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Ontologia della comunità: Nancy & Agamben Parte prima Nancy
di Tommaso Tuppini

 

Il proposito di Nancy è il seguente: prendere atto della difficoltà di definire univocamente una nozione di “comunità” (o di “bene comune”) intorno a cui produrre un’aggregazione delle disjecta membra del sociale e, quindi, farla finita con una rappresentazione della comunità che la configura come un’essenza pre-data da realizzare. La presa d’atto di cui si sta dicendo fa tutt’uno con il proposito di scardinare la comprensione essenzialistica della comunità. Infatti, pre-disporre un’essenza da realizzare è il modo in cui, secondo Nancy, l’Occidente ha pensato fino a oggi le condizioni di possibilità di una comunità: la comprensione essenzialistica della comunità coincide con il tentativo di dare una definizione qualsiasi di comunità. Si tratta di cambiare marcia, di rinunciare al tentativo di dare una definizione essenzialistica della comunità. Perché questo cambiamento accada proprio oggi o, comunque, debba accadere a breve rimane nella maggior parte scritti di Nancy abbastanza misterioso. Non viene mai argomentato a partire da quando o in ragione di che cosa alla nozione di comunità come essenza da realizzare si possa cominciare a sostituire una comprensione difforme o perché, ad esempio, un originale lavoro di pensiero che contesti le tradizionali opzioni della politica comunitaria ed essenzialistica (come quello dello stesso Nancy) diventi possibile solo oggi. Da un certo punto di vista l’unica giustificazione che Nancy potrebbe addurre è la stessa, abbastanza tautologica, che veniva data dal suo maestro Derrida, quando gli si chiedeva: ma alla fine, perché praticare la decostruzione, piuttosto che continuare a fare i metafisici a tutto spiano? Al che Derrida, mi sembra, rispondeva più o meno: perché la decostruzione è quello che sta accadendo, perché la decostruzione è l’evento, o comunque una propaggine dell’evento, una conseguenza di ciò che “ha corso” pur essendo intimamente “inattuale”. Un po’ lo stesso di quello che Nancy dice all’inizio di quel saggio, così importante per la comprensione del suo pensiero, L’essere abbandonato, che è del 1981, circa l’irredimibile pluralità dei sensi dell’essere: è inutile (come si ostinava a fare Heidegger) mettersi in traccia di un senso univoco dell’essere. L’essere è abbandonato alla molteplicità dei suoi significati, che non si possono (o non si devono) raccogliere in unità, e tanto basti. Perché e percome sia preferibile prendere atto della plurivocità dei sensi dell’essere, piuttosto che incaponirsi nella ricerca di un senso univoco, di un senso überhaupt, di un senso assoluto dell’essere, non è dato sapere... [continua]

 

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PUBBLICATO IL : 25-10-2009


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