Ci accingiamo a leggere un racconto. Il dorso del libro poggiato sul palmo, duro e leggero. Il frusciare delle pagine che solleticano le dita e l’immaginazione. L’odore del nuovo che pure ricorda qualcosa. Cosa accade quando ci accingiamo a leggere un racconto? Ne respiriamo l’attesa, già sogniamo i sentieri che dovremo percorrere, già li percorriamo, così in qualche modo ci aspettiamo qualcosa dal testo. Eppure anche il testo è lì ad attenderci, chiuso, ormai-scritto, fin nei dettagli più piccoli dei caratteri stampati di quelle vie inesorabili, e allora anch’esso si aspetta qualcosa da noi. Si aspetta una nostra interpretazione, già progettata e ordinata affinché noi, producendola, lo incontriamo nel modo che è stato stabilito. E tuttavia, ogni nostra interpretazione non potrà in alcun modo evitare di rimanere una nostra interpretazione, sempre proietteremo nel testo qualcosa che non è affatto in esso; d’altra parte nessuno vorrà evitare queste proiezioni, giacché è solo nell’incontro con il suo lettore che il testo può accadere. Vogliamo prender parte alla creazione della storia e insieme vogliamo che esista oltre le nostre proiezioni, come un altro da noi in cui poterci imbattere, ma abbiamo paura che ciò che contraddice le nostre previsioni faccia crollare le nostre certezze e allora quel che desideriamo è piuttosto una conferma, che ci faccia star tranquilli, che ci dica che avevamo ragione noi. Insomma, che ne siamo consapevoli o no, noi oscilliamo tra il volerci scontrare con l’opera come qualcosa d’altro e il volerla sottomettere come qualcosa che ci appartiene, come una nostra creazione. Eppure l’opera non vuole appartenere nemmeno al suo creatore, il quale è condannato al medesimo oscillare.
La moglie di Gogol’ sembra volersi sottrarre a qualsiasi tipo di interpretazione. Si presenta come il frammento d’una biografia, un frammento tanto spinoso da richiedere il diretto intervento del biografo, incerto se sia giusto rivelare o meno ciò che si accinge a narrare, tra altre ragioni, proprio perché «servirà senza dubbio alle più malevole e balorde interpretazioni» (Landolfi 1994, 19).
Sospendiamo allora ogni sospetto e decidiamo di riservare al testo la considerazione che richiede, quella che avremmo per una scrupolosa biografia della vera vita di Gogol’. Una volta accettato il gioco ed entrati nella storia vediamo il nostro interesse subito declinarsi: già non ci chiediamo più cosa sia La moglie di Gogol’, quel che ora vogliamo sapere è chi sia la moglie di Gogol’. Ma ecco che il passaggio dal cosa al chi deve immediatamente subire un nuovo stravolgimento, perché quel che ci viene subito rivelato è che «la moglie di Nikolaj Vasil’eviĉ, è presto detto, non era una donna, né un essere umano purchessia, neppure un essere comunque vivente, animale o pianta (secondo taluno, peraltro, insinuò); essa era semplicemente un fantoccio» (Landolfi 1994, 20).
A questo punto tocca a noi dover intuire che la moglie di Gogol’, ora descritta come uno strano oggetto mutevole e polimorfo, non è altro che una semplice bambola gonfiabile (seppur di ottima fattura) le cui mutazioni avvengono per mano dello scrittore. È lui che la modifica all’occasione secondo ogni proprio desiderio più disparato. Allora il biografo, che confida nelle nostre capacità, vuole subito lusingarci: «la ragione di questi mutamenti stava, secondo i miei lettori avranno già capito, in nient’altro che nella volontà di Nikolaj Vasil’eviĉ» (Landolfi 1994, 21, corsivo mio). E mentre noi siamo lì a crogiolarci per aver visto confermate le nostre previsioni, eccoci già rigettati nello sconforto del dubbio: «altrettanto certo è che presto ella divenne, nonché sua mancipia, sua tiranna» (Landolfi 1994, 21). Ora dobbiamo esser puniti per aver preso troppa iniziativa e scopriamo, contro ogni nostro pronostico, che quella che avevamo detto una semplice bambola gonfiabile, ha una voce propria che per primi irrita noi: «voglio fare popò»[1] (Landolfi 1994, 24). Sobbalziamo insieme al narratore, vorremmo, come Gogol’, che non avesse mai parlato. Eppure siamo affascinati, questo sfuggirci del testo ci attrae, siamo di nuovo convocati, dobbiamo colmare uno spazio vuoto come soltanto noi lettori sappiamo fare e d’altronde sarebbe impossibile riuscire a non formulare nuove ipotesi che cerchino di afferrare la storia in un tutto organico e comprensibile.
