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La traduzione culturale come progetto etico-politico
di Vania Baldi

 

È decisamente plausibile pensare che il destino di quella che Edgar Morin chiama terra-patria, come quello stesso della maniera in cui la abitiamo, trovi uno spartiacque precipuo nella capacità di fare i conti con una logica ossessiva e possessiva dell’appartenenza, sia essa intesa nella sua declinazione politica o religiosa, sessuale o etnica, geografica o economica.
La «civiltà degli scontri» che sembra contraddistinguersi come cifra della modernità avanzata emerge, in parte, dalla capziosa esclusività con la quale si è diffusamente usi promuovere il proprio rapporto con il mondo. In realtà, il senso di proprietà di una qualsiasi disposizione culturale è improprio, perché alimentato da una concezione feticistica della storia e dell’identità.
Si tratta di prendere atto, in primo luogo, di alcuni assunti di base che alimentano tale deriva empirica e teorica, sottolineandone però alcune resistenze interne, movimenti culturali contrari che ne smentiscono la compattezza, rendendo questo scenario più ambivalente di quanto si pensi e costituendo al tempo stesso dei supporti per una prospettiva di modernità-mondo alternativa.
Le pratiche discorsive umanistiche che negli ultimi decenni si sono determinate intorno a questioni come quelle dei conflitti etnici o delle diaspore migratorie, della circolazione transnazionale dei flussi economici come di quelli mercantili e mediatici, della società del rischio o dell’incertezza, hanno trovato nel dibattito su «globalizzazione» e «transcultura» la dimora dialettica più appropriata. La problematica riconoscitiva-distintiva tra agenti e agenzie sociali risulta contrassegnata dall’esigenza di definire costantemente identità culturali, con relativi spazi di appartenenza politica e regolativa, in un contesto storico-politico decentrato e dalle filiazioni disseminate.

1. La cultura dislocata e ibridata
La concatenazione di tali eventi sociali ha sortito un andirivieni defamiliarizzante tra contesti culturali abitualmente ritenuti domestici, riconoscibili, quasi una seconda natura, ma progressivamente divenuti qualcos’altro; processi che implicano trasformazioni strutturali e simboliche di consolidati La concatenazione di tali eventi sociali ha sortito un andirivieni defamiliarizzante tra contesti culturali abitualmente ritenuti domestici, riconoscibili, quasi una seconda natura, ma progressivamente divenuti qualcos’altro; processi che implicano trasformazioni strutturali e simboliche di consolidati habitat istituzionali, comportando nell’insieme un’incipiente condizione di paurosa estraneità.
Lo sconfinamento delle appartenenze culturali ha condotto, per reazione, a un’impetuosa ricerca dei distinguo ed a una demarcazione ossessiva delle differenze nel cuore stesso di ogni singolo territorio nazionale. Il frastagliarsi di uno spazio comune - dai confini comuni - attraverso cui rilevare, confrontare ed articolare ethos divergenti, il correlato declino del ruolo normativo svolto da un’ideale «sfera pubblica» sempre meno identificabile, la dispersione di un centro simbolico e rituale su cui curvare e commisurare i molteplici interessi, hanno generato nell’insieme una torsione entropica dei legami sociali, di cui un sintomo rappresentativo è la testata insofferenza nei confronti di individui e gruppi, storicamente tenuti a distanza (o quantomeno socialmente ascrivibili a categorie precise), divenuti repentinamente troppo prossimi.
