Insieme a Francesco Saverio Trincia abbiamo ripercorso i momenti salienti della sua riflessione sul soggetto iniziata negli anni Ottanta. Una riflessione che si è dispiegata lungo il filo teso su domande incalzanti e che, attraverso due principali momenti di svolta, è giunta nel suo ultimo libro Husserl, Freud e il problema dell’inconscio (Morcelliana, 2008) a promuovere una filosofia del soggetto paradossale.
In questo libro, facendo dell’inconscio un “vissuto”, Trincia si propone d’integrare l’inconscio freudiano nella coscienza fenomenologica husserliana. Ripensando l’inconscio, Trincia giunge ad una nuova teoria del soggetto che suona come una sfida al mondo filosofico italiano, una sfida che l’autore intende muovere proprio nell’epoca che decreta la morte, la frantumazione o l’indebolimento del soggetto.
Se questa è la sfida che Trincia lancia alla sua epoca e al suo ambiente, tuttavia ce n’è un’altra che il suo stesso scritto muove a lui perché, a dispetto della promozione della coscienza fenomenologica trascendentale, le parole scelte dal filosofo per articolare gli snodi teorici della sua filosofia sono aporia e paradosso ed inoltre, per dar forma a formulazioni portanti, Trincia fa spesso appello alla figura retorica, cara ai mistici, dell’ossimoro.
Questa breccia costituisce la vera apertura critica di un testo che pone questioni, che interpella, che esige una risposta e sollecita la ripresa di un dibattito. Trincia ravvisa infatti il limite principale della cultura italiana nella chiusura e nella autoreferenzialità degli autori. Auspica perciò che questo libro ravvivi l’anima critica della filosofia che può esistere solo nel dialogo e nel dibattito, al limite nella contrapposizione a cui volentieri si esporrebbe.
Professor Trincia, come si situa il suo ultimo testo nella riflessione filosofica che ha maturato nel corso degli anni? Vorrebbe ricostruirne le tappe indicandone i principali momenti di svolta?
Il mio ultimo libro Husserl, Freud e il problema dell’inconscio è il punto d’arrivo di un percorso cominciato almeno venti anni fa, alla fine degli anni Ottanta, e caratterizzato da una costante attenzione per il tema della soggettività. All’inizio degli anni Novanta ho indagato il soggetto da un punto di vista etico e politico, i miei riferimenti filosofici sono stati Hegel e Marx. Infatti, la mia crescente attenzione verso il pensiero di Marx ha trovato uno dei suoi punti di forza nel tema dell’individuo – definibile tale da un punto di vista giuridico – e nel tema del soggetto inteso come individuo morale. Il punto nevralgico di questa prima fase è stata una conferenza che ho tenuto a Caen, in Francia, nei primi anni Novanta. A partire da questo momento ho desiderato capire se ci fossero, e in tal caso quali fossero, le differenze tra il soggetto logico e il soggetto etico, morale. Da questa domanda è scaturita una riflessione confluita poi nel saggio dedicato ad Hegel Individuo logico e individuo politico in Hegel (si veda Individuo e modernità. Saggio sulla filosofia politica di Hegel, a cura di M. D’Abbiero e P. Vinci, Guerini e Associati, 1995). Dunque, già in questa che potrei definire la stagione hegelo-marxista del mio pensiero, la mia preoccupazione teorica è stata rivolta al soggetto, all’individuo ed ha costituito uno dei motivi centrali della riflessione sullo Hegel politico e della critica a Marx (si veda Normatività e storia. Marx in discussione, Franco Angeli, 2000).
In questo contesto è venuta maturando l’idea che ogni riflessione sul problema del soggetto in questo o quel pensatore, in questa o quella filosofia, richiedesse contestualmente di abbozzare una specie di teoria generale della soggettività. D’altronde è proprio ciò che ho tentato di fare in questo mio ultimo libro, sebbene abbia complicato la nozione di soggetto con il tema dell’inconscio. Non sono certo di essere riuscito a tracciare le linee essenziali di una teoria generale della soggettività, ma nondimeno questo tentativo ha costituito lo sfondo del mio filosofare.
