabile tentativo di riannodare in un solo filo narrativo tutte le questioni sollevate, oppure il compito azzardato di focalizzare su una o due di tali questioni, proponendo su di esse (e solo su di loro) una discussione. Già per il modo in cui la scelta viene qui impostata, è chiaro che si adotterà la seconda via, provando comunque tuttavia a offrire in estrema sintesi, e immediatamente, l'ampiezza e lo spessore del reticolato complessivo.

E allora, i nove Capitoli:"Opening the way" (i), "Engaging ways with truthfulness and deception in pragmatics" (ii), "More ways than one. Types of truthfulness and non-truthfulness" (iii), "Following the Gricean way" (iv), "Getting in the way of truth. Deception and lying" (v), "Goals along the way to deception" (vi), "A way with words. 'Honest' Iago's witcraft" (vii), "Playing away. Seriously ?" (viii), "Different cultures, different ways of truth and deception" (ix); e poi le quattro Appendici: "Words for the ways of truth and deception. Some suggestions for analyses" (a), "Ways to truth ? Notes on Theories of Truth (b), "Some synoptic tables" (c), "A few 'words of wisdom'" (d).
Di un tale reticolato andrà detto in primo luogo che con esso si vuole mettere sott’osservazione i punti d’intralcio che sviano una ricerca della ‘verità’ lineare e troppo sicura (o semplicemente non consapevole) di sé, e in secondo luogo che questo lavoro, capillare e meticoloso, non entra negli statuti ordinari della Pragmatica linguistica - uno statuto disciplinare relativamente giovane che ha in P.Grice (1913-1988), appunto, e nel ripensamento da lui proposto di Wittgenstein prima e di Austin poi, un punto d'avvio unanimemente riconosciuto per tale. La ricerca in questione, infatti, pur entrando di fatto pienamente in ambito pragmatico, ne fuoriesce altrettanto chiaramente, sia per esplicita dichiarazione dell'A.e sia per lo strumentario utilizzato allo scopo, in quanto intende aprirsi a una riconsiderazione interculturale  (se non pure multiculturale), e in prospettiva transdisciplinare, delle procedure veritative e delle presupposizioni dei parlanti (in quanto rete estesa e complessa delle loro credenze implicite) anche queste rimaste estranee a una considerazione di tipo pragmatico (a dispetto della puntigliosa analisi griceana delle 'implicature' conversazionali, ma in prospettiva per c.d.'monoculturale'),  e che si rendono invece, in una prospettiva cross-cultural, affatto inaggirabili.

Resta un merito di tale ricerca aver dunque sottoposto al vaglio critico una categoria, pressoché incrollabile del nostro universo culturale, quale quella della verità e quella più sfuggente ancora della truthfulness (qualcosa come 'veracità' o 'autenticità', più che 'veridicità'), visitandole entrambe alla luce dell'’analisi della conversazione’ di Grice ma, al medesimo tempo, sottoponendola al vaglio degli sguardi appunto incrociati dell'intercultura (cross-cultural Studies). Ed è qui il caso di dare un opportuno risalto a quanta debita distanza l’approccio della Vincent si tenga da un facile quanto insidioso ‘relativismo culturale’, che, nella valorizzazione dello spessore di ciascuna cultura (qui misurata attraverso i suoi indicatori linguistici), facilmente quanto surrettiziamente prova sovente a far sentire l’onere delle sue istanze. Va invece qui ben evidenziato che la presa di distanza, argomentata e motivata, dalla pesante eredità dell’‘universalismo’ (appena cangiantesi talvolta in ‘naturalismo’), una eredità ancora ben presente nella nostra tradizione culturale, e in quella ‘umanistica’ nella fattispecie, non comporta di fatto, appunto, l’abbraccio di un parcellizzante relativismo (e ci piace qui rinviare a una possibile discussione, tanto ‘alta’ quanto stringente, di tali questioni, in Elkana: 1989).
In questo quadro di riferimento più generale si proporranno qui, quale spunto di una discussione aperta e appunto incrociata, alcuni temi affioranti nel quinto capitolo, quello che ci pare anche essere il più ricco di spunti teorici di discussione, "Getting in the way of truth. Deception and lying", nel quale, oltre a esser presi in rassegna i temi sovvertitori della truthfulness, e cioè la menzogna e l'inganno, si prospettano alla fine di esso anche some moral issues, una tavola di valori incontrati (incrociati) da uno sguardo interculturale. Si proverà quindi, e in forma di conclusione, a mettere sott'osservazione alcune delle categorie emerse relativamente ai diversi sguardi di tipo inter- e multiculturale, proponendo di esse qualche spunto di riflessione.