Finalmente siamo autorizzati a sospettare che non si tratta di una vera e propria biografia (almeno non nel senso tradizionale del termine), ma non ci pare neppure di avere a che fare con un racconto di fantasmi, forse allora è il testo stesso a chiederci di interpretare Caracas (questo è il nome che Gogol’ ha dato a sua moglie) come un simbolo rinviante a qualcos’altro. Ma quando infine comprendiamo quanto forse avevamo già intuito, che la moglie di Gogol’ rappresenta l’opera di Gogol’[2], quasi ci indispettiamo per quelle esplicitazioni fin troppo chiare e stringenti[3] che hanno costretto nel testo quella che avremmo preferito come una nostra interpretazione. Eppure il racconto non si conclude tra le fiamme che bruciano le pagine d’una Caracas esplosa (immagine del rogo dei manoscritti, richiamato nel testo). Deve aggiungersi un altro singolare elemento che Foma Pascaloviĉ introduce, altrettanto singolarmente, come un «malcerto elemento in questa veridica narrazione» (Landolfi 1994, 31). Proprio quando ogni cosa stava per stabilizzarsi nella nostra comprensione in un tutto coerente, ecco apparire per subito bruciare via con la fine della storia, il perturbante. Forse, tra le fiamme, Gogol’ gettava un bambino.
Se chiediamo al testo chi sia questo bambino ipotetico, non avremo altra risposta che, con tutta probabilità, anch’esso è un fantoccio e dunque il figlio di Caracas. Ma a nulla servirebbe chiedere chi del fanciullo sia il padre, perché nulla il testo rivela in proposito, fuorché che Gogol’ «prese addirittura ad incolparla di tradimento [Caracas]» (Landolfi 1994, 27), il che complica notevolmente la situazione[4]. Molti potrebbero esserne stati gli amanti, qualcuno potrebbe averle trasmesso la sifilide, come possiamo sapere, noi lettori, chi sia il padre del già defunto bambino? Inoltre il racconto non menziona direttamente nessun altro uomo, a meno che … Che sia l’insospettabile narratore della vicenda Foma Pascaloviĉ ad aver amato Caracas all’oscuro del famoso marito? Ma certo! Quasi dimenticavamo che qui la moglie stava ad indicare l’opera di Gogol’, e allora sì, è il biografo che l’ha amata e odiata, penetrata, trattata come cosa viva, interrogata e soffocata laddove essa gli si ribellava. Egli voleva descrivere il suo rapporto con l’opera, da cui doveva trarre la vita dell’autore. Voleva domarla ed ha rischiato di esserne domato, ma alla fine ha dato alla luce la biografia, di cui però è rimasto soltanto un frammento (forse salvato dalle fiamme). Ecco allora, finalmente, l’interpretazione: la moglie è l’opera, e il bambino, figlio di un tradimento, la biografia. È esatta ma dobbiamo saper andare ancora oltre, perché qui Foma Pascaloviĉ il biografo non è altri che l’alter ego di Tommaso Landolfi traduttore traditore e il frammento della biografia, il bambino, è proprio il racconto che abbiamo letto[5]. Ma questo equivale a dire, contro ogni natura, che il figlio della moglie di Gogol’ è La moglie di Gogol’. Tuttavia, neppure questa soluzione ci lascia riposare in una conclusione: il bambino che brucia ci riconduce per mano, ancora una volta, all’inizio del racconto, il cui titolo non può più apparirci come il capitolo d’una biografia.
