‹‹Quello che ci costringe a riflettere di un uso diverso del linguaggio che ci è familiare, è l’esperienza di un ‘urto’ che si verifica di fronte a un testo — sia che il testo non esibisca alcun senso, sia che il suo senso contrasti irriducibilmente con le nostre aspettative ›› (Gadamer 2000, 315).
Da questa breve asserzione estratta dal capitolo Elementi di una teoria dell’esperienza ermeneutica si può proporre una delle possibili interpretazioni del racconto di Tommaso Landolfi a partire dal riconoscimento dell’instaurarsi di un momento di contatto tra alcuni elementi della teoria ermeneutica gadameriana e il testo dell’autore.
L’esperienza di lettura come l’esperienza di un urto. Questo è forse uno dei plausibili sviluppi che emergono alla lettura del racconto La moglie di Gogol’, che ha in sé la straordinaria capacità di abbattere i vincoli metodici di una costruzione narrativa lineare aprendo ai possibili sviluppi di un lavoro interpretativo.
Potremmo affermare che questa è l’intenzione di cui l’autore ci vuole rendere partecipi attraverso il testo: per poter dire di aver fatto esperienza dobbiamo essere sempre pronti a saper guardare al di là dei nostri orizzonti e delle nostre aspettative, infine a saperci mettere in discussione.
Proponendosi questo scopo Landolfi è in grado non solo di riportare continuamente il lettore in uno stato di sospensione, ma anche di porre in questione la sua stessa figura di autore, la sua auctoritas. Giocando d’astuzia, Tommaso Landolfi tesse un sofisticato intreccio tra la sua vita e la traduzione dell’autore russo Gogol’, evidente nella originale genealogia per cui il nome paterno, Pasquale, e il suo, Tommaso, vengono slavizzati in Foma Paskalovic. Questa è una precisa scelta letteraria che istituisce da subito quell’elemento di ambiguità sul quale si costruirà l’intero racconto.
Il lavoro di un lettore che si assuma la responsabilità di partire da un lavoro cooperativo dai tratti ermeneutici non cercherà di scacciare queste ambiguità, queste resistenze proprie del testo, ma si metterà in loro ascolto, poiché, come afferma Gadamer sulla scorta di Heidegger, il compito primo, permanente e ultimo di ogni interpretazione ‹‹è quello di non lasciarsi mai imporre pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse, garantendosi la scientificità del proprio tema›› (Gadamer 2000, 313).
E’ in questa prospettiva che il testo landolfiano assume per noi l’esperienza di un urto, in cui descrizioni, situazioni, comportamenti dei personaggi lasciano il lettore in una dimensione aperta in cui, come ci dice lo stesso biografo all’inizio del racconto, non si tratterà di stare a guardare ma di avanzare le più ‹‹malevole e balorde interpretazioni›› (Landolfi 1954, 19).
Arrivati a questo punto ci si chiederà se e quali siano ulteriori punti di contatto con il modello gadameriano di interpretazione testuale e se indirettamente, tra le righe, non abbiamo già detto qualcosa di pertinente rispetto ad una applicazione di Gadamer alla lettura del testo.
I punti che mi propongo di portare avanti in un modello interattivo tra testo landolfiano e interpretazione gadameriana sono i seguenti:
1) La continua alternanza di familiarità ed estraneità.
2) Il superamento di una comprensione unilateralmente soggettivistica del testo.
3) L’apertura alla dimensione dialogica nella sua forma meno pacifica.
1) Tommaso Landolfi gioca continuamente con le aspettative del lettore, con le sue Gestalten prefigurate, i suoi schemi irriflessi, i suoi pregiudizi, istituendo una strategia letteraria tanto sottile quanto perversa: ogni configurazione testuale, che solo in un primo momento ci appare coerente e familiare, è immediatamente capovolta fino a diventare estranea.
Tuttavia il lavoro cooperativo tra testo e lettore non si arresta alla sola messa in questione del familiare: questa estraneità ormai raggiunta è solo il punto di approdo in grado di innescare un lavoro di riappropriazione e ricostituzione del familiare che a sua volta verrà rimesso nelle mani del testo e fatto nuovamente cadere.
Si potrebbe avanzare l’ipotesi che l’intera costruzione narrativa sia edificata sull’alternarsi di familiarità ed estraneità in cui il lettore perde continuamente l’orientamento. La sola cosa che può costituire un punto d’approdo in questa spaesante circolarità è il cercare di sentirsi situati al suo interno, a sapersi nel suo centro. Tale consapevolezza, per Gadamer, costituisce una coscienza ermeneutica in grado di accogliere l’alterità del testo e, allo stesso tempo, preservarne la sua irriducibile indeterminatezza.
Se tale alternanza pervade e innerva l’intero racconto, non sarà certo facile dare alcuni esempi intratestuali all’interno della narrazione. Trovo sia interessante rintracciarne i tratti su ciò che costituisce il sottosuolo del racconto: i suoi personaggi. Da quanto è emerso nel lavoro seminariale, in particolare dalla descrizione delle dramatis personae, oltre a Gogol’, Caracas e al nostro narratore interno Foma Paskalovic, ad intervenire nel racconto sembra apparire un altro personaggio: Tommaso Landolfi come traduttore di Gogol’.
Se la questione di Landolfi traduttore ci impegnerà nel terzo punto di questa breve dissertazione, quello che qui è interessante è l’ironico intreccio tra autore e narratore, Landolfi traduttore e Foma Paskalovic biografo.