In un certo senso, è una dinamica non dissimile da quella spiegata all’inizio del secolo scorso da George Simmel in merito all’avanzare di inediti conflitti sociali all’interno delle nascenti metropoli europee; «il contrasto», secondo il filosofo austriaco, si manifesta in tutta la sua aggressività quando rimane difficile stabilire confini chiari, oggettivi ed oggettivati, cioè storicamente e reciprocamente modellati nella loro veste di cuscinetto da ogni gruppo insediato nell’al di qua delle zone di contatto. Gruppi estranei e divisi, in quanto ciascuno tenuto insieme al proprio interno dalla distanza speculare marcata rispetto agli altri gruppi. Secondo Simmel, quando entra in crisi un sistema d’«eguaglianza di differenze reciproche rispetto a ciò che è semplicemente generale» si perde un criterio, soggettivo ed oggettivo, per misurare e costituire le differenze. Se la distanza di sicurezza si riduce irrompono passioni psicosociali legate al senso dello spossessamento. Simmel ne individuava come cruciali almeno tre, tra loro strettamente correlate: la «gelosia», l’«invidia» ed il «dispetto». Esperienze ricorsive nella storia umana, perchè ciò che si ritorna a contendere è la legittimità della propria specificità, del proprio insediamento, il monopolio del proprio privilegio, l’esclusività del proprio oggetto del desiderio, in breve, la densa polisemia del «proprio» rispetto a un «altro generalizzato».
La trama dei rapporti culturali, inoltre, si infittisce con la sua sovrapposizione a quella dei rapporti di potere, costringendo a un passaggio necessario, per la critica e la politica, da una concezione idealistica del cosmopolitismo a una più concreta di ibridazione differenziata. C’è chi l’ibridità può viverla come un lusso e chi come una minaccia, ma la natura di queste modalità asimmetriche di relazionarcisi deriva, innanzitutto, da una condizione altrettanto asimmetrica di disponibilità di accesso alla gestione delle risorse culturali e politiche. C’è un’intrinseca sfasatura politica tra i diversi livelli di ibridazione culturale: un’enorme differenza separa uomini d’affari o intellettuali cosmopoliti, che possono sperimentare interazioni diversificate senza che la propria cultura e identità venga messa in discussione, da altri soggetti che (dal basso e nell’immediato) vivono come una costrizione angosciosa l’interazione con mondi ignoti.

2. La traduzione culturale come arte della mediazione
Il carattere insieme eterogeneo e discordante di tali sommovimenti, l’irriducibilità sociale ed antropologica delle sue implicazioni, provoca allora la necessità di architettare un’ideazione culturale, altrettanto estesa e variegata, capace di sostenere ragioni pratiche all’altezza della sfida.
Nel perseguire un simile intento si propone la categoria di «traduzione culturale» come l’attività di un sapere in movimento tra più livelli di mediazione: attività riflessiva che investe sia il piano dei rapporti intersoggettivi che quello dei percorsi intrasoggettivi e, contestualmente, esercizio di stima e di verifica costante delle forze che segnano il campo sul quale tali mediazioni si compiono. Un ponte circolare di elaborazioni differenti, ma connesse. Tradurre, in questa sede, significa richiamare la sua duplice accezione, attiva e passiva, di essere tradotto e di agente di traduzione. La compresenza di queste due modalità, intrinseche alla pratica traduttiva, è simbolicamente rappresentata dal suo stesso prefisso: «tra»; tradurre consiste, quindi, nel fare i conti con quel contingente tutt’intorno che comporta l’essere nodo e rifrazione di un’eterogenea rete di relazioni.
Non si tratta di discorrere necessariamente sulla trasferibilità del senso di un testo, o di un enunciato, da una lingua all’altra, anche perché, se volessimo rimanere all’interno della topologia linguistica, si potrebbe riprendere quanto già osservato sul tradurre come movimento immanente ad ogni singola lingua, dato che in ogni linguaggio opera sempre «un modello di tras-lazione, di trasferimento verticale o orizzontale». Pertanto, al di là di come nel tessuto di una stessa lingua si rinvengano passaggi continui ed intermedi di traduzione tra termini che già in sé rimandano l’uno all’altro, l’attenzione qui è posta sulla trasposizione di tali passaggi in ambiti di codificazione eccedente la semiosi linguistica, in contesti di pratiche ed operazioni culturali attraversanti più piani discorsivi, in cui lo stesso idioma si rivela strumento di un’attrezzatura relazionale più complessa.
Interdicendo ogni sorta di reductio ad unum, la traduzione culturale la si può concepire come condizione ed espressione di relazioni transculturali, come presupposto tacito che opera in ogni situazione di co-presenza, come frontiera mobile e segnaletica del rapporto che si intrattiene con se stessi. Crocevia di queste diverse dimensioni dell’esperienza, la traduzione culturale può declinarsi verso un progetto etico-politico specifico, proteso nella comprensione approssimata dello stesso contesto di traduzione, palesando e filtrando quelle logiche che in qualche modo lo pre-occupano.