Così capiamo che la moglie di Gogol’ di cui si parla nel racconto è anche il racconto stesso. Il testo parla del testo e l’interpretazione più estrema coincide proprio con la formula che respinge ogni interpretazione: la moglie di Gogol’ è La moglie di Gogol’. È così evidente che ora ci meravigliamo di non essercene accorti prima. L’opera non si è forse animata, come il fantoccio, soltanto grazie al nostro alito vivificatore? L’abbiamo interrogata, plasmata a nostro piacimento, odiata e «quando per straordinario caso, la forma ottenuta incarnava invece compiutamente quella vagheggiata» (nelle nostre ipotesi interpretative) ce ne siamo innamorati «in modo esclusivo» (Landolfi 1994, 22). Abbiamo esercitato su di lei la nostra forza e desiderato di soffocarla quando ha impertinentemente cercato di sottrarsi al nostro dominio per imporre la sua presuntuosa autonomia. Abbiamo pianto quando siamo stati costretti a rinunciare alle nostre interpretazioni perché «ciascuna forma di Caracas era, a meno d’un miracolo, irrepetibile; era insomma ogni volta una creazione» (Landolfi 1994, 24). Abbiamo trattato questo oggetto come fosse cosa viva e infine, consumando il racconto, abbiamo lasciato che bruciasse via. Noi abbiamo giaciuto con la moglie di Gogol’, allora forse siamo proprio noi i portatori di sifilide, oppure il padre del bambino, o entrambe le cose[6]. Qualunque sia la risposta ora il testo ci accusa e ci vuole responsabili. Noi, che prima provavamo godimento nell’esser convocati, ora abbiamo paura. Chi è dunque il bambino? Il bambino è queste parole, siamo noi stessi inghiottiti e partoriti dalla moglie di Gogol’, è i nostri occhi assimilati e partoriti per essere restituiti al mondo diversi. E la prima cosa che guardiamo diversamente è il racconto stesso, ora il bambino ci guarda con i nostri stessi occhi, ardenti, e ci riconduce ancora all’inizio.
Lo sguardo dell’opera ci ha stregato e sigillato nel testo, proviamo a ribellarci e scopriamo di essere noi la moglie di Gogol’. Noi che mentre leggiamo non possiamo parlare e dobbiamo accettare passivamente di essere truccati, ingannati, riempiti e svuotati secondo il piacere dell’opera che ormai ci possiede. Soddisfiamo ogni richiesta che ci vien fatta e quando prendiamo troppa iniziativa veniamo puniti e sgonfiati del nostro orgoglio. Subiamo la gelosia del racconto che ci cattura e vuole solo per sé tutte le nostre attenzioni, infine ci lasciamo gettare via inermi quando ormai non serviamo più a nulla e siamo esclusi per sempre da quel mondo che ci sembrava cosa nostra. Eppure il bambino riappare, stavolta noi siamo la madre, ci vuole di nuovo portare all’inizio, ma per ora dobbiamo lasciarlo bruciare insieme a noi, perché finalmente abbiamo capito che le sue strade non hanno fine.
Molto altro ancora si potrebbe dire di questo meraviglioso racconto di Tommaso Landolfi e dei tortuosi sentieri che ci ha portato a percorrere. Potremmo ricorrere al metodo interpretativo offertoci da Umberto Eco in Lector in fabula e cercare di capire che tipo di lettore sia modellizzato in questo testo. Ci troveremmo a smascherare tutte le presupposizioni che proiettavamo nel testo senza che da questo fossimo autorizzati. Tutto ciò che ad esempio credevamo implicato dal semema «moglie» dovrà essere rivisto e il suo significato allargato. Alla fine guardandoci indietro vedremmo l’intero racconto come un espansione di quel semema e lo stesso semema «moglie» come un testo virtuale. Allo stesso modo, nella nostra lettura, quell’unica parola di volta in volta stava ad indicare: un fantoccio, l’opera di Gogol’, la biografia, il racconto di Tommaso Landolfi, noi stessi, senza mai cessare di significare «moglie».
Spostandoci più dalla parte del lettore empirico, con Wolfgang Iser (L’atto della lettura), potremmo considerare il racconto come un testo capace di riorganizzare la nostra esperienza. Comprenderemmo allora il continuo mutamento di prospettiva, che abbiamo visto anche nella nostra interpretazione, nel concetto di punto di vista errante: ogni sintesi parziale, ogni figurazione globale del testo che avviene necessariamente nella mente del lettore ad ogni passo dell’atto della lettura, è destinata ad esser riconfigurata in quella successiva, in un’interazione continua tra aspettative modificate e ricordi trasformati. Sempre nelle parole di Iser vedremmo come il lettore sperimenti il testo come un evento vivente, e anche in questo ritroveremmo confermata un’altra nostra ipotesi che ci proponeva di vedere il testo stesso come un corpo vivente, come la moglie di Gogol’.
