Quest’intervista
è la seconda di una serie destinata a sviluppare la questione
dei rapporti tra filosofia e letteratura. Lei ha affrontato in
diversi saggi l’argomento, con uno spirito che mi è
parso offrire ottimi spunti per esplorare il territorio di una
sorta di fenomenologia del testo narrativo, da pensare in relazione
e in opposizione a una fenomenologia del testo filosofico.
1) Nel suo saggio Comprendere e narrare, Lei si
chiede a quale condizione consideriamo un testo filosofico o narrativo
(1) La questione è impostata in modo che i suoi termini
sono il testo filosofico e il testo narrativo; intesi non tanto
come due generi letterari quanto come “due modi di usare
il linguaggio”; cosicché si tratta di determinare
le condizioni di distinguibilità tra i due modi. Si tratta,
Lei scrive, di condizioni “formali”, o “trascendentali”.
Ora, Lei qui affronta la questione mosso dall’intenzione
di opporsi alla posizione di Rorty, e di quei neopragmatisti che
arrivano a negare del tutto la possibilità di distinguere
i due generi letterari. Lei, al contrario, tende a condurre il
discorso oltre il piano degli usi linguistici in quanto tali per
collegare i due modi alla loro comune radice esistenziale; a partire
dalla differenza reciproca, lei mostra la complementarità
delle due esigenze, in quanto radicate in modo diversissimo in
una comune “volontà di senso”. I due “modi
di usare il linguaggio” si fondano, dunque, sulla duplice
definizione: del filosofico come dire comprendente-spazializzante
e del narrativo come dire raccontante e temporalizzante. Comprendere
e narrare risultano così due modi chiaramente distinti
e distinguibili di rapportarsi all’esperienza, di elaborarne
un sapere; due modi che stanno in un rapporto paradossale: di
complementarità, ma anche di distinzione.
1. Il comprendere mira ad una unità di senso, perciò
la sua condizione di possibilità non può essere
che la verità («una qualche accezione della verità»)
o, come anche si esprime, la coerenza, il principio del “se…allora”.
2. Invece nel narrare ciò che innanzitutto conta non è
la coerenza, quanto piuttosto lo stabilire una successione: la
condizione del narrare è dunque quella dell’istituzione
di un “prima…e poi…”.
Questi due principi, a loro volta, sono compresi come espressione
delle due dimensioni “estetiche” dell’esperienza:
la spazialità, la dimensione propria dell’uso del
linguaggio come comprensione, e la temporalità, propria
del linguaggio come narrazione.
Ora, quel che mi interesserebbe chiarire ulteriormente, sono i
motivi che L’hanno condotta a porre l’accento con
tanta determinazione sulla distinzione e distinguibilità
della spazialità e della temporalità della nostra
coscienza. Al punto da fondare proprio in questa distinzione quella
tra i due modi del linguaggio e dell’esistenza che sono
la comprensione e la narrazione. Mi sono chiesta se questa impostazione
potesse dipendere, nella sua possibilità, dal fatto che
nel definire il filosofico Lei parli di verità e di coerenza
come di due concetti quasi indistinti. Voglio dire: una “coerenza”
intesa in senso stretto, e non in sinonimia con un’idea
più o meno forte di verità, non diventa un’istanza
parimenti anche della narrazione? E in questo caso non sarebbero
piuttosto allora, rispettivamente nel testo filosofico e nel letterario,
la “coerenza come adeguazione” e la “coerenza
come coerenza interna” ad essere in questione?
Lei afferma giustamente che le due dimensioni del linguaggio,
spazialità e temporalità, che io ipotizzo nel mio
saggio, sono soltanto formali e non danno luogo a due classi separate
di testi, i testi filosofico-scientifici e i testi narrativi.
Io quindi non parlerei di separatezza di quelle due dimensioni.
Pur opponendosi, si richiedono a vicenda. Sarebbe come dire che
c’è separatezza tra ordine sintagmatico e ordine
paradigmatico. Forse io non mi sono spiegato sufficientemente,
ma quelle due dimensioni, la spazialità e la temporalità,
sono proprio e soltanto formali e concorrono entrambe alla realizzazione
di qualsiasi testo o atto linguistico.
In particolare, per tornare al nostro argomento, i testi, la stessa
comprensione spazializzante non può prescindere, al suo
interno, da una narrazione temporalizzante, implicita e anche
esplicita. Una comprensione, qualsiasi comprensione, nasce non
come Minerva dalla testa di Giove, ma da una storia intellettuale
e anche letteraria, non foss’altro in funzione della primaria
formazione filosofica di chi si sforza di comprendere, se non
addirittura dall’intera sua storia personale. Ciò
non getta alcun discredito sul comprendere. Non si tratta di una
storia che determina o causa la comprensione, ma di antecedenti
esperienziali di diverse nature entro cui sorge via via una comprensione,
per quanto ci è possibile, spazializzante e temporalizzante
insieme.