Diciamo subito che il lavoro in questione presenta diverse serie, e per giunta incrociate, sia di tipologie che di classificazioni, il cui inquadramento teorico all'interno di un disegno più complessivo, non sempre appare di agevole reperibilità. Si proporrà dunque un possibile frame di riferimento ad hoc, anche allo scopo di rendere poi più agevole la presentazione di quel cap.V.
Diremo perciò che a partire dalle tante tipologie e classificazioni proposte, la strategia menzognera (che in questo capitolo agisce anche come la ‘via maestra’ per incontrare la truthfulness) appare come un atto interpretativo, il che vale pure, nella economia di questo approccio pragmatico, a ridimensionare le pretese e gli appannaggi di ogni approccio semio-linguistico focalizzato sul semplice e solo 'messaggio' (secondo il noto schema jakobsoniano delle sei funzioni e sei fattori della comunicazione: Jakobson, 1958).
Un'analisi della comunicazione interumana, ed è in ciò la fondatezza di uno slargamento appunto pragmatico, non può mai ignorare né perdere di vista, secondo il contributo di Grice (1993), il fatto che pur non potendo separare categorialmente il valore 'intrinsecamente' semantico ('letterale') di un enunciato da quello 'successivamente' pragmatico ('contestuale'), occorre connettere e integrare il 'significato' di un enunciato alla/e sua/e intenzione/i  di proferimento da parte del parlante. Le analisi successive di Sperber e Wilson sulla Pertinenza (intesa non come, per così dire, un 'valore aggiunto' alla comunicazione, ma come quella 'competenza cognitiva' che il parlante - tanto come mittente quanto come destinatario - acquisisce  e/o assume per essere appropriato alle aspettative proposte e/o richieste dallo scambio comunicativo) intesero, com'è noto, elaborare e rinforzare quest'aquisizione griceana (Sperber-Wilson: 1986, 2002). E pare qui opportuno (e forse pure pertinente) chiamare in causa, anche se nel testo in questione non se ne fa esplicito riferimento, la ben nota e feconda definizione proposta da Eco del ‘segno’ (che ha ormai fatto di sicuro più di un giro del mondo) come di “tutto ciò che possa essere usato per mentire” (1975: 17).
Pur conservando la nozione di 'signficato dell'espressione' (il significato che la espressione possiede convenzionalmente o letteralmente), Grice la integrò con la importante nozione di 'significato del parlante' (quello con cui il parlante usa l'espressione), tanto da far quasi coincidere le due nozioni di 'significato' (Grice: 1993). Il 'significato del parlante', allora, non potrà non coincidere, di fatto, con quanto il parlante vuol dire, coincidendo cioè: (i) con quanto egli intende comunicare a qualcuno, a diff.di quanto accade dove (ii ), come nel 'significato naturale', non vi sono intenzioni da parte di chicchessia (è il caso del famoso esempio 'nuvole nere dicono pioggia').
Che vuol dire qui, allora, che la strategia menzognera appare come un atto interpretativo  ? Vorrà dire, certo, che si tratterà di saper riconoscere nello scambio comunicativo interumano (a differenza di quanto avviene sia nella 'comunicazione -puramente- naturale' che in quella  -puramente- 'artificiale') le intenzioni del parlante (le sue intenzioni comunicative, non identificate o identificabili eo ipso a quelle espressamente comunicate – una distinzione che appare quanto mai opportuna, come si dirà, anche e soprattutto in una mess’a punto della deception), ma vorrà dire anche che, per fare ciò, si tratterà di sapersi svincolare dal grado di 'sincerità' o 'insincerità' di esso (del parlante), in quanto sincerità e insincerità assumono pertinenza, quando pure di ciò sarà il caso, secondo il ruolo sociale (e dunque culturale) che i parlanti rivestono volta a volta nell'effettivo scambio comunicativo.