Infine, con Hans Georg Gadamer e attraverso il suo Verità e metodo, potremmo confrontarci con l’autentica esperienza che in ultima analisi ci offre il racconto. Si tratta dell’esperienza di finitezza, da rintracciarsi anche nelle ultime battute della nostra lettura, che ci mette di fronte all’impossibilità di raggiungere una completa comprensione e possesso dell’opera. È il concetto di Erfahrung (da opporre al concetto di Erlebnis, presente invece in Iser, caratterizzato da una forte componente riflessiva) che Gadamer spiega servendosi anche del pathei mathos eschileo, l’imparare attraverso la sofferenza.
Cito queste tre diverse direttive di incontro con l’opera perché è senz’altro da esse che ha preso avvio l’interpretazione proposta. Ma quel che vorrei proporre a conclusione di questa lettura de La moglie di Gogol’ è qualcosa che attraversa tutte e tre le teorie a cui ho appena accennato, pur nella loro differenza di approccio al testo. Quel che ci ha portato a concludere il nostro percorso a tornanti, interrotto senza aver raggiunto la meta, è che dobbiamo rassegnarci di fronte all’impossibilità di avere un completo dominio interpretativo dell’opera. Sempre qualcosa resta fuori, il bambino non voluto, opacità del testo, scarto dell’interpretazione che subito ne richiede una più onnicomprensiva destinata a mostrarsi anch’essa inadempiente. Sempre qualcosa mettiamo dentro, la sifilide, il seme infetto che a sua volta produce ciò che resterà fuori. Allora questa è la condanna e questa deve essere la lezione per il biografo, così come per il traduttore, per ogni autore o artista e per noi, i lettori. Questo è ciò che dobbiamo apprendere dalla nostra lettura: nell’incontro con l’opera d’arte facciamo esperienza di un conflitto. E anche questo sembra pensato e tematizzato dal racconto stesso, nella forma di un ammonimento, nell’esergo: «Fragori di guerra intorno»[7] (Landolfi 1994, 19). Il rimando è ad una guerra che si gioca intorno al testo, non solo all’interno: non solo al conflitto tra Gogol’ e la sua opera, ma anche a quello tra Foma Pascaloviĉ e la biografia, tra il Landolfi traduttore e la traduzione dell’opera di Gogol’, tra il Landolfi autore del racconto e il racconto stesso, in breve ad ogni conflitto tra l’autore e la sua opera, ma anche a quello tra l’opera e il lettore. Se ora vogliamo domandarci di che tipo sia questa contrapposizione, in cui ci è ormai impossibile distinguere il creato dal creatore, dovremo risponderci che questa è una guerra che non può conoscere vincitori. Allora il testo, dopo aver frustrato ogni nostra azione impedendoci di scaricarci in un’interpretazione pacificante, ci restituisce al mondo: quel mondo caratterizzato dagli stessi problemi dell’interpretazione, dove i fragori di guerra uccidono, ma anche quel mondo dove l’azione è possibile ed è richiesta.
APPENDICE – IL PERTURBANTE
A questo punto occorrerà chiarire qualcosa a cui è stato accennato solo di passaggio e che pure potrebbe esser visto come il dispositivo che ha mosso tutta la nostra interpretazione. Il perturbante.
Se non è stato immediatamente messo in evidenza è principalmente per due ragioni. Caricare la vicenda interpretativa regalataci dal racconto di questo peso concettuale avrebbe portato ad un’enormità di sviluppi tale da far dimenticare l’opera da cui siamo partiti. Inoltre era necessario evitare l’utilizzo di qualsiasi teoria precostituita e scongiurare qualsiasi proiezione che non riguardasse strettamente il nostro rapporto con il testo.
Tuttavia non posso fare a meno di rilevare che, per quanto la nostra lettura non si è mossa affatto all’insegna di questo concetto, esso appare come un elemento che deve emergere almeno nell’interpretazione della nostra interpretazione, come presente ad ogni passo e forse persino al di sotto della nostra consapevolezza. Sembra pure che il perturbante sia stato oculatamente incastonato nelle pagine del racconto dallo stesso scrittore, come si vedrà da alcuni indizi, ma anche in questo caso non occorrerà pretendere che ci sia stata totale consapevolezza. Ad ogni modo è d’obbligo svelare il mio debito con Freud e rendere esplicito ciò che certamente ha contribuito allo sviluppo dell’interpretazione, che è in grado di riassumerla e di ampliarla, ciò stesso che probabilmente ha avuto un ruolo, in un modo o nell’altro, anche nella stesura stessa del racconto che abbiamo analizzato.