La riflessione sul soggetto, o la speranza di costruire una filosofia del soggetto – quindi l’accelerazione che il tema della soggettività ha assunto nella mia filosofia – è emersa in modo più chiaro una decina d’anni fa, dopo la fine del mio interessamento tematico per Hegel e per Marx, quando i miei interessi marxisti hegeliani decrescono e vengono sostituiti da un interesse marcato per la fenomenologia di Husserl. A partire da questo momento ho ripensato il tema del soggetto attraverso la fenomenologia di Husserl e la psicoanalisi di Freud, anche se in verità il mio interesse per Freud non si è mai interrotto, ha quasi costituito un filone parallelo che risale ad almeno quindici o sedici anni fa.
Questo è stato senz’altro il decisivo momento di svolta, di mutamento. Il riferimento al soggetto e all’individuo – pur senza perdere l’ancoraggio etico e politico che per esempio si ritrova nei miei scritti etici e politici, o anche bioetici come Il governo della distanza (Franco Angeli, 2004) e Etica e bioetica (Franco Angeli, 2008) – assume un più forte spessore teoretico. Infatti, la domanda su “che cosa è un soggetto” diventa più radicalmente filosofica. Ne discende che accanto all’idea secondo cui il vero soggetto non è solo logico ma che è un soggetto pratico, che agisce, un soggetto dell’azione, accanto a questa idea ha cominciato ad interessarmi l’indagine di che cosa fosse la soggettività. Solo la fenomenologia può, a mio avviso, rispondere ad una domanda così radicalmente teorica.
In questa seconda fase, quindi, l’interesse per il tema della soggettività, che è al centro della fenomenologia husserliana, viene ad intrecciarsi con la permanenza del tema della soggettività in etica – anche attraverso la sua declinazione bioetica – e soprattutto con l’attenzione che ho sempre avuto per il pensiero di Freud. L’interesse per Freud risale alla seconda metà degli anni Ottanta. Ad attrarre la mia curiosità è stato lo scritto di Freud su L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1934-1938) che costituisce anche il nucleo di una riflessione più ampia sul tema della religione in Freud depositata nel mio libro Il Dio di Freud (Il Saggiatore, 1992).
L’innesto nella fenomenologia della domanda sull’inconscio ha determinato un’ulteriore svolta, o forse ha meglio precisato il senso dell’ingresso nella fenomenologia, ed ha suscitato in me una serie di domande da cui procede il libro di cui discutiamo. In tal senso, questo libro rappresenta il punto d’arrivo di un lungo percorso ed è in certo senso strano e significativo che esso coincida con una problematizzazione talmente radicale del tema del soggetto da indurmi ad enunciarne una fisionomia o uno statuto paradossali.
Lei compie un gesto audace accostando la fenomenologia trascendentale husserliana alla psicoanalisi freudiana, tanto più in un paese come l’Italia dove manca una riflessione seria di questo tipo. Come spiega questo stato di cose?
La domanda va centrata sulla questione del perché l’interesse nei confronti della psicoanalisi, e in particolare nei confronti del rapporto tra psicoanalisi e fenomenologia, non abbia – almeno per quanto io ne sappia – ampi riscontri in Italia. Interessi ce ne sono, ma non mi sembra che ci siano nuclei di pensatori, di filosofi o anche di psicoanalisti che abbiano dedicato a questo tema – cioè al rapporto tra fenomenologia e psicoanalisi – quell’attenzione che esso ha conosciuto e conosce in Francia, coinvolgendo molti tra filosofi e psicoanalisti.
Una delle caratteristiche del mio lavoro è stata perciò che esso si è svolto in un contesto di solitudine teoretica, nel senso che mi sono mancati degli interlocutori italiani, sebbene questo riferimento nazionale conti poco. Tuttavia vorrei anche precisare che non solo il tema specifico del rapporto tra fenomenologia e psicoanalisi, ma anche la psicoanalisi in quanto tale non è diventato uno dei temi fondamentali dell’interesse filosofico in Italia. Certo, non mancano pensatori anche seri, penso a Remo Bodei, che si sono misurati con questi argomenti, ma si tratta di casi isolati. Non accade certo come in Francia o come nella cultura americana dove la psicoanalisi ha rappresentato un punto di riferimento molto forte fosse pure per mostrare (è il caso di molta cultura americana) che merita di essere confutata. Anche in Germania c’è stato un interesse per la psicoanalisi. Non dimentichiamo che Ludwig Wittgenstein, forse esagerando un poco, si dichiarava discepolo di Freud e che molto di quello che ha scritto Jürgen Habermas si intreccia con una riflessione filosofica sulla psicoanalisi.