Pur consapevoli di forzare un po' il quadro di riferimento proposto nel libro, si è per ciò consapevoli che il richiamo alla sincerità/insincerità del parlante, da solo, forse non appare sempre una mossa interpretativa pertinente. Ancor più in un quadro che si richiama a un approccio interculturale, e che così intende ben valorizzare e utilizzare le dimensioni di un agire comunicativo comune e condiviso, e dunque collettivo, per il cui riconoscimento viene infatti non per caso richiamata sovente la categoria del ‘senso comune’, il riferimento a categorie di una mente per così dire ancora ‘individuale’ se non ‘isolata’, quali appunto quelle inscenate dalla 'sincerità/insincerità', rischia di perdere di vista proprio la complessità di prospettive che utilmente ci si propone di valorizzare e far interagire in questa chiave.
Per incrociare allora i temi in questione, assumiamo sin da subito la ben nota distinzione agostiniana fra ‘mentire’ e ‘tacere’, divenuta una sorta di topos inaggirabile negli studi sull’argomento. Questa distinzione, a prim’occhio semplice e intuitiva – col primo processo manipolando conoscenza condivisa (o condivisibile) e col secondo omettendo la medesima – si trova sottoposta al vaglio di una discussione critica che ne restituisce appieno tutta la complessità sia nel bel quadro d’insieme proposto da Castelfranchi-Poggi (1998: 43-53, 71-79, 129-45, 161-73), e sia nel testo in questione con un’articolata discussione di Chisholm - Feehan (1977).
Ma prima di ciò, il canonico riferimento agostiniano (1948a: 242-44) al primo dei due processi:

Non […] omnis qui falsum dicit mentitur si credit aut opinatur verum esse quod dicit. […] ille mentitur qui aliud habet in animo et aliud verbis vel quibuslibet significationibus enuntiat. Unde enim duplex cor dicitur esse mentientis, id est, duplex cogitatio: una rei huius quam veram esse vel scit vel putat et non profert, altera eius rei quam pro ista profert sciens falsam esse vel putans. Ex quo fit ut falsum possit dicere non mentiens si putat ita esse ut dicit, quamvis non ita sit et ut possit verum dicere mentiens si putat falsum esse et pro vero enuntiat, quamvis re vera ita sit ut enuntiat. Ex animi enim sui sententia, non ex rerum ipsarum veritate  vel falsitate mentiens aut non mentiens iudicandum est. ("Non […] chiunque dice il falso mente, se crede o stima che sia vero ciò che dice. […] mente invece chi tiene in animo una cosa e afferma  con le parole, o con qualunque mezzo di espressione, qualcosa di diverso. Diciamo perciò che il mentitore ha un duplice cuore, ovvero un duplice pensiero: uno è quello che lui sa o ritiene vero ma non proferisce, l'altro è quello che invece proferisce,  sapendo che è falso o ritenendolo falso. Dal che segue che si può dire il falso senza mentire se si reputa che la cosa stia come la si dice, benché ciò non sia; e si può invece dire il vero mentendo, se si reputa falso ciò che si dice e lo si enuncia come vero, malgrado che la cosa stia proprio così come la si enuncia. E’ dall’intenzione dell’animo e non dalla verità o falsità delle cose in sé che bisogna giudicare se uno mente o non mente").