3. La natura mediana e mediata dell’identità
La categoria di traduzione culturale indica oggi un orizzonte di senso all’interno del quale si giocano i giochi più delicati del nostro presente, la sua crucialità si può verificare per contrasto a tutta una serie di diagnosi sul sociale, sulla stato di salute dei suoi principi costitutivi, che attestano un’attenzione particolare della ricerca umanistica sulla storia recente. C’è tutta una costellazione semantica, nelle indagini filosofiche e sociologiche sulla natura della socialità e della vita in comune odierna, che, difatti, ruota intorno a termini che sembrerebbero negarne la sostanza. Non che si possa improrogabilmente sostenere quale sia la sostanza o la natura dell’«essere con» altri, siano questi individui, oggetti, ambienti o altro ancora; ciò che tuttavia colpisce è che il denominatore comune di queste diagnosi pare essere proprio la tendenza a l’essere contro di ogni «essere con», o meglio, il loro basso continuo si intravede attraverso la rilevanza assegnata (e la critica rivolta) all’aridità del terreno di coltura sul quale dovrebbero innestarsi e foggiare le pratiche di coesistenza (o di vicendevole traduzione). Forzando provocatoriamente nella direzione indicata da alcune di queste prospettive teoriche, si può arrivare a considerare la relazione interindividuale come espressa non da modalità che mirino a negarla o a trascenderla, dato che, fondamentalmente, questa non si esprimerebbe nemmeno. Tale essere contro non sembra essere un risentimento, e neanche un voler contrastare o trasgredire vincoli etici ritenuti oppressivi, poiché si rimarrebbe sempre troppo implicati e coinvolti in ciò che si rifiuta. Chi è contro dice «no» senza che gli venga chiesto alcunché, non esperisce un reale interesse perché sottratto da tempo a un senso di partecipazione riconoscitiva; inibito e saturato dall’inerzia di una socialità asimbolica, che si pronuncia per conati e singulti, si rifletterebbe incancrenito in automatismi centripeti.
Tuttavia, la mappatura del sociale non si esaurisce in uno scenario così sconfortante; del resto, gli stessi che ne tratteggiano il profilo né vivono in un altro mondo né ignorano la compresenza di stili ed intimità culturali alternative. Estremizzare, però, delinea significativamente il profilo di un ethos culturale generalmente tematizzato come «postsecolare», focalizza sintomi che costituiscono componenti eloquenti dei «caratteri postradizionali».
Le ragioni traduttive rimangono, dunque, operative, se pur intransitive, inavvertite o rimosse; in ogni evento storico, la natura «mediana» e «mediata» delle identità resiste.
La traduzione culturale può dispiegarsi favorevolmente, in linea di principio, tramite una ponderazione sull’effettiva condizione relazionale, un’apprensione per il destino delle poste messe in gioco e per il riconoscimento reciproco delle differenze tra chi agisce; implica, in breve, un’autovalutazione riflessiva. Bisogna allora analizzare il terreno sul quale tale esperienza attualmente si coltiva, ricostruirne i panorami storici e critici e, insieme, verificare come e dove è resa articolabile. L’umano s’inscrive sempre come «segno» culturale di un evento sociale o discorsivo, storicità significa riconoscere che tutto ciò che è umano ha bisogno di traduzione.

4. Identità diasporiche e loro narrazioni
I contesti intorno ai quali si condensa maggiore problematicità, e da cui si irradiano le tensioni cognitive ed affettive più delicate, sono quelli interessati dagli intricati processi economico-culturali della «diaspora» e della «frammentazione». Più o meno direttamente, gli analisti sociali che dibattono sul tessuto della socialità odierna non possono non fare i conti con quel «territorio» definito da alcuni come slippery, disarticolato, differenziato, sdrucciolevole, ma anche sincretico, che allo stesso tempo ci avvolge ed eccede, che è il nostro orizzonte culturale. Dimensioni dell’esperienza come quelle segnate dagli odierni processi migratori, dalla destrutturazione del mondo del lavoro o, ancora, dallo sgretolarsi del ruolo simbolico e concreto delle istituzioni politiche, sono alcune di quelle «istanze dell’eterotopico» che partecipano di tale ambito storico caratterizzandone i conflitti e le poste in palio.
