1) Vorrei trarre spunto dal suo Narrare fatti e concetti
(Milella, 1999), per sviluppare alcune riflessioni su cosa
significhi, in generale, riflettere sul letterario a partire da
un punto di vista filosofico. A grandi linee, mi sembra si possa
dire che per Lei ciò significhi due cose complementari.
Significa sviluppare una comprensione della filosofia come forma
peculiare di narrazione, e quindi «accettare la filosofia
come racconto»; significa, allo stesso tempo, riconoscere
la letteratura, la narrativa, i suoi modi, come forme di esperienza
ed espressione dell’esistenza in senso forte: «La
stessa filosofia deve riuscire a cogliere nello sforzo della narrazione
letteraria la diaspora di un pensiero dell’esistenza che
non è divertissement, pausa, elisione, ma contributo versato
alla comune ricerca del senso di sé, degli accadimenti,
delle cose». Ciò significa pensare ad una filosofia
che non commenti solo filosofi (come chiedeva Leopardi) ma che
sappia interpretare il contributo degli altri saperi, in quanto
“intraontologia” che riconosce il suo compito in ogni
sfera dell’esperienza.
Alla radice comune tanto dell’istanza narrativa letteraria,
quanto dell’impresa filosofica (o teologica), Lei scrive,
sta la ricerca di conforto, il tentativo di vincere la morte,
o più in generale il dolore e la sofferenza, narrandola
(raccontare il male lo mette infatti a distanza, lo oggettivizza,
e dunque lo relativizza, rispetto all’impatto che esso ha
nel vissuto). In che senso, dunque, la filosofia può essere
considerata una forma del narrare?
Penso che il narrare abbia un valore al di là della sua
dimensione etica, della sua dimensione consolatoria, o di conforto,
a cui io stesso faccio riferimento. Penso che il narrare sia una
categoria universale che comprende tutte le forme espressive del
soggetto.
La questione, allora, è questa: oggi, negli ultimi decenni,
la filosofia ha affrontato in modo più diretto il problema
del suo rapporto con la narrazione. Ma questo rapporto, in primo
luogo, esiste da quando esiste il pensiero occidentale; in secondo
luogo, non deve essere ridotto al rapporto tra filosofia e letteratura.
Probabilmente è ormai legittimo parlare come di un fenomeno
storico effettivo della crisi della filosofia come sistema. C’è
chi la riporta a Nietzsche, c’è chi la retrodata…
Comunque sia, la fine della filosofia come pensiero sistematico
apre lo spazio alla filosofia come atteggiamento e come comprensione.
E questo percorso di comprensione può essere un percorso
di narrazione.
Sei si guarda alla totalità della storia della filosofia,
tra i generi letterari adottati dai filosofi nei secoli ne esistono
di più propriamente narranti o narrativi. Per esempio le
epistole, i romanzi filosofici, il teatro filosofico, le confessioni.
Maria Zambrano, filosofa spagnola, ha dedicato un’intero
saggio alla confessione come genere letterario della filosofia
[M. Zambrano, La confessione come genere letterario,
ed. iIt. a cura di P.Pucci, Bari, 1971].
Allora la questione è se i generi narrativi, che pure sono
stati sempre presenti nella filosofia, stiano semplicemente ad
indicare una pluralità di possibilità espressive
della filosofia, o se oggi, con la caduta di alcuni modelli come
il sistema o il trattato, non possano costituirne la via privilegiata.
Simone de Beauvoir si trovò spesso a dover rivendicare
l’originalità del proprio pensiero, negando e contestando
che si trattasse di una reduplicazione narrativa di una filosofia
togata, quella di Sartre. La narrazione deve essere compresa come
modo di espressione proprio di una filosofia femminile? Deve essere
compresa come la forma di un genere, del genus femminile? O invece,
dopo essere stata la filosofia per secoli primato di una ragione
che presupponeva di poter definire la totalità del reale,
se questa epoca si è conclusa e altre forme di comprensione
sono valide, la narrazione potrebbe essere quella più adatta?
2) Sempre in merito al tema della differenza tra narrazione
filosofica e narrativa letteraria e autobiografica (in particolare
penso al romanzo moderno): se il narrare ha una valenza etica,
in quanto esso è affermazione di sé nell’espressione
ad altri, è davvero il narcisismo un «limite nell’eticità
della scrittura»? O non è piuttosto il cardine di
questa eticità?