Rubiamo allora alla psicoanalisi un concetto che essa aveva a sua volta rubato all’estetica. Così scriveva Freud all’inizio del suo saggio Il perturbante: «È raro che lo psicoanalista si senta spinto verso ricerche estetiche, anche quando non si riduca l’estetica alla teoria del bello per descriverla, invece, come la teoria delle qualità del nostro sentire. […] Può capitare tuttavia ch’egli debba interessarsi di tanto in tanto di una determinata sfera dell’estetica, e si tratta allora quasi sempre di alcunché di periferico, negletto dalla letteratura specialistica. Un caso del genere è rappresentato dal “perturbante”». Per illustrare qui nel modo più breve cosa sia il perturbante, ci conviene ricorrere alla parola tedesca. Unheimlich. L’importanza del termine originale sta nel fatto che contiene una negazione: letteralmente sarebbe il non-familiare dove il «non» deve essere letto come quella negazione profondamente affermativa della rimozione. Ma anche Heimlich è una parola di notevole importanza, dal significato ambivalente: ha a che fare con la familiarità come col nascondere, arrivando a coincidere con il suo contrario, tanto che in alcuni casi Unheimlich potrebbe esser considerata una variante di Heimlich. Così il perturbante sarebbe quel negato e rimosso che continuamente vuole riaffermarsi e riemergere. Come accade nella vertigine sul ciglio del burrone, un’unica forza ci attrae e ci respinge.
Tra i diversi esempi che Freud propone ci sono due episodi che lo riguardano.
Nel primo egli vaga per le strade d’una cittadina italiana quando si imbatte in un quartiere di prostitute. Decide di allontanarsi in fretta ma, dopo aver girato a vuoto, si ritrova ancora lì. Di nuovo decide di fuggire, di nuovo i suoi passi lo riconducono in quel luogo.
Nel secondo è un uomo anziano nel bagno dello scompartimento del treno a spaventarlo, per poi dover riconoscere che quell’uomo era egli stesso riflesso allo specchio.
Questi due episodi richiamano due temi strettamente legati al perturbante: quello del perpetuo ritorno dell’uguale (la coazione a ripetere) e quello del sosia.
Per quanto riguarda il primo, abbiamo visto la sua forza in atto nella nostra interpretazione. Per quanto riguarda il secondo dobbiamo dire che la figura del sosia, che rappresenta un perfetto esempio di compresenza di familiare e non-familiare, è strettamente legata a quella che è la natura della moglie di Gogol’. Ma non possiamo approfondire ulteriormente questo punto e dobbiamo contentarci solo di questo accenno come degli altri che seguiranno.
Addentrandosi nella lettura del saggio di Freud Il perturbante sembra di trovare ad ogni angolo parole su La moglie di Gogol’, tanto da lasciar pensare che alcune di esse abbiano fornito uno spunto per la scrittura del racconto. Dalla citazione di Schelling «Unheimlich […] è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato» (Freud 1989, 86) a quella di Jentsch «Uno degli espedienti più sicuri per provocare senza difficoltà effetti perturbanti mediante il racconto […] consiste nel tenere il lettore in uno stato d’incertezza sul fatto che una determinata figura sia una persona o un automa» (Freud 1989, 88), fino ad arrivare al sorprendente racconto che Freud analizza. Si tratta de Il mago sabbiolino di E. T. A. Hoffmann e qui le somiglianze con La moglie di Gogol’ diventano notevoli, perché anche in questo testo troviamo una bambola dalle fattezze umane di cui il protagonista, Nathaniel, si innamora fino alla follia: il suo nome non è Caracas ma un altro, sempre di sette lettere e anch’esso potrebbe esser letto come un nome di città, Olimpia. Anche questo racconto attrae il lettore nella vicenda fino a tematizzare il suo intervento. La figura scelta da Hoffmann è un cannocchiale usato per vedere meglio, ma anche capace di generare illusioni e persino la follia: rappresenta la mediazione della lettura, ma anche quella della scrittura. Sarebbe forte la tentazione di parlare pure di questo racconto e ancor più forte quella di approfondire le poche e insufficienti osservazioni sul perturbante, ma dobbiamo fermarci e anche questa piccola interpretazione della nostra interpretazione, fatta di accenni e citazioni di un unico saggio di cui raccomandiamo la lettura, deve concludersi.