La stessa cosa si deve dire di un testo narrativo: non c’è
narrazione che non implichi una comprensione del mondo in cui
viviamo. Se non abbiamo compreso nulla, non possiamo neppure raccontare:
il racconto non nascerebbe neppure o, a una comprensione minima,
si articolerebbe soltanto in forma schematica e, più che
ingenua, rozza. Una storia, per essere avvertita come storia,
deve presupporre e nello stesso tempo contenere una comprensione
o più modi di comprensione raggiunti o ipotizzati o ricostruiti
e in ogni caso anche manifestati nel testo.
Proprio per ciò, quando distinguo testi filosofici e testi
narrativi, non li separo gli uni dagli altri, come lei stessa
riferisce correttamente, ma guardo piuttosto alla modalità
dominante nei vari testi. Voglio dire: io guardo alla modalità
dominante, nel momento in cui lo faccio. Ma altri, e io stesso
in altri momenti, potrebbero avvertire come dominante l’altra
modalità. Ciò non crea confusioni inestricabili
per i testi in cui una dominanza è indiscutibile o quasi,
ma solo un’ambivalenza nei casi che appartengono a una zona
d’intersezione, non mai determinabile con esattezza, tra
i due gruppi di testi.
Per quanto riguarda la caratterizzazione spaziale (che, come è
ovvio, non è immediatamente spazialità percettiva)
come se essa rispondesse a un “se... allora...”, questa
espressione logica, come mi pare di aver detto esplicitamente,
è solo un espediente facilitante, che simboleggia la compresenza
degli elementi che costituiscono una comprensione e che prende
le mosse da un particolare tipo di comprensione o di verità,
e che tuttavia può essere applicato analogicamente anche
ad altri tipi di verità. (Lei certamente ha visto il mio
saggio dedicato alla famiglia dei significati di verità,
in cui elenco alcuni esempi possibili, ma non tutti, dei significati
della parola “verità”). Per esempio si applica
anche alla filosofia, non in stretto senso logico, quando essa
incontra ai confini della riflessione paradossi insuperabili in
cui si accordano concetti opposti: “determinato”-“indeterminato”,
“particolarità-totalità”, “senso-nonsenso”,
e così via. Per esempio: se c’è qualcosa di
determinato nella nostra esperienza, allora deve esserci anche
una sua indeterminatezza, e viceversa. Infatti il pensiero deve
giungere almeno a mettere in chiaro, evitando contraddizioni distruttive
per il pensiero stesso, anche quei termini opposti, che paradossalmente
debbono anche richiedersi l’un l’altro. Quindi, non
credo che si possa dire che “verità” e “coerenza”
siano concetti diversi che vanno definiti ciascuno in modo diverso,
innanzi tutto perché la “verità” non
è affatto definibile univocamente (è una famiglia
di significati, non una classe), in secondo luogo perché
la “coerenza” logica è solo un membro di quella
famiglia.
In sostanza i termini “spazialità” e “temporalità”
debbono essere intesi non solo in riferimento alla spazialità
e temporalità percettiva, ma anche, per estensione, al
linguaggio comprendente-narrante, come, rispettivamente, “simultaneità”
e “successività”. Che poi ci sia anche una
coerenza narrativa, certo, si può dire, basta mettersi
d’accordo sulle parole usate. Ma non si tratta della medesima
coerenza, se non nella misura in cui una narrazione implica una
comprensione, ma piuttosto di un plausibile venir l’uno
dopo l’altro dei successivi, un loro snodarsi l’uno
dall’altro come se essi appunto con-seguissero l’uno
dall’altro (non in senso logico, appunto, neppure largo,
né in senso analogico “filosofico”!).
Tuttavia io non credo che questo tipo di coerenza debba essere
attribuito necessariamente alla narrazione in generale, che prevede
anche, di solito intenzionalmente e anche non intenzionalmente,
salti, incongruità, sovrapposizioni di storie diverse e
non omologabili, contrapposizioni di comprensioni inconciliabili,
e addirittura contraddizioni. Infine la coerenza narrativa è
vicina al verosimile aristotelico. Ma la narrazione moderna, e
non solo moderna, spesso usa la categoria opposta, quella dell’inverosimile.
(E non mi riferisco naturalmente ai romanzi di fantascienza, ma
a scrittori classici, da Dostoevskij a Joyce, da Musil a Kafka,
da Calvino a Bernhard, ma anche Rabelais o Cervantes o Swift o
Diderot o tanti altri).