Può sembrare scontato che il livello di narcisismo della
narrazione romanzesca sia incommensurabilmente più elevato
di quello della narrazione filosofica: il romanzo non risponde
per la sua riuscita a criteri di verità ma solo all’efficacia
del suo suscitare adesione estetica. D’altra parte, però,
per le stesse ragioni, il testo narrativo ammette costitutivamente
l’esistenza di altri testi narrativi, in un modo in cui
il filosofo non può fare.
Il filosofo, dal canto suo, nella misura in cui ha la pretesa
di raggiungere conclusioni «oggettivamente valide»,
idealmente, dovrebbe annullare il suo «Io» nel testo
filosofico, e porre tutto il suo narcisismo al servizio della
verità…
Qui l’alternativa è tra due vizi: da una parte il
narcisismo dall’altra l’arroganza. Ma se nei secoli
abbiamo avuto l’arroganza del filosofo che si mascherava
dietro una apparente oggettività e verità dell’affermato,
spersonalizzandosi. Abbiamo anche avuto però l’umiltà
del filosofo che ha riconosciuto il suo pensiero come un percorso
individuale.
E se rileggiamo il mito di Narciso dal principio, ci imbattiamo
in un episodio determinante: quando Narciso nacque, sua madre
chiese a Tiresia quanto sarebbe stata lunga la vita del figlio.
L’indovino rispose: vivrà finché non si riconoscerà.
Narciso morì quando, riflettendosi nello specchio delle
acque, riconobbe se stesso. Ma al di là del mito, il “vivrà
finché non si riconoscerà” non richiama forse
le radici del pensiero filosofico occidentale, cioè il
“conosci te stesso”? Allora, il narcisismo non deve
per forza essere associato alla filosofia a-sistematica, non trattatistica,
narrante; non consiste in una autocontemplazione del singolo,
quanto piuttosto nello stesso percorso di autoriconoscimento del
singolo. Da questo punto di vista, narratori e filosofi sono difficilmente
distinguibili. Come sostenne Merleau-Ponty, ogni romanzo ha un’idea
filosofica dentro.
Ma la Recherche di Proust è o non è una
narrazione filosofica? Il teatro di Pirandello è o non
è una narrazione filosofica? È chiaro che le
confessioni di S. Agostino, o quelle di Rousseau, sono delle
narrazioni il cui tema, rispetto a quanto avviene in Proust o
in Pirandello, è espresso in maniera esplicita e diretta;
non attraversa lo scritto, né sono delegate al lettore
la tematizzazione della domanda e l’ipotesi di una risposta.
D’altra parte, il Discorso sul metodo, paradigma del pensiero
filosofico per secoli, è costruito nei termini di un percorso
personale: attraverso questo percorso io ho trovato una mia verità
– dice Descartes - non so se varrà per gli altri.
Anche questa è una narrazione. Borges parlava di un cosmo
in cui ogni tassello è un libro; anche per la filosofia
è lo stesso. In fin dei conti i filosofi parlano tra di
loro, i libri di filosofia parlano tra di loro. Il problema è
che noi dovremmo pervenire a un punto in cui il parlare dei filosofi
coincida con il parlare degli uomini. Il che non vuol dire un
abbassamento delle domande dei filosofi, ma un elevamento della
responsabilità della coscienza comune.
Proprio ieri parlavo con Sergio Moravia, filosofo fiorentino,
il quale, tra le altre cose, mi invitava a riflettere su quante
opere importanti della filosofia del Novecento siano opere lasciate
incompiute. Gli autori rinviavano a un completamento successivo
che non è mai avvenuto. Questo vuol dire che l’opera
è imperfetta? No, perché l’incompiutezza,
a mio parere, sotto un certo aspetto è piuttosto condizione
della ricerca filosofica. Parlavo di arroganza della ragione.
Pensiamo a colui che ha rappresentato nell’Ottocento il
punto più alto di una ragione autosufficiente, cioè
Hegel: quale era la sua conclusione? Dopo aver razionalizzato
la realtà, l’intera realtà, rimaneva la fine
del bisogno di filosofia, quindi la morte della filosofia. Se
si intende la filosofia come indagine passibile di conclusione,
una volta reperita la verità dell’indagine non c’è
più bisogno.
Ma sembra che le cose stiano altrimenti: la dimensione indagativa
è una dimensione permanente. Come diceva Abbagnano, la
storia della filosofia non è storia di risposte ma storia
di domande. Se chiediamo a un uomo mediamente colto quale sia
a suo parere un’opera filosofica che possa dirsi emblematica,
plausibilmente ci potremmo sentir rispondere: i dialoghi di Platone.