Tutto questo in Italia non si è verificato ed è per questo che dico che mi è mancato un milieu teorico di riferimento. Certo, si trovano volta per volta questo o quel pensatore, questa o quella cattedra, un nuovo libro, ma complessivamente il clima culturale italiano mi sembra costantemente attraversato da una distrazione nei confronti della psicoanalisi che a ben vedere costituisce la tappa ulteriore di un rigetto, di un rifiuto o di un isolamento della problematica filosofico-psicoanalitica, affermatisi nell’alveo delle diffidenze del mondo cattolico e marxista. Bisognerebbe che qualcuno avesse la capacità di scrivere il secondo e più recente capitolo del famoso libro di Michel David su La psicoanalisi nella cultura italiana (Bollati Boringhieri, 1966), un libro interessante ma ormai datato. Bisognerebbe dimostrare come e perchè il persistere di questa diffidenza si sia ora sganciato dalle sue fonti perché, da un lato, la cultura marxista non esiste più e, dall’altro, quella cattolica ha attenuato le sue diffidenze verso la psicoanalisi, anzi ha tentato contatti, contaminazioni e persino un uso cattolico della psicoanalisi. Ma tutto questo non ha prodotto una cultura che riservasse a questo tema un’attenzione almeno pari a quella che essa ha trovato in Francia – basti un nome su tutti, quello di Paul Ricoeur.
Ora è divenuto più difficile comprendere il motivo dell’emarginazione della psicoanalisi nella cultura italiana perché sarebbe difficile dire che tutta la cultura italiana sia influenzata dal marxismo e dal pensiero cattolico. Eppure in questa distrazione si prolunga, più o meno consapevolmente, una diffidenza maturata in altre epoche e in culture ormai tramontate. Non bastano a modificare il quadro che stiamo delineando neppure pensatori come Angela Ales Bello che pure incarna la figura di un filosofo in cui l’appartenenza religiosa si fonde con l’interesse per la fenomenologia e anche con l’interesse per il pensiero psicoanalitico.
Quando all’interno di una cultura non nascono certi fiori possiamo anche introdurvi le piante e le piantine che vogliamo, ma i fiori continueranno a non nascere. Credo che a questo stato di cose abbia anche contribuito la diffidenza accademica nei confronti di ciò che non porta il titolo della (presunta) appartenenza ufficiale e riconosciuta alla filosofia. Non di rado negli anni in cui più debole era la mia condizione accademica, mi sono sentito dire che Freud in realtà non è un filosofo e che, dunque, quando ne scrivevo, non scrivevo di filosofia, non ero un vero filosofo. Ritengo invece di essere un filosofo. Scrivo infatti (anche) di psicoanalisi, riflettendo su di essa attraverso le lenti della filosofia e con i suoi strumenti concettuali e metodologici.
Nel suo ultimo libro l’ipotesi di un’integrazione dell’inconscio freudiano all’interno della coscienza fenomenologica, seppure nella forma di una “vicinanza incolmabile”, Le permette di ripensare il soggetto e di formulare con ciò una più comprensiva teoria fenomenologica della soggettività. Il suo testo lancia una sfida ambiziosa, quella di rischiarare la “notte della passività inconscia” (p. 105) con la luce della fenomenologia husserliana. Un nodo difficile da districare…
Ho usato l’ossimoro “vicinanza incolmabile” per sottolineare che nel collegamento tra l’inconscio freudiano e la coscienza fenomenologica c’è qualcosa che residua e rende problematica questa parentela, questo apparentamento o connessione dei due termini. Da un lato parliamo di coscienza, dall’altro d’inconscio, quindi di una vicinanza che non produce identità ma che anzi, entro questa vicinanza, mantiene un abisso di distanza.
