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Il sacro e il profano (da «Lettera internazionale» n. 93 – III Trimestre 2007)
di Roger Caillois

 

Si sa che l’ascetismo è la via che porta alla potenza. Un individuo resta volontariamente al di qua delle sue possibilità giuridiche o materiali, si astiene dalle azioni che pure le leggi o le sue forze gli permetterebbero e conserva così un certo margine, sempre in crescita, tra ciò che potrebbe fare di diritto e di fatto e ciò di cui si accontenta: ed ecco che ogni privazione, ogni rinuncia si ritrova, nel mondo mitico, a suo credito, assicurandogli un margine corrispondente di possibilità soprannaturali. Si guadagna così, nell’impossibile e nel proibito, un al di là riservato a lui soltanto che corrisponde esattamente all’al di qua del possibile e del consentito che aveva abbandonato. Tuttavia, tale scambio costituisce in fondo un investimento, perché ciò che egli disprezza nel profano, lo recupera nel sacro. L’asceta che accresce i suoi poteri via via che i suoi godimenti terreni diminuiscono si allontana dagli uomini e si approssima agli dèi e ne diventa presto rivale. Gli dèi devono rapidamente indurlo in ogni sorta di tentazione per spossessarlo di una potenza in grado di oscurare la loro. Questo tema figura abbondantemente nelle mitologie. Al contrario, numerosi fatti conferiscono all’eccesso una virtù altrettanto grande che alla restrizione. Si sa da molto tempo a qual punto la licenza sia inseparabile dalla festa. Probabilmente, questa ha inizio con la raccolta e il rafforzamento delle proibizioni. Il digiuno, il silenzio sono auspicati. Ma sembra che questa tensione esista solo per dare alla distensione, che immediatamente segue, una forza ancor più esplosiva. Anche al giorno d’oggi, quando, ormai
impoverite, le feste risaltano così poco sullo sfondo grigio che costituisce la monotonia della vita quotidiana e vi appaiono disperse, sgretolate, quasi insabbiate, ancora vi si distingue qualche traccia dello scatenamento collettivo che fu la grande ragion d’essere delle originarie feste popolari. Infatti, i mascheramenti e le audacie ancora permesse a carnevale, le libagioni e i balli del 14 luglio, perfino l’abbuffata che conclude i congressi di Norimberga testimoniano di questa medesima necessità sociale e la proseguono. Non c’è festa, anche se triste per definizione, che non comporti almeno un accenno di eccesso e di baldoria: basterebbe ricordare i banchetti funebri in campagna. Allora e oggi, la festa si caratterizza sempre per la danza, il canto, la frenesia, l’ingestione di cibo, le bevute. Nelle cosiddette civiltà primitive, il fenomeno è sensibilmente più marcato rispetto alle nostre feste. La festa durava diverse settimane, diversi mesi, interrotti da periodi di riposo di quattro o cinque giorni. Occorrevano spesso diversi anni per raccogliere la quantità di viveri e di ricchezze, che sarebbero stati non soltanto consumati e dispensati con ostentazione, ma anche distrutti o puramente e semplicemente sperperati, in quanto lo sperpero e la distruzione, forme dell’eccesso, rientravano...

 

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PUBBLICATO IL : 18-05-2009


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