Sono all’origine. Ma i dialoghi di Platone quasi mai concludono!
La loro importanza sta in narrazioni incrociate tra soggetti diversi.
Così oggi, se la filosofia è disincantata, se la
filosofia ha rinunciato a una nozione di verità come meta
perseguibile una volta per tutte, e si riconosce in una sua debolezza
costitutiva, che non vuol dire rinuncia al bagaglio di domande
che ognuno si porta dietro ma riconoscimento dei limiti del soggetto,
della contestualità delle domande e della contestualità
della ricerca, allora la narrazione è uno dei modelli privilegiati
che ne permettono non la morte ma, quasi in maniera epidemica,
un contagio sempre più ampio.
Nel 1819 Leopardi si riconobbe in una situazione di crisi. Disse:
“io non vedo più, questo mi ha rinchiuso in me stesso,
da poeta quale ero sono diventato filosofo di professione”.
E cominciò a scrivere lo Zibaldone. Ma lo Zibaldone
di Leopardi è soltanto una parentesi filosofica nella sua
produzione, o è il Leopardi che adotta un genere di scrittura
diverso, così come la sua filosofia è anche nei
Canti, sicuramente nelle Operette morali, e così
via? E questo non vale in genere per ogni opera? Anche le opere
dei mistici o delle mistiche – penso a S. Giovanni della
Croce, S. Teresa, S. Caterina, o a mistiche del Novecento come
Simone Weil… - sono opere in cui la scrittura quasi automatica
sta ad indicare una soglia minima di distanza rispetto a quella
che essi ritenevano l’approccio con la verità, che
però rimaneva sempre trascendente. Insomma, bisogna chiedersi
se “filosofia” non sia anche generi di scrittura diversi…
3) Lei sostiene che, per quanto nelle pagine di Maurice Merleau-Ponty
manchi una teoria compiuta del romanzo, sia possibile rintracciare
una sua posizione in merito (per esempio nel saggio Il romanzo
e la metafisica o nel Dubbio di Cézanne).Lei individua
due motivazioni dell’interesse di Merleau-Ponty per il romanzo.
- L’interesse per la percezione artistica come più
originaria di quella filosofico-concettuale: in quanto l’idea
letteraria – e ancor più quella musicale e pittorica
- mantiene il suo carattere di spettacolo, non si intellettualizza,
non oblia la sua costitutiva opacità, incompiutezza, e
dunque costituisce un modello per il pensiero filosofico, in quanto
«la più alta ragione confina con la non-ragione».
- La sua concezione del linguaggio, e più in generale dell’espressione
come inscindibile dal pensiero, della circolarità tra esperienza
e parola. Se la metafisica deve essere rintracciata immanentemente
all’esperienza, ecco che l’espressione filosofica
diviene una descrizione-narrazione mai compiuta
Non le sembra che Merleau-Ponty proponga anche un ordine irreversibile
per la narrazione filosofica, dal sensibile, dal naturale, all’istituito,
all’invisibile? Mi riferisco all’ordine seguito nella
sua prima opera, La struttura del comportamento, e poi
ripreso nei corsi sulla Natura degli ultimi anni…
Mettiamo da parte le due prime opere di Merleau-Ponty, La
struttura del comportamento e la Fenomenologia della
Percezione, che sono testi volti a finalità in primo
luogo accademiche, e che richiedono, quindi, necessariamente una
certa struttura e un certo linguaggio. Le opere successive al
1945, quelle che lo hanno reso più famoso ad un pubblico
filosofico internazionale, sono raccolte di saggi su temi disparati.