In questa espressione ossimorica emerge un problema critico che risponde alla sfida di non isolare l’inconscio nella sua formulazione freudiana dalla coscienza fenomenologica, utilizzando quei margini – in vero non ampi e del tutto asistematici – che il pensiero di Husserl offre sul tema dell’inconscio. Ho mostrato i risultati teoretici possibili dell’avvicinamento dell’inconscio freudiano alla coscienza fenomenologica. Proprio tale accostamento mi ha permesso di tentare – ed è questo il punto centrale del mio lavoro – la costruzione di una teoria della soggettività in cui la dimensione inconscia non produce la distruzione, l’esplosione del soggetto ma piuttosto partecipa alla costruzione del soggetto stesso. Husserl sembrava autorizzarmi a seguire questa pista. Penso ad alcuni luoghi, circoscritti ma importanti, del suo pensiero come L’appendice sull’inconscio della Crisi delle scienze europee o a certe lezioni delle lezioni sulla Sintesi passiva in cui emerge il riferimento all’inconscio freudiano, sullo sfondo del progetto di una teoria fenomenologica dell’inconscio, evocata ma lasciata priva di ulteriori approfondimenti. Se non apparisse azzardato, direi che il mio libro ospita il tentativo – già presente nella filosofia francese del secondo dopoguerra – di pensare le eventuali condizioni di possibilità di una teoria fenomenologica dell’inconscio, che Husserl non ha considerato tre le priorità della propria fenomenologia.
La volontà di interpretare il rapporto indiretto tra Husserl e Freud – ricostruibile dall’interprete animato da curiosità speculativa, piuttosto che storiografica, dato che gli accenni di Husserl a Freud sono scarsi, rapidi e apparentemente assai generici – e, insieme con esso, il progetto di edificare una teoria della soggettività in cui l’inconscio pensato come un “vissuto” venga a costituire la fisionomia di una soggettività complessa ma nondimeno unitaria, sono i cardini del mio libro. Ho pensato che l’inconscio avesse a che fare con la dimensione vissuta, con qualcosa che evocasse l’Erlebnis fenomenologico, sebbene non mi sfugga come sia difficile immaginare l’Erlebnis – che, nel caso di Husserl, è un evento della coscienza intenzionale – nei termini di inconscio. Come potrebbe darsi una coscienza intenzionale che sia portatrice nella sua intenzionalità di qualcosa che chiamiamo e pensiamo come inconscio? Esiste un’intenzionalità inconscia? Questi sono i problemi che sollevo, gli ambiti problematici che apro, e a cui non sono in grado di dare una risposta esaustiva – proprio perciò andrebbero discussi. Voglio dire che attendono di essere “interminabilmente” pensati, e non solo da chi li ha proposti. Tutto questo per dire che l’espressione “vicinanza incolmabile” evoca l’orizzonte problematico che può trovare spazio solo nel mantenere aperta la divaricazione tra i due poli di un ossimoro.
Lo stesso discorso vale per la “sfida” ambiziosa che lei ha rintracciato nel mio libro e che consiste nel tentativo di rischiarare alla luce della fenomenologia la notte della passività inconscia, come si dovrebbe dire nel linguaggio husserliano. Questo è un obiettivo la cui enorme difficoltà di realizzazione, se non si tratta addirittura di un’impossibilità essenziale, emerge con chiarezza senza che ciò impedisca di riflettere sul suo senso. Ribadisco questo punto, che ha un significato solo metodologico: la serietà e l’urgenza di una riflessione ulteriore dipende dal prendere atto che il tema dell’inconscio e della soggettività evocano ed implicano una problematicità che resta aperta e che può persino risultare irresolubile. Resta fermo tuttavia il risultato positivo costituito dal pensiero dell’inconscio nel contesto di una teoria del soggetto. Non se ne sottovaluti il valore, consistente essenzialmente nella circostanza di collocarsi tra l’atteggiamento implicante l’irrilevanza o l’ovvietà della tematica, e l’opposto ma altrettanto sterile atteggiamento dell’impossibilità stessa del logos dell’inconscio e del soggetto. È evidente dunque che la notte della passività inconscia è illuminabile dalla luce della fenomenologia husserliana perché questa notte non è mai davvero una notte piena e definitiva, non è una morte della vita intenzionale, ma è piuttosto una sorta di sonno da cui prima o poi ci si sveglia, ossia è non diversa dal preconscio freudiano. È una sorta di passività attiva e vitale. È il grado più basso della passività che costituisce la soggettività fenomenologica, la quale resta tuttavia essenzialmente soggettività di coscienza – anche se si tratta del lato passivo, materiale, iletico, della coscienza. È uno “zero” di forza affettiva, non un nulla di coscienza.