2) In Comprendere e narrare, arrivati alla risposta secondo
cui la narrazione si fonda innanzitutto nella temporalità,
e la comprensione nella spazialità, pare che non si possa
proseguire l’indagine, essendo tempo e spazio nozioni “liminari
o trascendentali”. Ma poi di fatto lei prosegue un passo
oltre: esiste, si chiede, un qualche modo per saperne di più
della temporalità, che sia legittimo? E la risposta è
positiva: possiamo pur sempre chiederci, lei scrive, se esista
e come e quando si manifesti un’esperienza qualitativa primaria
della temporalità. L’esplicito presupposto di questa
questione nuova è, come lei scrive, che la temporalità
non sia consustanziale alla coscienza, quale che sia la sua forma,
ma che essa si instauri nella coscienza solo ad un certo punto
e in un certo modo, durante la fase di latenza, comportando una
sua trasformazione. Mi interesserebbe chiarire meglio questa Sua
affermazione. Quel che Lei suggerisce è di pensare una
coscienza ancora senza temporalità, ma già “spazializzante”?
Una coscienza incentrata sull’astratto principio di comprensione
come coesistenza strutturata e priva di memoria? Mi è parso
che una tale concezione emerga per esempio dalla sua descrizione
della condizione del bambino fino a 4-6 anni come una condizione
edenica, onnipotente, immortale, assolutamente spaziale-spazializzante.
«L’esperienza prende forma in una mappa priva di tempo»,
si legge; mentre non è ancora possibile comprendere nemmeno
che una storia sia propriamente una storia. Influenzata dalla
mia esperienza personale, leggendo il Suo saggio ho pensato per
esempio che invece io ho ricordi abbastanza precisi già
dei miei due anni e mezzo, organizzati in quelle che mi sembra
di poter chiamare sequenze temporali vere e proprie.
In questo modo Lei intende forse suggerire un rapporto forte tra
sviluppo della capacità linguistica e della temporalità
da un lato e sviluppo della capacità percettiva, pre-linguistica,
e di una capacità logica, sincronica, di comprensione dall’altro?
(2)
Le sembra imperseguibile e sorprendente che io voglia sapere
qualcosa di più della temporalità, dato che il tempo
stesso sarebbe un trascendentale non ulteriormente esplicitabile.
Non voglio affatto saperne di più, dato che non è
possibile. Ma anche il trascendentale è una presupposizione
necessitante e, come tale, dobbiamo forse riuscire a capire come
funziona e si attiva nella nostra coscienza. Questo è il
problema che mi sono posto e sul quale ho formulato un’ipotesi,
sulla base di un fatto che, mi pare, non può essere facilmente
revocato in dubbio. Vale a dire: la connessione tra il venire
a sapere della propria nascita, di cui in prima persona non sappiamo
nulla, solo per testimonianze esterne, e l’insorgere di
una coscienza della temporalità.
In un mio ultimo libretto, di prossima pubblicazione, dico che
spazio e tempo sono indisgiungibili nella stessa percezione spaziale.
Ora vedo più chiaramente e in modo più preciso il
perché. Ma anche nel saggio cui lei si riferisce la questione
non sta tanto nel tempo agito, o che ci agisce, quanto appunto
nella coscienza della temporalità. Forse io ho usato qualche
espressione equivoca. Tuttavia, non metto in dubbio che anche
il bambino si muove in uno spazio secondo una scansione di momenti
del tempo. Del resto, lo fa anche un gattino, come scrivo non
senza un tono scherzoso. Ma una coscienza della temporalità,
cioè la finitezza, il non-essere già da sempre,
l’avere coscienza dell’esperienza del mondo anche
nella sua storicità, non sembra ancora imporsi nell’età
in cui ci sforziamo di dominare l’ambiente circostante spazialmente
mediante un’intelligenza senso-motoria. Infatti non si pone
neppure un problema dell’essere o non-essere già
da sempre, ma, per così dire, si è già da
sempre nel momento in cui semplicemente si è. Il che genera
ciò che tecnicamente si chiama “onnipotenza”.
Si tratta, naturalmente, di un’onnipotenza fragile, ma gli
opposti si accordano anche, e forse soprattutto, nella coscienza
della prima infanzia. Non so se la mia ipotesi sia in tutto e
per tutto accettabile. Per la verità ciò che dico
non solo è frutto di mie osservazioni non sistematiche,
ma mi è stato anche confermato da seri specialisti di psicoanalisi
infantile, che non ho citato solo per non coinvolgerli. (Non a
caso un trattamento psicoanalitico per i bambini consiste soprattutto
nel manipolare oggetti, nel comporli, scomporli, giocarci insomma,
e non in una relazione propriamente linguistica).
In particolare, può darsi che lei abbia ricordi di quando
aveva due anni e mezzo di “sequenze temporali vere e proprie”
. Ma questa non solo non è un’obiezione che mi riguarda,
dal momento che io non ho detto che nello spazio in cui il bambino
si forma non ci siano scansioni di momenti del tempo, ma anche
che è un’obiezione raramente da prendere per oro
colato. I nostri ricordi, suoi e nostri, che risalgono a quell’età
sono sempre assai dubbi. Può darsi che noi ricordiamo correttamente.
Ma penso anche che lei, come tutti, abbia ricordi dell’infanzia
che il tempo trascorso, le tante informazioni dirette o indirette
avute successivamente dall’ambiente familiare e in ogni
caso la loro ulteriore elaborazione possono aver trasformato in
modo da farci ricordare oggi le poche immagini più o meno
statiche di ieri in una sequenza chiarissima, esattamente come
accade nel riferimento di sogni durante la veglia.