Ogni identità culturale, sciolta dal legame con un sostanziale mondo comune, diviene non-più-differente, avendo perso quella relazione che la rendeva differente-da. Sovrapponendosi, le differenze si percepiscono nell’immediato (paradossalmente e nervosamente) come simili, in quanto non più chiaramente distinguibili.
Il carattere metastorico della pratica traduttiva diviene, in tale contesto, uno strumento insidiato ed asfissiato da una onnilaterale compressione di processi socio-culturali che, insistendo su ogni essere storico e configurazione mentale, costringono a rapidi e diffusi riadattamenti locali di senso, cumulando a loro volta continui effetti decentranti. Ciò che turba la disposizione traduttiva, tuttavia, non è tanto il decentramento o il riadattamento in quanto tale, già da sempre l’essere umano dibatte con (e si nutre di) queste condizioni ineluttabili dell’esperienza, quanto piuttosto lo scenario all’interno del quale queste esperienze si presentano e le modalità attraverso le quali si intensificano. Un contesto storico-politico segnato da circostanze centrate sul primato della contingenza, da dinamiche che rendono tale compressione di eventi ingiustificabile, imprevedibile effetto di remoti rapporti di forza esperiti come anonimi, ma ciononostante inscritti in un quadro tautologico della rappresentazione sociale «pre-giudicante», in una simbolica e un’agenda pubblica organizzanti un consenso di sfondo, ovvero quell’«insieme di evidenze condivise che sono costitutive del senso comune», che, a sua volta, informa di sé (traduce) le comuni categorie riconoscitive (traduttive), gli «schemi pratici di percezione, di valutazione e di azione».
Ci si muove, così, intorno a questioni che diversamente richiamano agli esiti degli éndoxa aristotelici, della colonizzazione delle coscienze e del dominio simbolico, tappe o inciampi dell’esperienza individuale e collettiva di cui si tratta di registrare e storicizzare il legame con l’odierna fenomenologia di un potere esercitato «secondo le tecniche del trattamento omeopatico e della metabolizzazione del desiderio». Bisogna quindi, parallelamente, confrontarsi con i «discorsi» di chi, adoperandosi nella giustificazione dell’esistente, istituisce un «vocabolario di sfondo» che sostiene e vincola i giudizi, le rappresentazioni e le cornici di riconoscimento, pre-specificando le grammatiche cognitive ed emotive attraverso le quali si concepiscono ed agiscono i variegati rapporti sociali.
Un sociologo come Pierre Bourdieu non ha mai smesso di ricordare come le stesse discussioni intorno ai metodi ed ai sistemi di classificazione non devono far dimenticare che ogni strumento di conoscenza riveste, anche, funzioni che non sono di pura conoscenza. I modi convenzionali della conoscenza e di espressione vanno sempre ancorati «alle condizioni sociali della loro produzione e riproduzione»,  le «tassonomie pratiche, strumenti di conoscenza e di comunicazione che sono la condizione della costituzione del senso e del consenso sul senso, non esercitano la loro efficacia strutturante se non in quanto sono a loro volta strutturate».
Solo attraverso un taglio grammaticale alla struttura di questo tipo di vocabolario, fondamentale per ricostruire «l’arbitrario storico dell’istituzione storica che si fa dimenticare come tale tentando di fondarsi in ragione mitica», la critica può approssimarsi più liberamente a un orizzonte d’ispirazione cooperativa tra le differenze. Come non può esserci una pratica riconoscitiva intersoggettiva che non includa contemporaneamente (ma non per questo sincronicamente) un complesso riconoscersi intrasoggettivo, così non può esservi traduzione culturale che non comprenda dinamiche autrotraduttive, conoscenza della propria forma di conoscenza. Viceversa, nessuna pratica d’individuazione è possibile senza tradurre e riconoscere la propria tradizione d’appartenenza e la struttura dello spazio sociale all’interno del quale si agisce e preferisce. Processo circolare che necessita di un lavoro partecipato.