Dobbiamo allora chiederci se la luce della coscienza fenomenologica che illumina la notte della passività inconscia possa allo stesso modo rischiarare anche l’inconscio nel senso ontologico, nel senso della lacuna che interrompe la vita della coscienza, quella specie di vuoto che si traduce anche in eventi somatici e che costituisce la caratteristica essenziale dell’inconscio freudiano. Ritengo che la luce fenomenologica non possa rischiarare l’inconscio freudiano. Se poi mi si interroga sul perché ci si ponga questa domanda, pur sapendo che la risposta è negativa o almeno aporetica, rispondo che la pongo appunto nel tentativo d’incardinare l’inconscio freudiano nella soggettività. Tale tentativo vorrebbe aprire una terza via tra la radicale impossibilità freudiana che l’inconscio venga rischiarato in sé, al di fuori di quel che può accadere nel setting, e l’essenziale ammissibilità husserliana che l’inconscio sia il luogo di una passività che tuttavia appartiene alla struttura intenzionale della coscienza, sia pure nella forma della passività iletica.
Nonostante l’intenzione dichiarata di assorbire l’inconscio nella coscienza fenomenologica, nel suo libro Lei articola i maggiori punti di snodo teorici con parole come “paradosso” e “aporia” o con figura retoriche come “l’ossimoro”. Il testo lancia forse una sfida all’autore? Supera le sue intenzioni?
È vero, è un punto teorico ben colto: c’è una corrispondenza elettiva tra stile e concetto che va in questa direzione. Vedo ora con maggiore chiarezza che il mio libro promuove una riflessione sulla soggettività sulla cui possibilità evidentemente il libro e io stesso crediamo. Tuttavia la promozione di questa riflessione sulla soggettività – alla cui realizzabilità il mio libro appunto ‘crede’, in quanto la soggettività stessa per un verso viene presupposta come certa – si realizza attraverso un lavoro di scavo e di messa in crisi retrospettiva proprio di questa certezza affinché, pur restando connessa all’ancoraggio trascendentale che dipende dalla condivisione delle tesi fondamentali della fenomenologia, per altro verso proprio questa certezza non sia però declinabile nella forma aproblematica propria della fenomenologia. Non rimanga cioè la luce sempre accesa di un “presente vivente” senza sfondo oscuro e non rischiarabile. La nozione freudiana di inconscio non è destinata nel contesto del mio libro, né a scardinare la presupposizione della soggettività, né a mettere in discussione il suo riferimento trascendentale, ma può ottenere il risultato di mutarne la fisionomia interna, colpendo anzitutto quella pretesa alla “certezza”, che è stato uno degli obiettivi della polemica antimetafisica, essa stessa di origine fenomenologica, di Martin Heidegger.
È in tal senso che ritengo opportuno restare fermo ad un mio saggio pubblicato nel volume Perspectives sur le sujet, a cura di F. S. Trincia e S. Bancalari (OLMS, 2007) dal titolo L’angolo oscuro della soggettività, in cui dimostro che c’è la soggettività, ma al tempo stesso la presa d’atto della sua datità originaria – non dovrebbe mancare l’accortezza di non fidarsi troppo di una metafisica della soggettività ingenuamente riproposta. A me pare che la direzione della fenomenologia e della psicoanalisi finiscano nonostante tutto, se non per incontrarsi, e intrecciarsi, almeno per toccarsi. Mi pare di cogliere nella fenomenologia – sebbene essa venga svolta in una chiave radicalmente diversa da come accade nella psicoanalisi freudiana – una problematizzazione del soggetto, delle sue funzioni, del suo ruolo, che permette di far interagire con essa quella radicale, potentissima messa in discussione della convinzione che la psiche sia interamente cosciente, che sta al cuore della teoria freudiana. La fenomenologia husserliana “apre” il soggetto al possibile innesto in esso dell’inconscio freudiano. La sua soggettività antifreudiana è al tempo stesso disponibile alla contaminazione con la “complicazione” dell’io indotta da Freud.