3) Vediamo dunque, dall’indagine sull’esperienza
originaria della temporalità come successione, cosa derivi
in merito alla questione della narrazione. Alla domanda su quale
sia questa esperienza-chiave della temporalità, e dunque
della finitezza, Lei risponde: non si tratta di una qualche esperienza
della mortalità; piuttosto, «prima della morte, cronologicamente
dunque, il bambino deve incontrare il mistero della propria nascita».
La nascita, lei dice, «è il mistero attraverso il
quale nel bambino matura la coscienza della propria finitezza
nel senso del non essere già da sempre». Attraverso
questa esperienza matura l’io nella sua “originalità”
e “irriducibilità”, come un essere contingente
rispetto a un’origine che affonda in un abisso insondabile.
Mi sembra di capire che, questa della propria nascita, sia un’esperienza
che riguarda tutti, e che dunque non sia destinata a trasformarsi
necessariamente in un essere-per-l’origine filosoficamente
deciso, paragonabile e speculare rispetto all’essere-per-la-morte
heideggeriano.
Comunque sia, mi interesserebbe comprendere meglio perché
lei assegni tale privilegio all’esperienza dell’origine:
sia nel primo insorgere di una consapevolezza della finitezza,
sia nell’elaborazione eventualmente decisa di un pensiero
legato alla finitezza, non è possibile che l’esperienza
della propria nascita e quella della propria morte possano svolgere
di diritto lo stesso ruolo, in quanto si richiamano vicendevolmente
come i due estremi che testimoniano della finitezza dell’uomo?
E non è possibile che dunque, di fatto, sia magari aleatorio
quale delle due consapevolezze preceda l’altra?
Forse siamo più d’accordo di quanto non facciano
pensare le sue osservazioni e le mie risposte. Lei pensa che spazialità
e temporalità agiscano da subito nella coscienza, fin dalla
primissima infanzia, e che via via maturino in una coscienza linguistica
e riflessa più complessa. Per un certo verso ha ragione,
come ho già detto, dato che una pura spazialità
non è neppure concepibile. E’ precisamente ciò
che dico anche nel mio saggio. Ma, per altro verso, non capisco
perché lei si rifiuti di avvertire e riconoscere l’insorgere
forte della temporalità via via che nasce la coscienza
dell’essere nati e si forma l’idea che la realtà
vissuta è per noi anche storica. Il nascere della coscienza
dell’essere nati è un fatto “straordinario”,
alla lettera, per ognuno di noi. Un fatto che conferma nello stesso
tempo la predominanza della spazialità prima che esso accada.
La sottovalutazione di questo fatto fondamentale mi lascia perplesso
e mi riesce difficile capire come si possa non valutarlo nel suo
carattere decisivo, anche nel senso dell’essere-per-la-morte.
Lei vorrebbe riunire in un’unica coscienza della finitezza
e l’essere nati e il dover morire, e ciò fin dalla
prima infanzia. Io credo che sia una violazione immotivata, sulla
base della coscienza adulta, dell’effettivo svolgersi della
formazione di una coscienza del mondo nell’infanzia. Certo,
per un adulto, il problema della morte è generalmente più
incalzante e invasivo di quello della nascita. Eppure resta il
fatto che la coscienza dell’essere nati precede la coscienza
del dover morire, e in certi casi ci sembra forse più sorprendente
che noi, proprio noi, siamo nati una volta. Almeno per me accade
qualcosa del genere. Non mi è chiara, poi, l’osservazione
che, dato che la scoperta di essere nati e l’abisso che
così si spalanca alle nostre spalle “è di
tutti”, essa non sarebbe destinata a trasformarsi in un
essere-per-l’origine “filosoficamente deciso, paragonabile
e speculare all’essere-per-la-morte heideggeriano”.
Forse la filosofia non avrebbe il compito di comprendere proprio
ciò che è di tutti? Se non fosse così, che
senso avrebbe l’essere-per-la-morte heideggeriano? Sarebbe
solo una concettualizzazione svolta separatamente dall’esperienza
nel felice recinto della filosofia? E che ne sarebbe allora della
filosofia? Sarebbe solo uno sport specialistico per pochi eletti?
4) La questione è di particolare interesse anche perché
lei sostiene, sulla base di questo presupposto, che tutti i racconti,
tutte le narrazioni, non fanno che tematizzare implicitamente
il mistero dell’origine. Appoggiandosi alle conclusioni
di Kerenyi, lei sostiene che nel mito questa tematizzazione sarebbe
esplicita. Nel mito, infatti, (per esempio nelle teogonie greche
o nel Genesi) il tema della morte è secondario rispetto
a quello della nascita. La mitologia risponde in primo luogo non
al “Perché?” ma a “Da dove? Da quale
origine?”, è mito iniziale, non finale; a livello
implicito ogni narrazione non sarebbe che una ripetizione del
tema dell’origine.