Da ciò verrà implicato anche il secondo processo, quello per cui qualcuno viene ingannato da qualcun altro attraverso una omissione anch’essa intenzionale. Abbiamo qui dunque le due procedure per così dire ‘di base’ di ogni processo d’inganno (a parte i casi di ‘auto-inganno’, ovvero ‘errore’, che il soggetto in un secondo tempo si adopererà a emendare, se e quando di ciò sarà il caso): la menzogna propriamente detta (consistente in una ‘manipolazione’, che mette in scena una ‘simulazione’, ovvero una commission) e la reticenza (consistente in una ‘omissione’, che mette in scena una ‘dissimulazione’, ovvero una omission) spesso assimilabile a una forma di segreto o di tacere gratuito (Castelfranchi-Poggi:1998, 71-72). In entrambi i casi: (a) è all’opera una ‘intenzione comunicativa’ - la sola che per Agostino consente di individuare qualcosa come menzognero da ciò che non lo è; (b) tale intenzione comunicativa se ne resta simulata o dissimulata, appunto, da una ‘intenzione ‘comunicata’ che avrà cura di far perdere le tracce di quella intenzione comunicativa, o sostituendola con un’altra ovvero semplicemente nascondendola (su entrambi i punti v.pure Agostino: 1948b).
Tralasciando, almeno per ora, le discussioni proposte dagli Aa. in relazione a questa importante distinzione (discussioni che saranno riprese in seguito, essendo esse riprese, a loro volta, pure dalla Vincent), faremo volentieri riferimento a un altro richiamo da loro proposto, quello per cui nelle procedure di inganno (tanto del primo quanto del secondo tipo) è implicata un’altra importante distinzione, credere vs far credere. Anche qui non è possibile seguire le precisazioni degli Aa.: diremo soltanto che niente quanto il far credere consente di restituire una qualche nitidezza anche al credere, in quanto nessuno quanto colui/colei che modifica il piano di credenza/e del suo interlocutore sa (o magari solo crede di sapere) ciò in cui costui/costei fa affidamento, di cui si supporta nel suo sistema di valori, di cui ha fiducia, ciò insomma in/a costui/costei crede. Se lui/lei non avesse assunto un sistema di credenza/e che p, è chiaro che ogni mio tentativo vòlto a fargli/le credere il contrario o qualcosa di appena discordante da che p non avrebbe alcuna efficacia, e in questo caso neppure senso. Questo tema del ‘credere’ in quanto Belief costituisce fra l’altro, ad avviso di chi scrive, uno dei nodi teorici più affascinanti della nostra tradizione culturale. I nomi di Hume, Peirce, W.James, Wittgenstein (per menzionare solo quelli più altisonanti) hanno sovente messo al centro delle loro cure questo tema, la cui importanza ci piaceva qui solo ricordare per la sua centralità anche negli studi sull’inganno, in direzione di cui non sempre, invece, nella letteratura ora menzionata, esso appare curvarsi (e su cui v.Greimas: 1986, ad vocem).

Ora, entro questo quadro di riferimento seguiremo alcune delle tipologie prese in esame dalla Vincent in direzione di quella sua proposta di uno slargamento interculturale di cui si diceva.
Un primo richiamo dell’A., di carattere per così dire ‘programmatico’, concerne la stretta solidarietà fra le opzioni categoriali con cui si circoscrive l’oggetto di studio e le sue ‘connotazioni’ etiche – come dire che occorrerà sin da subito sbarazzarsi del formalismo di una presunta ‘neutralità’ verso tale oggetto di studio, che viene qui associata a un’altra pretesa, altrettanto formale, che è quella di ‘universalità’ (o universalismo). Con riferimento a Bavelas et al: 1990):

[…] you cannot identify deception simply by the formal informational criterion. You can perhaps identify departures or distance-from-the-truth, but you cannot call them ‘deception’ until the others have come in, not in any culture, and certainly not universally (loc.cit.: 171).

Il che porta direttamente ad assumere come rilevante il tema della ‘credenza’ e quello di una ‘verità’che in tanto è tale in quanto per tale è creduta, secondo la felice precisazione di Nyberg (1993: 74):

In cases of deception there must be a person who either contributesto causing, or chooses to allow, somebody else to acquire a belief, continue believing something [false beliefs], or be unable to believe something [true] that is thought to be or true or false (loc.cit.: 189).