La paradossalità che costituisce il soggetto viene, anziché ridotta o annullata, addirittura radicalizzata dalla sua elaborazione dell’inconscio. Lei scrive che “la radicalizzazione del paradosso esibisce la sua irrisolvibilità” (p. 286). Come può questa aporia rivelarsi feconda per una nuova teoria del soggetto? Inoltre, potremmo indicare la vera novità teorica del suo libro in una filosofia del soggetto paradossale? Potremmo dire che sia questo il pensiero che Lei vorrebbe porre al centro di un dibattito filosofico?
Bisogna essere prudenti nel rispondere a questa domanda. Perché mai, tuttavia, non dovrei concedere che la teoria del soggetto a cui ho lavorato, e continuo a lavorare, è intrinsecamente attraversata dall’aporia e dal paradosso? Potrei rispondere ribadendo che una nuova teoria del soggetto dovrebbe essere caratterizzata proprio dalla enfatizzazione del paradosso e dell’aporia, nel senso che né si sceglie di riproporre la soggettività etica e la soggettività conoscitiva come realtà certe e assolute, né all’opposto si sceglie la via della frammentazione della soggettività come accede nelle riflessioni di Giacomo Marramao e di Remo Bodei nel volume Perspectives sur le sujet.
Questa terza via potrebbe legarsi ad una paradossalità o aporia strutturali, inevitabili. Aporia del soggetto significa parlare di qualcosa che, volente o nolente, trascina in una situazione paradossale. Come dico nell’ultimo capitolo sono due i paradossi indagati nel mio libro, e a mio parere, entrambi fecondi. Sono paradossi che si affiancano, si giustappongono ma che tuttavia non s’intrecciano: uno è il paradosso fenomenologico per cui l’io è soggetto trascendentale costituente il mondo e, al tempo stesso, oggetto che vive nel mondo come persona; l’altro, più radicale, è quello che interviene quando il soggetto è chiamato ad ospitare l’inconscio. Una questione che Freud non si è mai posto perché Freud non sapeva cosa fosse il soggetto, la cosa non lo interessava affatto, non aveva alcun bisogno di pensare il soggetto filosofico. Freud parlava piuttosto della psiche, giudicandola intrinsecamente inconscia, e facendo della coscienza una sua componente non centrale.
Quello che a me interessa è di richiamare la filosofia a non dimenticare il tema della soggettività e quindi a non considerarlo come un tema liquidabile in una storia di opinioni divergenti le une dalle altre, oppure a non considerarlo come un qualcosa che in sé si frammenta, come se questo fosse il suo stesso destino. Contemporaneamente, invito i filosofi a ripensare il soggetto proprio nel momento in cui i due paradossi che ho indicato, quello fenomenologico e quello psicoanalitico, lo complicano ma non lo distruggono. È possibile continuare a pensare il soggetto complicandone, diversificandone, moltiplicandone gli aspetti interni senza per questo produrne una disintegrazione? È a questo che tengo e, con tale precisazione, credo di aver risposto anche alla seconda parte della domanda. È forse una risposta parziale, in un certo senso non mi soddisfa, ma indica comunque la direzione lungo cui mi muovo.
Rilanciare la questione del soggetto nei termini in cui Lei la sviluppa può sembrare inattuale, in un’epoca dominata da correnti di pensiero che teorizzano la morte del soggetto o quantomeno il suo indebolimento. Cosa ha reso necessario un ripensamento filosofico di tale questione?
Ciò che ha reso necessario il ripensamento di questa questione in un’epoca che non di rado dà per morta la nozione di soggettività, per effetto dell’indebolimento della dimensione stessa dell’io, è stata la convinzione della opportunità di difenderne l’utilità per la vita, per la nostra vita, ossia l’idea che si dia lungo questa via per la vita reale il vantaggio non trascurabile di non perdere l’ancoraggio ad una soggettività il cui ruolo di garanzia e di edificazione di verità sul piano teoretico – quando parlo di verità, la connoto sempre in senso fenomenologico – e di certezze sul piano etico sia capace di sottrarsi all’auto-contraddittorietà dei relativismi, ma anche di opporsi alla durezza dei fondamentalismi. Infine a rendere per me urgente un ripensamento del soggetto è stata la volontà che la grande corrente del pensiero iniziata con Freud e la pratica psicoanalitica che vi si connette non si inaridiscano. Questo destino può forse essere evitato, proprio se si ricomincia a pensare il soggetto.