Si potrebbe credere che per urgenze di studio istituzionale -
che Merleau-Ponty però non aveva - si trattasse semplicemente
di mettere insieme articoli già apparsi. Invece per me
la struttura di queste raccolte, Senso e non senso e
Segni, sta ad indicare proprio il tessuto del pensiero
merleau-pontiano, per il quale la filosofia è filosofia
applicata a spazi umani e a spazi di pensiero diversi. E il rapporto
con la scienza, come tu dici, è sicuramente un rapporto
originario. Nel senso che Merleau non ritiene possa esserci un
cominciamento autonomo della filosofia, né un’autosufficienza
della filosofia in generale. D’altro canto egli indica in
maniera abbastanza definita il rapporto tra questo pensiero e
la scienza. All’inizio del breve saggio, principalmente
dedicato alla pittura, L’occhio e lo spirito, ultimo scritto
apparso prima della sua morte, si legge che la scienza manipola
le cose ma rinuncia ad abitarvi. Mentre il pensiero deve abitare
le cose, non manipolarle né affrontarle in una dimensione
di sorvolo. Ma, come si vede bene nei corsi della Sorbonne
e del Collége de France, esaminando la psicologia,
la sociologia, l’antropologia, Merleau-Ponty non vede una
alternativa tra queste forme di sapere e il sapere filosofico,
né ritiene debba esserci una chiusura corporativa tra di
esse. Piuttosto egli afferma in maniera esplicita che se gli stessi
sociologi, antropologi, psicologi, volessero andare oltre le domande
che si fanno, oltre l’ambito di un dominio epistemico molto
circoscritto, e si domandassero dell’essenza delle questioni
che stanno studiando, allora essi farebbero filosofia. E non ci
sarebbe più bisogno del filosofo di professione, che è
quasi come il sacerdote: santifica, benedice, integra. In fin
dei conti, la dimensione filosofica è in ogni dimensione
di sapere. Purché si sappia e si voglia andare oltre la
pura ricognizione fenomenica.
Da questo punto di vista, Merleau-Ponty si pone in antitesi al
radicalismo sartriano, per cui, invece, esiste una insanabile
divaricazione tra filosofia e antropologia. Nelle sue dispute
con Lévi-Strauss, Sartre accusa l’antropologia di
un’arroganza quasi teologica nel presumere di avere sull’uomo
uno sguardo dall’alto, oggettivante, come l’occhio
di Dio. Merleau-Ponty, al contrario, come dicevi, vede la scienza
quasi come il terreno su cui il filosofo cammina. Si tratta di
non avere una visione esterna rispetto alle cose ma di abitare
le cose. E questo è possibile a coloro che operano in quelle
che si chiamano scienze umane. Il sociologo, che ci dice che in
fin dei conti la religione non è altro che un sistema di
rapporti interni alla comunità, e descrive questo o quel
clan, svolge un’operazione legittima e giusta. Solo, non
ci spiega perché sorga in generale la domanda religiosa
che suscita quella peculiare risposta. E qualcosa di simile avviene
con la psicoanalisi, in particolare con il pensiero freudiano:
volendo, sostiene Merleau-Ponty, possiamo leggere l’intera
esistenza umana, l’intera realtà secondo la categoria
dell’eros. Ma ugualmente è possibile leggerla sotto
la categoria dell’economico come ha fatto Marx, o sotto
la categoria della storicità come Hegel … La realtà
è suscettibile di letture monolinguistiche, ma la sua complessità
è frutto della loro sovrapposizione. Come una cipolla essa
ha vari strati, che non possiamo mai prendere separatamente, definire
e contare una volta per tutte. Tornando al discorso principale:
altro che morte della filosofia, nel momento in cui consegniamo
e riconosciamo la possibilità della domanda filosofica
ad ogni operatore del sapere, anche allo scienziato! D’altro
canto, non c’è un punto di partenza privilegiato,
per esempio dalla natura sensibile, per la filosofia.
O, meglio, si tratta di chiarire innanzitutto che cos’è
la natura: cosicché si tratta semmai di partire dalla natura
da un punto di vista metodologico. Se noi guardiamo le varie tradizioni
di ricerca filosofica, non molte in tanti secoli hanno esordito
con una riflessione sulla natura. Secondo la suddivisione scolastica,
la filosofia della natura è un aspetto, una stanza della
filosofia, non è l’edificio filosofico. Possiamo
benissimo iniziare la nostra riflessione filosofica leggendo il
libro di un mistico. Possiamo iniziare la nostra riflessione filosofica
guardando un quadro di Cézanne, o analizzando un percorso
terapeutico come quello della sorda muta e cieca Hellen Keller.
Tutto più essere appiglio perché, come Paolo di
Tarso, si venga fulminati sulla via di Damasco e si inizi un nuovo
percorso… Quanta filosofia è nata dalla riflessione
sull’arte?!