Dove ciò che è creduto per vero o per falso, precisa l’A., è strettamente dipendente dal contesto di riferimento (high context), a differenza di tante credenze che non sono invece dipendenti da esso (low context):

[…] to identify departures from-the-truth, you would still need to bring in consideration of whose truth, and thus need an assumption of speaker beliefs, and of what truth, or amount of truth, is necessary/relevant in the context (loc.cit.: 171-72).

E con ciò siamo nuovamente ricondotti ad Agostino, a quella intenzione, più o meno avveduta, più o meno manifesta, che solo il parlante (umano?) introduce, e che, sola, consente di riconoscere una pratica di inganno o di menzogna, da ogni altra pratica linguistica, ivi comprese quelle, molto interessanti peraltro, o in cui, come in Freud (loc.cit.: 197), A viene da B supposto che, dicendo la verità, stia mentendo, oppure in cui A viene da B supposto che stia mentendo senza che che lui, A, ne abbia avuto la minima intenzione, almeno manifesta … E dunque la intenzione:

[…] since we are dealing with catching definitions of ‘deception’, it may actually make more sense to start from intent to deceive which does rather seem to be intuitively and by definition connected to deception after all (loc.cit.: 172).

     E poiché la intenzione si articola e si atteggia all’inganno secondo sfumature di senso assai differenti fra loro, ecco la necessità di inquadrare l’inganno secondo il ‘che cosa’, il ‘come’ e il ‘perché’:

- what happens to the information in a general sense in different types of deception;
- how to deceive, that is both descriptions and categories of strategies and ways of manipulating beliefs in deception, and of ways of manipulating information in discourse;
- why people lie or deceive, i.e. classifications according to Speaker’s motivations in doing so, and/or of its effects on Hearer or others (loc.cit.:179).

Di questa tripartizione, il quadro più interessante, o quello almeno che viene più direttamente incontro al tema della ‘intenzione comunicativa’, mi pare quello che si delinea nel perché dell’inganno. A tale scopo l’A. (loc.cit.: 195) si richiama alla comparazione delle ‘strategie d’inganno’ in Castelfranchi-Poggi (1998: 169-71), che estendono e rendono più complessa la bipartizione agostiniana prima richiamata. Secondo tale comparazione avremo dunque: (1) omissione (“A compie un inganno di omissione quando non compie un’azione che avrebbe lo scopo di far avere a B una certa conoscenza per A rilevante”); (2) occultamento (“Chiamiamo occultamento un’azione non comunicativa con cui A ha lo scopo di nascondere a B una certa conoscenza, cioè di bloccare le strade attraverso cui B può assumerla”); (3) falsificazione (pura) (“[…] un’azione comunicativa o non comunicativa con cui A ha lo scopo di far avere a B una conoscenza diversa da quella che B assume”); (4) falsa conferma (“una forma di ‘falsificazione’: azione comunicativa o non comunicativa con cui A ha lo scopo di confermare a B una conoscenza che A reputa falsa”); (5) negazione (“[…] con cui A sconferma a B una conoscenza che anche A reputa vera, ma non vuole che B l’assuma”); (6) mascheramento o inganno di copertura (“[…] inganno per ‘falsificazione’ in cui però la falsificazione non è fine a se stessa, ma è strumentale a un inganno di ‘occultamento’”).
Indipendentemente dalla ‘esaustività’ o meno di tale comparazione (che non viene passata per tale né nel testo originario e neppure in quello nostro di riferimento), è chiaro che sarebbe arduo vedere in essa la sola rappresentazione di una serie di ‘perché’, ovvero di aspetti motivazionali dell’inganno, essendo in questa rappresentazione presenti, e inevitabilmente, tanto il ‘che cosa’ un inganno sia, quanto il ‘come’ esso si dia di fatto. Chiederemo pertanto a tale comparazione, almeno nello spazio di questa discussione, di fare da punto di orientamento per quanto adesso seguirà, e che prova a inquadrare la domanda che l’A. si pone: How bad is lying ?
E’ nella ‘risposta’ a questa domanda che vengono a mettersi in scena quei paesaggi di culture differenti entro cui deception e truthfulness interagiscono secondo modalità a loro volta inquadrate da sistemi valoriali propri di ciascuna di esse. L’orizzonte di senso che presiede a questo inquadramento è il seguente:

There is in fact a range of attitudes to deception and truthfulness discernible also among writers, as well as lay-people in different societies. Apart from those who see ‘truthfulness’ as always necessary and always good, and those who see it as not always necessary nor necessarily and always good, and those who see truthfulness as often deleterious or even harmful (to others or to themselves on different occasions), and/or as an unrealistic ground rule, there are those who see deception as simply inevitable (indeed the necessary foundation of society – e.g. to avoid and temper conflict, and as therefore good and realistic) (loc.cit.: 207).