Tutti questi aspetti – quello filosofico-conoscitivo, quello etico e quello psicoanalitico – mi sembrano convergere nella decisione di non dimenticare o di non liberarsi con troppa facilità del problema del soggetto, di non fermarsi davanti alla sua “oscurità”. Forse è questa la ragione della mia tendenza a pensare la soggettività nei termini di un paradosso. A ben vedere, infatti, il soggetto si presenta come un paradosso perché lo si riabilita attraverso un percorso negativo, attraverso una sorta di teologia negativa grazie a cui non possiamo dire ciò che Dio è, ma solo ciò che Dio non è e, così facendo, sveliamo che è comunque Dio il tema o l’oggetto da cui è impossibile prescindere, da cui la stessa considerazione negante o problematica prende le mosse. Lo stesso può dirsi del soggetto.
Potrebbe darsi che al cuore del mio tentativo di oppormi alla deriva antisoggettivistica del pensiero contemporaneo ci sia una preoccupazione prevalentemente e nascostamente etica. Ma è sicuro che non vi agisce solo la preoccupazione etica, perché ritengo ineludibile che la soggettività trascendentale sia presente e attiva ogni volta che si pone un problema di verità. Il problema del soggetto resta centrale anche quando, anzi soprattutto quando, si riconosce la centralità dell’inconscio e della sua “verità” teoretica eventualmente attingibile. Se da un lato non bisogna isolare l’inconscio come potenza psichica assoluta, dall’altro non si dovrebbe sottrarre il soggetto che reintroduciamo sulla scena al destino problematico e rischioso che anche solo l’accostamento al tema dell’inconscio fa incombere su di lui, contaminandolo di alterità.
Che cosa la fenomenologia può fare, che la psicanalisi non fa? Quale apporto darebbe alla clinica psicanalitica la complessa teoria fenomenologica che Lei si propone di costruire – una teoria che innesta l’inconscio nella vita intenzionale della coscienza? Quali obiezioni le muoverebbe Freud?
Mi è facile identificarmi con Freud che, se mai avesse potuto leggere le tesi husserliane, avrebbe senz’altro contestato ciò che ha contestato ogni volta che si è confrontato con la filosofia, disciplina in cui una sola cosa non accadrà mai e cioè che venga messa in discussione la centralità della coscienza – forse con la sola eccezione delle filosofie di Nietzsche e Schopenhauer che non per caso hanno molto interessato Freud, perché in esse è rinvenibile una sorta di teoria dell’anonimità del soggetto metafisico. La cosa interessante è che io concedo una tale importanza alle obiezioni di Freud “contro” il pensiero fenomenologico da poter dire che sono state proprio queste obiezioni a guidarmi nella stesura del libro. In esso Freud ha un peso almeno pari a quello di Husserl, altrimenti il libro non sarebbe stato né concepito né scritto. È forse il pari rilievo che queste due potenze intellettuali hanno per me a costituire il punto d’origine di tutti i paradossi che lo svolgimento del testo incontra più volte.
Mi si presenta una seria difficoltà, però, se cerco di dire quale apporto possa offrire la mia tesi alla clinica psicoanalitica. Sarei invece molto contento di sapere cosa mi direbbero degli psicoanalisti dopo aver letto il mio libro, vorrei sapere da loro se vi trovano degli spunti per la clinica. Tuttavia, se proprio dovessi dire qualcosa ad uno psicanalista, gli direi di leggere il mio libro perché che lui lo sappia o no, che lui lo voglia o no, sul lettino non troverà solo dei soggetti in carne ed ossa, ma troverà nascosto anche il tema che cosa è un soggetto. Questo tema diventa un problema dello psicoanalista nel momento stesso in cui inizia con un paziente la cura parlata o parlante.