Ora: un testo narrativo, si muove di volta in volta nelle molteplici
sterminate scelte che implica una singola storia da raccontare,
limitate da un inizio e da una fine che è anche il fine
a cui ogni parola tende; se la narrazione ha per tema implicito
il mistero, questo non è dunque il mistero della finitezza
in entrambe le sue “facce”?
Mi spiego meglio: mi piace pensare alla narrazione come ad un
modo esemplare di accettare entrambi i momenti, l’inizio
e la fine in quanto non assolutamente motivabili, e di farli “cortocircuitare”,
di dimostrare che comunicano internamente come le due facce della
finitezza; un modo di lavorare, sporcandosi le mani, con questi
due momenti, praticando una accettazione attiva, positiva, un
dire sì nei confronti del mistero, in quanto è ciò
che circonda l’opera così come è ciò
che circonda noi, relativamente a entrambi gli estremi (dell’opera
come della vita)…
La risposta sta tutta nella frase “tematizzare implicitamente”.
L’espressione, lo riconosco, può essere infelice
e trarre in inganno, ma quell’“implicitamente”
dovrebbe fugare ogni sospetto. Non ho voluto dire che tutte le
narrazioni puntino sul mistero dell’origine. Io porto soltanto
esempi in cui ciò accade, senza pretendere di riferirli
all’intera letteratura narrativa. Nella narrativa, senza
dubbio, i temi sono i più svariati, in funzione, come lei
dice, delle «molteplici sterminate scelte che implica una
singola storia da raccontare». Io dico soltanto che il racconto
rievoca quel mistero dell’origine in continuazione, in forme
anche occulte, per il fatto stesso che si decide di cominciare
a narrare una storia e in un certo senso si rinasce con quella
decisione. Naturalmente, nello stesso tempo, esso si riferisce
anche all’essere-per-la-morte, e quindi alla vita stessa.
Si può essere d’accordo o no sulla mia interpretazione,
che è senza dubbio alquanto “speculativa”,
nel senso di “non verificabile”, ma non si può
opporre ad essa il fatto che, nell’ambito delle infinite
scelte che offre la vita nella sua finitezza stretta da nascita
e morte, ci sono tante storie diverse e diversamente motivate,
che tematizzano esplicitamente infiniti altri argomenti. Questo
è semplicemente ovvio.
5) Nelle sue interessanti considerazioni sulla favola, è
spesso oggetto di critica l’interpretazione strutturalista
di Propp e, specialmente, la sua radicalizzazione in Lévi-Strauss;
Lei mette in evidenza, per esempio, quanto sia inadeguato, se
la natura della narrazione è la successione, considerare
il ritorno dell’eroe come il semplice inverso della partenza.
Dall’altro lato, però, Lei ha anche sostenuto che
la fiaba è un esempio di non-racconto; essa inizia con
quel “C’era una volta” che, Lei dice, significa
propriamente “c’era e non c’era” (come
in effetti recitano i narratori maiorchini). E quell’indeterminatezza
temporale non avrebbe un valore negativo solo nei confronti della
verosimiglianza (come sembrerebbe a me), ossia con quella coerenza
come verità-adeguazione, ma avrebbe un valore negativo
anche nei confronti della coerenza interna, e del suo carattere
di coerente successione temporale: la favola e il mito, Lei dice,
«sono più simili a un congegno strutturale che a
una vera e propria storia, ricca della contingenza che costituisce
ciò che di più caratteristico ha una storia: sono
sistemi più che processi». Insomma, in base a quelle
che potrebbero sembrare caratterizzazioni discordanti, mi piacerebbe
chiarire ulteriormente la sua concezione della favola: per Lei
si tratta o meno di una narrazione?
Alla sua domanda-obiezione si può rispondere rapidamente.
Ne ho trattato solo di sfuggita, ma non mi pare proprio di averne
dato caratterizzazioni discordanti. Anche questo argomento deve
essere considerato da un doppio punto di vista, temporalizzante
e spazializzante. Infatti le mie critiche agli strutturalisti,
più che a Propp, vertono sul fatto che essi considerano
le fiabe come solo strutturali, fornite cioè di una struttura
addirittura calcolabile, annullando completamente il versante
temporale. Io sostengo invece che la fiaba è un particolare
testo orale, in cui spazialità e temporalità svolgono
un ruolo alternante o, in certi casi, paritetico. Così
che, se non è possibile ridurre la fiaba, e tanto più
qualsiasi altro racconto in modo ancora più forte, a pura
struttura, non è possibile neanche ridurla a pura narrazione.