Questa ‘sinossi’ di possibilità interpretative prevede pure lo slargamento (culturale) a quegli scenari della vita associata (diplomazia, vita politica, war-time military tactics) che sinora erano rimasti un po’ defilati a vantaggio di quell’inquadramento ‘sincerità/insincerità’ che, come si diceva più sopra, rischiava di compromettere la complessità di prospettive utilmente qui valorizzate e utilizzate.
E’ dunque all’altezza di questa ‘complessità’ interpretativa che vengono presi in conto i sistemi valoriali di ciascuna cultura (o di molte di queste) facendo volta a volta interagire con essi deception e truthfulness. Non passeremo in rassegna in questa sede i diversi inquadramenti proposti (che l’A., con non trascurabile ‘sincerità’, riferisce non essere “the fruit of personal investigation into primary sources but merely a report of brief statements from different general or secondary sources, and can serve only to point to these”, loc.cit.: 212), né apriremo una discussione sulla fecondità della stereotipia inter-culturale, cui resta affidato, come pure a tratti l’A.evidenzia, un preliminare e insostituibile approccio conoscitivo per quanto generalista e approssimativo, ma andremo direttamente alle conclusioni di questo cap.V (e già avanzate in Vincent: 2003) relative a tale comparazione:

[…] what might be seen as a better candidate for a universal moral principle (and condonable by many today), is that what is wrong  is to break a contract of trust, or maybe just the contract, whatever it stipulates. If the contract is one of conflict, people (everywhere ?) will expect and accept, and even respect, deception and lying; if it is one of trust and consensus on solidarity, they will accept supportive lying too, and they will not necessarily expect nor happily accept truths or truthfulness (loc.cit.: 220).

Il ‘principio’ qui enunciato assume una chiara intonazione ‘kantiana’, nel senso che quanto in esso affermato è rivolto a una estrapolazione per così dire delle ‘condizioni di possibilità’ per l’accettabilità/inaccettabilità di deception e truthfulness da parte di qualunque cultura. Come dire che su tutto si possono negoziare e stipulare intese e accordi (e dunque modificarli secondo le contingenze), ma i ‘principî’ (e questo ne è uno, appunto) restano fuori da qualunque negoziazione e stipulazione.
Le poche osservazioni che seguiranno non concernono tanto una discussione di questa mossa argomentativa che di certo consente, fra l’altro, di tenere a opportuna distanza ogni deriva di senso relativistica, quanto di quel dichiarato ‘contract of conflict’ (qui contrapposto al ‘contract of trust and consensus on solidarity’). Che vuol dire dunque accettare le condizioni poste in essere da una contrattualizzazione del conflitto ? E prim’ancora, che vuol dire contrattualizzare un conflitto ? La domanda potrebb’essere rivolta anche al suo contrario (al ‘contract of trust and consensus on solidarity’), ma nei riguardi del ‘conflitto’ (di qualunque specie e natura sia esso la denominazione) l’argomentazione che segue dovrebbe risultare forse più perspicua.

