Il volume di D’Acunto raccoglie otto brevi saggi accomunati dalla riflessione sulla parola come “istanza di discorso”. Non si tratta, dunque, di uno studio su un fenomeno linguistico dotato di coordinate ben precise, ma di un’indagine filosofica su quell’avvenimento che, attraverso il dire, si stratifica e informa la realtà.
Su queste basi, il terzo saggio della raccolta, Metafora, logica poetica, unità della parola in Szondi, assume un’importanza fondamentale perché concepisce la dimensione della metafora non come un semplice atto di trasposizione del senso, ma come una sorta di “idea estetica” (“idea della parola”) che, tramite un complesso schematismo della significazione, si concentra in singole unità storicamente date. In questo contesto ogni comprensione comunicativa, quantunque determinata, non potrà mai essere ricondotta in maniera biunivoca alla manifestazione cui si riferisce (come accade, invece, nel cosiddetto “referenzialismo ingenuo”), perché riposerà sempre su una certa indeterminatezza semantica. Si sviluppa, così, quella che Szondi chiama una “logica della poesia” che l’ermeneutica può attingere, di volta in volta, solo per mezzo di «un’analisi genetica del processo creativo» (p. 44).
All’interno di una gnoseologia storica diventa molto pertinente il quinto saggio, Il silenzio parlante. Linguaggio e percezione in Merleau-Ponty, in cui D’Acunto avvicina la scoperta di una corporeità come “potenza simbolica” (p. 76) all’orizzonte extralinguistico che attornia la parola. L’espressione, in virtù di un contatto primordiale col mondo preriflessivo (nel linguaggio dell’ultimo Merleau-Ponty, il chiasma), non presuppone un pensiero – come vuole l’intellettualismo – o un apparato di contenuti provenienti dall’esperienza – come vuole l’empirismo. All’origine della lingua vi è, infatti, una capacità di “usare” il corpo secondo atteggiamenti e tonalità emotive che trascendono il patrimonio già disponibile di significati: «Si definisce, così, la distinzione fra atto individuale di parola, o “parola parlante”, e linguaggio, come sistema già costituito di sintassi e di vocabolario, o “parola parlata”»(p. 81).
Perciò, se è legittimo parlare di idealità del testo, possiamo farlo solo grazie alla frattura tra significato (unitario) e significazione (individuale).
Nel sesto saggio, La parola giusta. Gadamer sulla persuasività della letteratura, l’attualità della parola si esplica in maniera esemplare nell’opera letteraria che, stabilendo un primato della persuasività (la dynamis aristotelica) sull’esecuzione, produce una dialettica tra materia – l’espressione – e significato – l’intenzione che, vincolata dalla lettura, permane nella molteplicità delle apparenze. In questa prospettiva, la comprensione dell’evento linguistico avviene con un’intuizione che nasce dalla relazione tra “ritenzione” e “riempimento”, «un indugiare [che] trattenendo lo scorrere dell’istante nel flusso temporale, fa sì che “nell’attimo indugiante vi sia qualcosa che si mantenga”: “l’unità della forma”» (p. 55). Per Gadamer l’indugiare (in questo molto distante dall’epoché husserliana) si rianima di continuo con la trasposizione metaforica che Kant ha descritto nel §59 della Critica della facoltà di giudizio, a proposito della “funzione simbolica del linguaggio”.
In conclusione, l’interessante libro di D’Acunto sembra attualizzare, seppure non esplicitamente, il retaggio delle filosofie del linguaggio di Vico, Kant e Croce, cercando di darne declinazioni efficaci e attente ai nuovi problemi della filosofia.
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