5. Politiche della retorica pubblica
Come leggere, altrimenti, la grossolanità comunicativa delle élite politico-economiche contemporanee, il loro esorcizzare ogni istanza di mediazione critica, o qualsiasi contrappeso istituzionale, attraverso la banalità di una retorica della «mondializzazione», pseudoconcetto insieme descrittivo e prescrittivo, centrata sulla tautologica triade di necessità, libertà, civiltà? In realtà il cosmopolitismo formale di cui si avvale l’integrazione del campo economico mondiale tende a lasciare i cittadini di ogni nazione senza difese di fronte alle potenze transnazionali dell’economia e della finanza. Nel suo Le strutture sociali dell’economia sempre Bourdieu spiega come le politiche cosiddette di «aggiustamento strutturale», che organizzazioni internazionali come l’FMI impongono alle economie indebitate del Sud, mirano ad assicurare l’integrazione nella subordinazione delle economie dominate. Un’integrazione che avviene quindi senza l’intermediazione dello stato e di quei meccanismi «artificiali» e «arbitrari» di regolazione politica dell’economia connessi allo stato sociale, ma a servizio esclusivo degli interessi dei dominanti, che, a differenza dei giuristi delle origini dello stato europeo, non hanno un reale bisogno di rivestire una politica conforme ai propri interessi con delle parvenze di universalità! Sono la logica del campo, e la forza economica del capitale concentrato, a imporre dei rapporti di forza favorevoli agli interessi dei dominanti. Questi ultimi possiedono gli strumenti per trasformare i rapporti di forza in regole del gioco dall’apparenza universale, tramite gli interventi falsamente neutrali delle grandi istituzioni internazionali (FMI, OMC) che loro stessi controllano.
La stessa proliferazione di ideologie populiste occidentali (espresse non più, si badi, da irriducibili contestatari), che la comunicazione di massa contribuisce non poco a creare, può intendersi come un tentativo di ridurre ogni complessità ad un’unica ed immediata chiave di lettura, può ipotizzarsi come un’ulteriore reazione del «regime del discorso» all’erosione della propria crucialità storica, minacciata come è dalla complessa trama dei flussi economici, tecnologici, etnici e culturali attraversanti il globo a velocità sempre più intensa e con codici sempre più polimorfi.
Anche un tema così onnipresente e ridondante come quello relativo alle forme del «riconoscimento», questione fondamentale attraverso cui si struttura la possibilità stessa della vita individuale e collettiva, deve parte del suo valore euristico e del suo interesse pubblico, ancora una volta, alle multiple ripercussioni, sui criteri di individuazione e socializzazione, dei sovradeterminati processi di creolizzazione culturale, del generale deprezzamento di costituiti «beni simbolici» e della spaesante dissolvenza del legame (e quindi della distinzione) tra spazio privato e sfera pubblica. La problematica riconoscitiva si presenta quale cartina di tornasole di più dissidi. Le riflessioni più recenti ne hanno difatti tracciato uno spazio teorico carico di implicazioni: da una parte si sono focalizzate sull’emergenza sociale di lotte diversificate per il riconoscimento (esistenziale, normativo, politico) e su come determinarne sempre di nuove (soprattutto per il riconoscimento delle differenze etniche e sessuali), da un’altra hanno esplorato le diverse sfumature antropologiche dell’etica riconoscitiva all’opera nelle eterogenee circostanze di co-presenza, comprese quelle contrassegnate dall’elusione stessa di ogni tipo di occasione riconoscitiva.
Si è così sollecitati a chiedersi: che ruolo assume oggi la «libertà individuale», in un contesto culturale in cui al suo aumento apparente corrisponde una maggiore impotenza collettiva? Di che pasta sono fatti i «ponti» tra la vita pubblica e quella privata? Attraverso quali logiche si tentano (sempre che si tenti) di «tradurre le preoccupazioni private in questioni pubbliche» o si cercano «di identificare e mettere in luce le questioni pubbliche nei problemi privati»?