Dinanzi ad uno psicoanalista sarei dunque prudente nell’indicare con precisione in che cosa il mio libro sarebbe utile alla clinica. Non lo riterrei serio. Se un filosofo volesse essere serio in questo caso, di fronte ad una tale questione, dovrebbe decidere di sottoporsi a un’analisi come potrebbe fare ogni altro essere umano. Fare esperienza della psicoanalisi come paziente non significa assolutamente imparare e capire che cosa succede dalla parte dello psicoanalista. Lo psicoanalista possiede dinamiche culturali e mentali con cui potrei solo interloquire dall’esterno, o tramite il transfert, che tuttavia non ha propriamente a che fare con un “capire”. Dunque non indicherei ad uno psicoanalista in che cosa il mio libro potrebbe essergli utile. Gli proporrei piuttosto di leggerlo e di dire lui a me se c’è qualcosa che ritiene utile per la clinica. Sarei io a voler sapere da lui. È per questo motivo, tra l’altro, che la mia riflessione è lontanissima e anzi antitetica a quella sorta di ambigua deriva culturale contemporanea costituita dalla cosiddetta consulenza filosofica.
Quali sono stati i principali scogli che Lei ha incontrato nel suo lavoro? Cosa c’è di irrisolto nel suo libro? Quali strade si aprono?
Il principale scoglio che ho incontrato nel mio lavoro è stato il clima quasi completamente sordo e cieco del mio ambiente scientifico verso le problematiche che sollevo, ma anche il fatto di non aver trovato come interlocutori stabili degli psicoanalisti. Così il mio unico appiglio è stato la mia passata esperienza di paziente psicoanalitico. Questo, d’altronde, è un libro che ha a che fare programmaticamente con la dimensione del vissuto. Però, ripeto, mi sarebbe stato utile interloquire non solo con filosofi interessati al pensiero di Freud ma anche con psicoanalisti. Mi è capitato d’incontrare psicanalisti lacaniani ed esponenti della psicoanalisi di gruppo, però ho notato che si rivolgevano a me per apprendere, per essere sollecitati: per quanto interessante sia stato il dialogo con loro, credo sia stato più quello che io ho dato a loro di quello che loro hanno dato a me.
Un altro limite è che nel nostro paese si discute pochissimo di temi teorici. Il nostro è un paese dominato da una chiusura e da un’autoreferenzialità degli autori e dei loro critici entrambe molto forti. È difficile discutere, dibattere realmente. Quel che vorrei aprire con il mio libro è proprio un dibattito teorico, perchè in fondo quel che vi resta irrisolto è proprio la teoria che costruisco: essa resta irrisolta, credo, anche perché esige un dibattito critico, perché evoca un’assenza e un bisogno di completamento. Per un aspetto almeno, il senso stesso del mio libro è nella lettura che ne sarà data e che auspico avvenga, qualunque sia la reazione che suscita, di critica, di rifiuto, di adesione o di problematizzazione ulteriore. Questa esigenza è il frutto della passione “soggettiva” di cui il libro porta l’impronta.
Lei ritiene che ogni libro scritto da un filosofo nasce da un’esperienza personale. Di chi è figlio questo libro?
L’esperienza personale di cui questo libro è figlio riguarda oggetti tematici legati ad una riflessione sul soggetto che mi ha sempre riguardato in quanto io stesso sono un soggetto. Inoltre, e non si tratta di una precisazione secondaria, esso è figlio della consapevolezza riflessa di questa situazione. Non è semplicemente l’esito di un’implicazione del soggetto che io sono nella riflessione tematica sul soggetto ma vi è depositata la consapevolezza di questo fatto. Io, in quanto soggetto, ho avuto piena consapevolezza della complessità riflessiva di ciò che ho fatto e, soprattutto, ho deciso di procedere in questo modo, ho in qualche misura costruito la strada che ho battuto. Husserl stesso ha scritto nella Crisi delle scienze europee che la psicologia fenomenologica è “il campo delle decisioni”.
Da qui discende la volontà che mi ha costantemente guidato di non trasformare questo libro in una specie di indiretto racconto soggettivo. Sono convinto di esserci riuscito, come può esserlo, credo, chiunque lo legga. Posso piuttosto dire che il libro è figlio di una volontà di fare filosofia che resti il più possibile oggettiva anche quando parla di soggettività. Ma qui mi accorgo di riproporre un nuovo paradosso, o forse sempre lo stesso. |