E’ l’impossibilità di vedere l’uno come familiare e l’altro come estraneo che ci fa pensare ad una continuo alternarsi di queste due opposte polarità: Tommaso Landolfi conosce Gogol’, ha dedicato parte del suo impegno letterario alla traduzione dell’autore russo, tuttavia ciò non sembra essere sufficiente per sentire la sua presenza nel testo come familiare. Lo stesso Foma Paskalovic, pur avendo precisi doveri da biografo, sembra disubbidire alla sua testimonianza narrativa in diversi punti del racconto. Quando Caracas esclama ‹‹Voglio fare popò›› (Landolfi 1954, 24) il narratore interno sembra non saper decidere se la frase è stata solo udita o traudita mettendo in discussione la sua stessa attendibilità.
Quando ci si avvia alla conclusione del racconto, lo stesso Foma Paskalovic sembra essere perfettamente consapevole della mancanza di certezza degli eventi che sta raccontando tanto da rimproverare a se stesso la natura delle sue risultanze che si fanno ‹‹sempre più confuse e meno sicure›› (Landolfi 1954, 26).
A chi dobbiamo credere? A quale personaggio il lettore può appellarsi per cercare di uscire fuori da questo spaesamento? Se non c’è alcuna figura di riferimento, nessuna stampella a sostegno del lettore, sarà possibile arrivare ad una interpretazione ?
Non avremo alcuna risposta e nessuna certezza, dobbiamo mettere da parte l’idea che si possa archiviare il racconto arrivando ad una esaustiva conclusione che permetta di dare senso all’intera struttura narrativa: il testo landolfiano non cederà mai ad una comprensione finale o univoca.
2 ) Il suggerimento di Gadamer è quello di avvicinarsi alla comprensione testuale superando una visione unilateralmente soggettivistica, in quanto se ci poniamo di fronte al testo di Landolfi come ad un objectum non ne faremo mai alcun tipo di esperienza. Un approccio ermeneutico è dettato dal fatto che, se il lettore vuole davvero comprendere, dovrà mettersi in ascolto dell’opinione del testo, dovrà lasciarsi dire qualcosa da esso e tenere lontano tutto ciò che potrebbe impedirne l’ascolto in modo adeguato.
Sospendiamo la nostra pretesa di esseri oggettivanti e onniscienti per stare dentro un fluire e uno scorrere narrativo in grado di trascinarci ai limiti del confine tra finzione e realtà.
Non si tratta più di scegliere se accettare che le cose siano così o meno: se il lettore vuole porsi all’interno del testo, nel suo orizzonte, deve essere pronto a intrattenere una vera e propria conversazione, uno scambio alla pari dove non c’è più l’emergere di un punto di vista capace di sopraffare l’altro ma una dimensione ricettiva che nasconde in sé un’apertura attiva ai fini dell’interpretazione.
3) La lettura del testo che abbiamo operato è vicina a quella forma di dialogo, quella Sprache che Gadamer si propone di mettere a fuoco: il testo è quindi quel tu in grado di parlarci solo se siamo aperti ad accogliere il suo appello, perché ‹‹chi vuol comprendere un testo deve essere pronto a lasciarsi dire qualcosa da esso›› (Gadamer 2000, 316).
Ritorna a farsi sentire l’alternanza di familiarità ed estraneità ma, nella sua veste dialogica, assume tutto il suo senso dialettico: saper ascoltare l’altro vuol dire essere in grado di affermare in me qualcosa che ha la sfumatura della negatività, un qualcosa che può essere dialettizzato e che ha i tratti della nostra ormai familiare non familiarità.
Il testo landolfiano sembra attivare tale dialettica-dialogica nella cooperazione attiva tra testo e lettore. Si fa spazio un suo modello di colloquio a tre voci meno pacifico e più complesso: la voce del testo dialetticamente parla a quella del lettore, ma questo dialogo è supervisionato dalla figura narrante di Landolfi traduttore di Gogol’, interna ed esterna nello stesso momento.
Tale dialettica dialogica si riversa quindi anche nel rapporto tra Landolfi traduttore e Gogol’ autore, poiché tradurre, significa anche riprodurre, ovvero fare un’esperienza di passaggio da una lingua all’altra. Il modello di una scrittura che sempre si traduce è posto alla base di quella idea gadameriana di dialogo ma nella sua versione meno pacificata, poiché resta sempre qualcosa che resiste. La resistenza è ciò che ci permette di fare esperienza e insieme costituisce ciò che circolarmente ci consente di avvicinarci al testo nonostante questo sembri assumere, imprevedibilmente, i tratti di un allontanamento.
In ultima analisi credo che se si rimane fedeli al modello ermeneutico di interpretazione testuale, leggere il testo di Tommaso Landolfi, confrontarci con la sua inesauribilità e potenza espressiva, possa significare imbattersi in quell’ostacolo che costituisce il testo come urto, chiarificando il senso del fare esperienza legato al testo landolfiano.
L’esperienza che ne facciamo è un trovare sempre dietro l’angolo nuove esperienze, è ‹‹sapere di non essere mai sollevati dal rischio di averne dell’altra›› (Gadamer 2000, 411). Se siamo partiti dall’esperienza del testo come esperienza di un urto arriviamo circolarmente ad un’esperienza che ‹‹non ha il suo compimento in un sapere, ma in quell’apertura all’esperienza che è prodotta dall’esperienza stessa›› (Gadamer 2000, 411). Ovvero quel viaggio esperienziale che Gadamer chiama Erfahrung e a cui Landolfi dà il nome di La moglie di Gogol’.
Landolfi, T.
La moglie di Gogol’ in Ombre (Vellecchi, Firenze, 1954).
Gadamer, H. G.
Wahrheit und Methode, Tübingen, 1960 (Milano, Bompiani, 2000).
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