Questo, dal punto di vista dello studio della fiaba. E dico inoltre
che per un verso le fiabe si apparentano ai miti, in cui l’ambivalenza
spazialità-temporalità privilegia nella forma la
prima, pur essendo essi sorti su una coscienza mitologica della
temporalità. La ripetizione che è propria dell’uso
del mito e della fiaba, e che i bambini addirittura pretendono
dai raccontatori adulti di quest’ultima, è una conferma
che la comprensione spazializzante è in molti casi prevalente,
tale da assomigliare a un’ispezione di uno spazio di oggetti-eventi
per ricollocarli continuamente al loro posto e acquetare l’ascoltatore.
Ma, naturalmente, fiaba e mito possono essere riletti dagli adulti
in modo opposto, privilegiando la successione e non la coesistenza.
Credo, in particolare, che le riduzioni delle fiabe in cartoni
animati facciano precisamente questo.
6) In Un esempio di interpretazione testuale: “Korrektur”
di Thomas Bernhard, Lei si interroga sulla distinzione tra testo
filosofico e letterario (e scientifico) a partire dalla prospettiva
dell’interprete, del lettore in quanto interprete: la domanda
guida del saggio è infatti cosa significhi interpretare
un testo. E tale domanda subito si articola internamente: le condizioni
di interpretabilità di un testo variano a seconda del genere
letterario. Lei sostiene così che i testi “scientifici”
per essere interpretati dipendono da una condizione di verità
intesa come adeguazione all”’extratestuale”.
Che i testi “filosofici” non sono sottoposti rigidamente
a quella condizione, ma certamente a una “condizione di
con divisibilità”, ossia hanno il carattere strutturale
del poter essere discussi. Invece, il testo letterario richiede
solo una “condizione di partecipabilità”, una
“partecipazione intellettuale-emotiva”.
Il lettore, nel testo narrativo non cerca una verità obiettiva,
e nemmeno una condivisione, ma una partecipazione identificante.
Ciò dipende dal fatto - lei dice - che in linea di principio
sempre vi si narra di noi, di una storia che potrebbe essere la
nostra. Nella necessità dell’identificazione si rivela
così la nostra inseparabilità dagli altri, poiché
l’alone di indeterminatezza che costitutivamente ci circonda
«è il luogo del possibile e comune a tutti, dove
ogni storia si unisce nell’idea o nella coscienza puramente
emotiva di una storia in genere». L’esigenza che ci
spinge, sul fondamento di questa possibilità, a interessarci
di volta in volta a un testo narrativo, non potrebbe essere considerata,
invece, quella di incontrare un’altra determinatezza in
quanto tale?
Non si tratta forse, per la narrativa, di “regole del gioco”
diverse e complementari rispetto a quelle filosofiche? Nessun
filosofo, immagino, accetterebbe di concepire un mondo senza narrativa.
Almeno tanto quanto non accetterebbe di essere ridotto a narratore,
come sembrerebbe voler fare Rorty. Questo perché filosofia
e narrativa sembrano scaturire da istanze diverse. Se l’elemento
comune alle due è la sfida alla finitezza, il fatto di
doverne avere un’esperienza, l’elemento di distanza,
mi sembra, è il modo in cui questa finitezza è avvertita,
innanzitutto emotivamente: per il filosofo, nella gran parte della
tradizione occidentale, si è trattato finora di un “nemico
da combattere”, nella misura in cui la si è voluta
cogliere frontalmente e non piuttosto guardare-attraverso, per
usare una Sua felice espressione. Per il narratore si tratta invece
di piegarsi tanto continuamente quanto volontariamente alla finitezza.
Ma il narratore può legittimamente mettere la parola fine
alla sua singola opera d’arte, mentre il filosofo non può
fare nulla di simile alla conclusione del suo testo. E paradossalmente,
ciò è collegato proprio alla pretesa di unicità
del lavoro filosofico e alla pretesa di ulteriorità, in
sé e negli altri, del lavoro letterario…
A proposito dell’interpretazione del testo e delle ragioni
che ci spingono a leggerlo e interpretarlo, ho cercato di dire
tutto ciò che si poteva dire nel saggio al quale lei si
riferisce. Non credo che sia lecito dire di più. Il di
più fa parte delle infinite ragioni personali e circostanziali
che si associano, connotandola fortemente, alla ragione principale:
ritrovare in una storia la nostra storia o la possibile storia
che non ci appartiene e che in tal modo diventa anche nostra,
noi stessi in altri, e gli altri in noi, infine: il mondo stesso,
in cui viviamo o potremmo vivere, e nella sua determinatezza e
nell’indeterminatezza di fondo che vi si associa. Qual è,
lei domanda, la «profonda esigenza che c’è
dietro a questa condizione di partecipabilità»? Che
dire? Non credo che sia, come lei dice, l’esigenza «di
incontrare un’altra determinatezza in quanto tale».