Forse Landolfi aveva letto Freud o Hoffmann, o forse Freud aveva letto così bene il perturbante da poterne fornire tutti gli strumenti per riconoscerlo anche laddove esso compare indipendentemente dalla consapevolezza di chi lo incontra.
BIBLIOGRAFIA
Eco, Umberto
Lector in fabula, Bompiani, Milano, 1979
Freud, Sigmund
Il perturbante, in S. Freud, Opere 9 (L’Io e l’Es e altri scritti 1917-1923), Bollati Boringhieri, Torino, 1989
Gadamer, Hans-Georg
Verità e metodo, Bompiani, Milano, 2000
Iser, Wolfgang
L'atto della lettura, Il Mulino, Bologna, 1987
Landolfi, Tommaso
La moglie di Gogol’, in T. Landolfi, Ombre, Adelphi, Milano, 1994
[1] Evidente pendant di «anch’io fo pipì, ma per tutt’altre ragioni!» (Landolfi 1994, 20), che contribuisce a rendere ancor più enigmatico il dissacrante annuncio.
[2] Un accostamento degno di nota quello di opera e moglie, in luogo della solita opera figlia. Mi pare che anche questa definizione voglia enfatizzare il rapporto conflittuale con un’opera sempre altra e irriducibile all’io, anche laddove questo io è il suo stesso creatore (lo stesso termine «creatore» dovrebbe esser rivisto perché compatibile soltanto con la relazione pacificata creatore padre – opera figlia).
[3] Riporto qui, su tutte, la più curiosa: «il famoso “bruciamento delle vanità”» citato nello stesso racconto, sul quale è ricalcato il bruciamento di Caracas, avviene nel 1852. La fantasiosa tragedia raccontata nel testo, che vedrà data alle fiamme la stessa moglie di Gogol’, avviene il giorno in cui dovevano festeggiarsi le nozze d’argento tra i due. L’inizio della produzione letteraria di Gogol’ può con ragione essere fissata attorno al 1827, esattamente 25 anni prima del rogo della seconda parte de Le anime morte (inoltre il 1852 è lo stesso anno di morte dello scrittore). La moglie di Gogol’ è dunque l’opera di Gogol’, incontrata nel 1827 e lasciata nel 1852, nell’anno delle loro nozze d’argento.
[4] Credo si commetterebbe un errore se si desse per scontata la paternità di Gogol’. Allo stesso modo dovremo intendere il temuto tradimento come qualcosa di più che una semplice fantasia dello scrittore. Non dobbiamo dimenticare che Caracas ha parlato, ora siamo costretti a considerarne la carnalità, è bene allora a questo punto evitare qualsiasi ammorbidimento e guardarlo come un vero e peccaminoso tradimento carnale.
[5] Tommaso Landolfi fu effettivamente traduttore di Gogol’ tre anni prima della stesura di questo racconto, gli anni di gestazione che hanno portato alla nascita del bambino, figlio dell’opera e del suo traduttore.
[6] Nel testo è scritto «Vedi dunque, Foma Pascaloviĉ, qual era il nocciolo di Caracas: essa è lo spirito della sifilide!» (Landolfi 1994, 26). Caracas è lo spirito della sifilide allo stesso modo di ogni opera, per la quale il contagio del lettore è inevitabile giacché lo richiede e non può farne a meno. È curioso che, nel racconto, Gogol’ cerchi di ottenere una forma di Caracas immune al contagio. Il tentativo è ovviamente fallimentare perché vuole realizzare l’impossibile, ma la traccia di questo esperimento è da ricercarsi nel nome stesso di Caracas, che getta dall’altra parte del globo terrestre chiunque voglia contagiarlo con la propria interpretazione.
[7] Il primo referente di questo esergo è certamente da riferire alla seconda guerra mondiale e a quel 1944 in cui è stato scritto e pubblicato il racconto. Il manoscritto è datato «Roma (viale Mazz.) 19 sett. 1944». Pubblicato dapprima in «Città», I, 5, 14 dicembre 1944.
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