Se stiamo qui denominando per ‘contract’ qualunque forma di conoscenza condivisa, in quanto pubblicamente comunicata e partecipata, talché ogni membro di quella comunità ne sia direttamente informato e coinvolto, allora certo, quella comunità agirà nei riguardi della deception come un solo e unico ‘corpo’ (alla maniera di quel ‘corpo sociale’ che il Leviathan hobbesiano aveva il compito inderogabile di comporre), e saprà così anche “expect and accept, and even respect, deception and lying”. Ma di là dagli scenari hobbesiani qui evocati, è mai ipotizzabile una siffatta ‘contrattualizzazione’ dei conflitti ? E’ forse ipotizzabile che i membri di una comunità, pur condividendo la consapevolezza di un conflitto in atto (e la nostra modernità non è certo avara nel confrontarci a tali scenari conflittuali …), siano al medesimo tempo partecipi delle strategie d’inganno spese magari anche al solo scopo (ed è certo questa un’ammissione benevola e ottimistica) di preservare e tutelare il corpo sociale di appartenenza ? Non si viene piuttosto confrontati qui, quando si evochi davvero lo scenario di un conflitto, al mantenimento di un duplice piano che è quello, certo, della deception, ma al medesimo tempo quello del secret ? E’ forse ipotizzabile, dunque, un corpo sociale a cui non sia dato di assistere, e non solo forse nei tempi del conflitto ma anche in quelli di una “trust and consensus on solidarity”, a una serie di ‘segreti di Stato’ (Watergate docet), talvolta tempestivi e talvolta tardivi rispetto alla efficacia (magari solo per certuni dei contendenti) della loro scoperta ? E se di ciò (anche) sono costellate la nostre fattuali forme di vita, il richiamo a quella contrattualizzazione dei conflitti non reintroduce, sia pure surrettiziamente, un ‘ideale normativo’ (una sorta di vox clamans in deserto) di cui la lucidità del principio trascendentale evocato (le ‘condizioni di possibilità’ della nostra forma di vita non si negoziano né si stipulano) non pare aver affatto bisogno ?
Ci piace concludere questa discussione con una ‘divertente’ (anche nel senso letterale del di-vertere in quanto 'volgere altrove'; Devoto: 1968, ad vocem) e al medesimo tempo ben avveduta osservazione, anch’essa conclusiva, di Castelfranchi-Poggi (1998: 253-54) che dice:

Il lettore che ci abbia seguito (o che voglia farcelo credere saltando in realtà alle conclusioni) si sarà accorto (o è bene che sappia) che tutto il libro è dilaniato da una contraddizione insanabile, tra la condanna e l’ammirazione dell’inganno, tra la menzogna come maledizione e la sua ‘bellezza’ (Dostoevskij): atto aggressivo del baro o immaginazione e creazione di mondi; negazione del linguaggio o sua quintessenza; minaccia alla convivenza umana (Montaigne) o fondamento di essa (Pascal). Questa contraddizione è insanabile: semplicemente riflette aspetti e funzioni diverse dell’inganno.

Per restare all’altezza delle questioni sollevate dal libro della Vincent, occorrerebbe solo domandarsi se il tratto per così dire ‘universalista’ ovvero transculturale della osservazione ora citata sarebbe in grado di misurarsi con gli scenari inter- e multiculturali richiamati nel libro posto qui in discussione. I tratti ‘valoriali’ ora citati (‘condanna’/’ammirazione’) e sociali (‘minaccia’/‘fondamento’ della convivenza umana) possono essere assunti, alla luce delle considerazioni della Vincent (e in particolare di quel ‘principio’ conclusivo ora discusso), come stabili e permanenti pur nel variare delle forme di vita umane, o non risentono anch’essi dell’ancoraggio, sia pure inconsapevole, a una forma di vita storicamente e culturalmente determinata ? Ovvero, e detto appena diversamente, è possibile davvero accedere a una prospettiva integralmente inter- e multiculturale che elida, riponendo in questo gesto tutta la consapevolezza di cui è capace, l’ancoraggio della propria voce a una forma di vita anch’essa storicamente e culturalmente determinata?
Lasceremo ovviamente le due questioni, specularmene contrarie, qual’esse si presentano qui, in forma di domanda appunto, la cui ‘risposta’ non potrà non richiedere e interpellare la cooperazione spregiudicata (non affetta cioè da pigrizie e nequizie intellettuali) di ogni uomo (e donna) di buona volontà.

 

                                             (luglio-agosto 2006)

 

Riferimenti bibliografici

 

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PUBBLICATO IL : 02-12-2006

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