Una determinatezza in quanto tale ci lascerebbe del tutto indifferenti:
sarebbe un ente, una cosa. E’ un’esigenza più
radicale che include anche l’indeterminatezza di ciò
che è determinato. Essa ci appartiene in quanto specie
umana, tale che l’individuo non sopravvive se non socialmente
e non può comprendere il mondo che lo avvolge se non attraverso
una percezione interpretante, che coglie il determinato in un
alone di indeterminatezze, e un’intelligenza linguistica
che è già di per sé, per definizione, sociale
e aperta anch’essa all’indeterminatezza semantica,
che permette appunto le tante determinazioni possibili. Entro
questo quadro vive una storia che dipende anche dalla storia degli
altri. Un individuo, infine, può riconoscersi tale solo
in quanto sociale, volto al controllo dell’ambiente circostante,
alla conoscenza e alla comprensione, nonché alla coscienza
della propria intrinseca storicità determinata-indeterminata.
Quanto all’immagine che lei propone del filosofo e del narratore,
in cui il primo combatterebbe la finitezza come un nemico e il
secondo vi si piegherebbe volontariamente, non si tratta di un’immagine
che abbia significato. Nel caso del filosofo (lei sa bene come
la penso su questo punto), non è affatto vero che egli
abbia la finitezza di fronte a sé, dato che la stessa finitezza
è un’unità di determinato e indeterminato
avvolgente, non una “cosa”. L’espressione “guardare
attraverso” e ciò che essa comporta, intende prendere
atto innanzi tutto di questa situazione imbarazzante del cosiddetto
filosofo, e per questo il suo sforzo di comprensione, che esige
internamente di essere ultimativo, è invece sempre costretto
a ritornare su se stesso per comprendere di nuovo. Ma anche il
narratore, badi, si trova in una condizione simile: la parola
“fine”, posta al termine di un romanzo, così
come il suo stesso inizio, non sono affatto un inizio e una fine
in tutti i sensi. L’inizio potrebbe essere diverso e la
fine potrebbe essere prolungata a piacere, se una storia raccontata
è il proseguimento letterario della nostra storia, della
storia del gruppo a cui apparteniamo, di una storia che intravediamo
in un altrove storico o in un altrove solo possibile. Del resto,
in quanto anche comprensione, una storia non può avere
inizio e fine tassativi. Inizio e fine sono però espedienti
utili praticati, accettati e spesso utilizzati sapientemente,
per tentare di raccogliere una storia in un tutto unico: compito
impossibile e tuttavia capace di illuderci che quel tutto unico
è riuscito.
7) Torniamo alla domanda sul significato dell’interpretare
un testo narrativo. Secondo lei, in ogni testo si dà un
“principio regolativo” tale che, se non garantisce
mai la giusta e definitiva interpretazione, tuttavia la impone
in linea di principio, salvandola dal rischio di esser presa per
soggettiva, momentanea, contingente. Ma questo principio regolativo,
lei dice, è di volta in volta interno al testo; dunque
il testo dev’essere: «il riferimento primario dell’atto
interpretativo testuale», nel senso che un’interpretazione
non deve essere costruita a priori e applicata al testo ma deve
rivelarsi attraverso il testo stesso. I principi regolativi dell’interpretazione
immanenti al testo narrativo, se ho ben capito, non sono che “temi”.
Cos’è un tema? Come individuarlo? In base, lei scrive,
alla sua “centralità” e alla sua ricorrenza.
“Centrale” è quel tema che tende sul piano
interpretativo (e non necessariamente già su quello narrativo)
a porsi al centro di una costellazione di temi e a fornire loro
una chiave interpretativa. “Ricorrente” è quel
tema che, non solo per ripetizione materiale, riesce a far risaltare,
nell’interpretazione, “una ossessione letteraria”.
Mi piacerebbe che lei si soffermasse ancora sulla sua definizione
del tema come “ossessione letteraria”. Non pensa che
un tema letterario possa essere compreso proprio come la legittimazione
di un’ossessione?(3)
Vorrei, in conclusione, tornare al suo saggio su Bernhard. Coerentemente
con quanto sostiene, Lei decide di offrire qui ciò che
solo è lecito offrire: vale a dire, un singolo esempio
di interpretazione testuale, “non esemplare”. Ma,
al contrario, leggendo il testo, la scelta di “Correzione”
di Bernhard e del tema di Altensam, sembrano rispondere ad un
criterio di esemplarità. Si tratta infatti del tema del
“luogo d’origine”, di cui abbiamo a lungo parlato:
«Altensam non è tanto un luogo dell’Austria
quanto quella contingenza che ci è toccata in sorte, che
può soffocarci e annientare ogni nostro talento come pure
è la sorgente di ogni nostro talento e possibilità».
Una piccola provocazione: lei si ricollega così alla sua
posizione secondo cui ogni narrazione ha come tema implicito il
mistero dell’origine; ma attraverso la scelta proprio di
questo autore, di quest’opera e di questo tema, che esplicitamente
è quello dell’origine, non fa quello che criticava,
ossia non sta applicando una teoria interpretativa a priori ad
un testo?