Nell’altro caso, noi dovremmo mettere insieme due ragioni
forti: la ragione forte della filosofia speculativa e quella della
scienza naturale. E non si tratta di questo, almeno non solo di
questo. Noi oggi siamo stati resi abbastanza avveduti dalla riflessione
sulla scienza dei primi decenni del Novecento per poter dire che
la scienza è la progressiva elaborazione di strumenti epistemici
utilizzabili efficacemente. L’esempio che faccio spesso
ai miei studenti è questo: noi sappiamo che la geometria
euclidea è una costruzione che non corrisponde alla struttura
del reale. Eppure, tutto cambia quando siamo su un piano empirico
o progettuale: se commissioniamo un progetto, l’ingegnere
o il geometra fanno riferimento alla geometria euclidea, pur sapendo
che non è “vera”. In questa riflessione sulla
scienza, la scienza non è considerata come un percorso
verso la verità ma verso l’efficacia pragmatica,
pur, come diceva Kant, nella consapevolezza dell’errore,
cioè del limite del trascendentale; noi sappiamo che la
linea dell’orizzonte è un’illusione ottica,
ma, pur sapendolo, non possiamo non vederla. Allora il percorso
somiglia a quello di Abramo, che sale sulla montagna sperando
di trovare Dio, perché Dio ci ha chiesto qualcosa, e poi
torna indietro: la ricerca filosofica è un itinerario,
da percorrersi con la consapevolezza che non è definitivo,
che non può giungere a una conclusione ultima. E alla morte
della filosofia. Fosse il costo da pagare per il conseguimento
della verità, farebbe bene a morire la filosofia! Ma il
discorso è un altro: è quello di riconoscerci come
appartenenti ad una comunità gnoseologica, attraverso la
quale essere capaci di una definizione assoluta del reale.
4) Lei scrive: «L’unica realtà non relativa
è proprio la relatività con i chiasmi di visibile
ed invisibile, esprimibile ed inesprimibile, silenzio e linguaggio,
occhio e spirito. Il romanzo è metafisico perché
cerca di darci una quotidiana epifania dell’essere e non
solo la domenicale festività della poesia di cui parla
Heidegger». È possibile, secondo Lei, operare una
distinzione netta tra prosa e poesia come espressioni di due diverse
ontologie?
No, assolutamente, la distinzione non può essere fatta
tra generi letterari, tra poesia e prosa. Chi direbbe mai che
la poesia non è anche narrazione? La Divina Commedia:
pur avendo dei nodi concettuali durissimi, quale narrazione più
ampia e ariosa? E questo valga anche per tutti quei romanzi in
apparenza non-discorsivi, ruminanti, come la Recherche di Proust.
Il discorso non è questo. Si tratta piuttosto di far rimbalzare
quella che è l’esigenza chiusa, elitaria, dell’approccio
con l’essere, di estrarre questa esigenza nella filosofia
e localizzarla nella poesia. Si tratta di sostenere che il rapporto
- che era prioritario - “filosofia-ontologia”, possa
essere sostituito da un approccio apparentemente meno chiuso,
meno ermetico, tra poesia e ontologia. Quando invece leggiamo
Heidegger e le sue riflessioni sulla poesia – pure interessantissime,
che hanno aperto luminosi squarci al pensiero filosofico - noi
rimaniamo in una dimensione di esoterismo.
Qui non si tratta di banalizzare la filosofia. La filosofia è
comunque un superamento del senso comune, altrimenti vivremmo
di rendita e non ci porremmo domande ulteriori. Il discorso è
di evitare che i filosofi si chiudano in un lessico specialistico
e che parlino solo tra di loro. Non ha senso.
La conclusione dell’Elogio della filosofia di Merleau-Ponty
è proprio questa: il filosofo è l’uomo comune,
che di fronte alla morte sa quello che sa l’uomo comune.
Si tratta di portare questo a una consapevolezza generalizzata
e diffusa. Nel traguardo utopico di un’umanità che
si sia totalmente riappropriata della filosofia, non ci sarebbe
più il filosofo come categoria separata. Non volgarizzazione
della filosofia, ma crescita della responsabilità; e torniamo
così all’iniziale discorso sull’etica, perché
questa consapevolezza e responsabilità è anche generatrice
di modelli di comportamento. Nessuno è un’isola,
tutto ciò che diciamo e pensiamo in modo volontario o involontario
entra in un circuito che fa crescere o deprimere il discorso generale.
Non voglio sostenere in modo diretto ed esplicito che la narrazione
come genere letterario sia l’unico genere che la filosofia
debba o possa utilizzare. Voglio solo dire che anche Kant quando
scrive la Critica della Ragion Pura sta narrando se stesso:
attraverso il linguaggio tipico di una disciplina, ma sta narrando
se stesso. Voglio concludere ricordando Abbagnano, che sollecita
a non dimenticare mai che dietro ogni pensiero c’è
un uomo che pensa: quel singolo uomo che pensa proprio quella
cosa.
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