6. La politica universalistica della differenza
L’occasione rappresentata dall’emergere diffuso di soggettività transculturali, nonostante gli ambienti in cui si generino il più delle volte siano teatro di sofferte collisioni tra persone e gruppi divisi da interessi e habitus diversi (se non antagonisti), offre la possibilità di pensare a una politica universalistica della differenza, a una prospettiva etica intermedia rispetto ai poli estremi di un «comunitarismo» che ipostatizza le differenze e di un «neoliberalismo» individualistico. Si tratterebbe di trasporre nella cultura politica fondata sul «diritto» il riconoscimento di quelle condizioni concrete che rendono reale e conveniente la coesistenza e la mediazione con soggetti portatori di nuovi diritti particolari. Lavorare, cioè, per una sorta di lobby democratica, per universalizzare l’accesso delle lotte particolari per l’universale, per garantire l’«universalità delle strategie di universalizzazione». L’accesso ai benefici offerti dall’universale, dalle retoriche e dalle politiche agenti in suo nome, è sempre più impari; da qui la promozione d’una strategia generale di generalizzazione dei diritti, aperta alla richiesta di universalità proveniente dalle molteplici istanze particolari.
Fare leva su questi sintomi vuol dire promuovere quella socialità che è indiscernibile da una ricerca di individuazione da parte dei singoli, quella che ha come premessa necessaria la doppia implicazione tra individui e gruppi di riferimento che si cercano e costituiscono gli uni attraverso gli altri. «La socialità è l’ambito di un divenire in cui il gruppo e l’individuo nel gruppo non smettono di cercare un proprio cammino, e tale ricerca costituisce il tempo umano». L’individuazione, continua Bernard Stiegler, è proprio il risultato parziale di una circolarità tra tempi: «benché non sia di certo il tempo del noi, il tempo dell’io si svolge nel tempo del noi che è a sua volta condizionato dal tempo degli io che lo compongono». L’immondo prospera nella rimozione di questi passaggi di scambio, nell’incapacità di tradurre l’interferenza o l’interdipendenza in dispositivi emancipativi, nell’insofferenza o nella malavoglia di pensarsi insieme co-appartenenti e separati.
Risulta fertile, pertanto, riferirsi a quegli ambiti in cui gli incontri tra storie ed habitus diversi riescono, appaiono inventivi e determinano la maturazione di una coesistenza reale. Il più delle volte sono ambiti quotidiani di relazione pratica, ambienti che favoriscono il riconoscimento spontaneo della situazione stessa dell’incontro, microcosmi di partecipazione in cui si concretano disposizioni psicologiche duttili nell’articolare la proposizione di sé con la discrezione, l’autorappresentazione con la reciprocità(si direbbe, contesti capaci di generare response-ability). Sono situazioni che, ci rammentano studi postcoloniali come quelli di R. J. Young, si producono ai margini dei grandi racconti della globalizzazione (che pure contribuisce a fornirne il palcoscenico locale) e, allo stesso tempo, che promuovono movimenti di resistenza e trasformazione, esperimenti di una mediazione multilaterale che si gioca tra più contesti e più immaginari. «Queste relazioni consentono l’articolazione di quell’esperienza di mutamento tipica di società disarticolate dal dipanarsi della modernizzazione e facilitano dunque l’avanzamento di richieste di trasformazione sociale». Sono ambienti in cui prevale la «logica delle cose» piuttosto che le «cose della logica», in cui prende forma un’attitudine concertata che insieme soppesa (pondus) e trasforma la paura in ironia, il pregiudizio nella fiducia, lo sconforto per l’incerto nella lucidità del potersi mettere alla prova. Per Alessandro Dal Lago sono: «Modi di essere dello scambio (e di una certa inclinazione all’ibridazione) che non devono essere sopravvalutati, ma che hanno lo stesso diritto di esistenza – nel territorio dell’immaginazione in cui prendono preliminarmente forma le idee con cui raffiguriamo la cultura, la storia e la società – di quell’altra tendenza, oggi dominante, secondo cui la cultura sarebbe qualcosa di fisso, di determinante, una sorta di maledizione o di benedizione che ci accompagna dalla nascita alla morte»


PUBBLICATO IL : 31-07-2008


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