La sua insistenza sul tema del narrare quale “ossessione”,
un’ossessione costante o variabile di racconto in racconto,
l’esperienza (singolare o no che sia) di un mondo e l’incontro
con gli altri che ne consegue (dal nostro punto di vista, ma in
qualche modo anche da quello degli altri) viene incontro sostanzialmente
alle mie idee dichiarate e non dichiarate e mi trova quindi sostanzialmente
d’accordo, anche se lei esprime la cosa in modo, come dire?,
molto più appassionato di me, perfino troppo. (Io penso,
voglio dire, che anche la letteratura narrativa, oltre alla passione,
richieda riflessione e presa di distanze dalla stessa ossessione
coltivata costantemente, perché questa risulti davvero
appassionante e, come dire?, profondamente contagiosa). Anche
per la filosofia, perché no?, si può dire qualcosa
di simile, come lei suggerisce interrogativamente, ma con ancora
maggiori cautele che nella narrativa. L’ossessione si manifesta
qui, infatti, con il pensare e ripensare i problemi, in un certo
senso l’unico problema possibile, che è appunto la
comprensione del nostro essere nel mondo come esseri finiti che
possono e non possono nello stesso tempo cogliere il mondo nella
sua totalità. L’ossessione deve essere costantemente
filtrata attraverso un atteggiamento critico “rigoroso”
(parola che sul momento non so come sostituire, sebbene essa indichi
un rigore non logico), mentre concessioni troppo forti all’irruenza
delle ossessioni potrebbero portare diritto a concezioni o visioni
del mondo di tipo religioso-metafisico.
Sulla faccenda della esemplarità o non-esemplarità
della mia interpretazione di Bernhard bisogna mettersi d’accordo
sul punto principale. Questo: che qualsiasi interprete che abbia
lavorato seriamente su un testo non può non ritenere esemplare,
da una parte, il risultato che ne ha tratto e, dall’altra,
non-esemplare, nel senso che deve essere cosciente della singolarità
e della non dimostrabilità, in senso stretto, della sua
interpretazione. O almeno di questo: che l’esemplarità
di un’interpretazione vale per l’interprete finché
non venga smentita da un’interpretazione anche solo in parte
diversa che venga ritenuta da lui più aderente al testo
e più esplicativa. Ora che lei dica che la mia interpretazione
sarebbe invece proprio e in tutti i sensi esemplare perché
risulterebbe da una teoria interpretativa a priori, mi lascia
interdetto. Io ho fornito solo un’ipotesi, plausibile o
no, dell’idea di letteratura narrativa in generale, delle
ragioni della sua genesi in quanto letteratura in generale, senza
alcun riferimento a testi particolari, che so benissimo, ovviamente,
che non la confermerebbero puntualmente. Io avrò pure scelto
un testo che mi stava particolarmente a cuore e che rispondeva
a mie esigenze diverse, come del resto fanno tutti, ma la questione
è di vedere se la mia interpretazione funziona oppure no.
Ebbene, a me pare che, corretta o no, la mia interpretazione segua
precisamente il testo, quale principio regolativo, alle condizioni
che ho precisato nel mio saggio, e si sforzi di restituirne il
senso di fondo. E’ legittima quindi una sola operazione:
interpretare diversamente quel testo e stare a vedere quale interpretazione
risulti più convincente.
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1) “Comprendere
e narrare”, in E. Garroni, L’arte e l’altro
dall’arte. Saggi di estetica e di critica, Laterza 2003.
2) In Senso
e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale [Laterza
19952], a questo proposito, si legge: «Come c’è
una analogia tra la processualità del conoscere e la percezione
delle cose nel tempo, così è dato di scorgere una
parallela analogia tra il loro organizzarsi conoscitivo più
o meno sistematico, e in ogni caso in praesentia, e la percezione
delle cose nello spazio, dove esse stanno per così dire
“tutte insieme”. Non è insomma stravagante
pensare che l’esperienza sensibile spaziale possa essere
considerata come un caso osservabile o quasi-osservabile, e insieme
una sorta di “precursore” del sapere e del conoscere,
in quanto sistematici».
3) Mi spiego:
dicevamo, prima, di come l’esperienza della scrittura e
della lettura di un testo narrativo sia un’esperienza implicita
della finitezza in quanto mistero della nascita, e della morte,
della fatica della nascita e della disperazione della morte. L’esperienza
della scrittura, e della lettura, è una di quelle esperienze
del mistero della finitezza non negative, non ascetiche, non mistiche,
ma proprie della vita attiva e inserite nel mondo degli altri,
e da questo mondo esplicitamente riconosciute, e per le quali
viene tutelato uno spazio sociale legittimo. La vertigine di dover
iniziare, trovare un filo e lasciarne degli altri, concludere:
questo è il cuore di finitezza dell’esistenza con
cui “in scala”, e però esemplarmente, mi sembra,
si confronta la scrittura narrativa.
Si possono vivere tante vite letterarie, lasciarsi ossessionare
da tanti temi, o da uno solo, per un paio d’ore o per un’intera
vita, ma la condizione è l’intensità dell’ossessione
nel momento di viverla, il gioco è che la si prenda sul
serio. |