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La vena anarchica di Jacob Taubes
di Donatella Di Cesare

 

«Il tempo incalza», perché ha un termine, una fine. Quando al termine della storia, il tempo «principe della morte» sarà sottomesso, farà il suo ingresso il tempo della fine. Sarà arrivato il Messia. L'impazienza messianica, antico paradigma ebraico, nuovo paradigma della tarda modernità, guida tutta la ricerca di Jacob Taubes, a cominciare dal suo unico libro Escatologia occidentale (Garzanti, 1997), una ermeneutica della storia narrata come un testo, a sua volta interpretato a partire dal testo della Torah, della Bibbia ebraica. Filosofo, teologo, esegeta, Taubes sfugge ad ogni classificazione; resta però un rabbino, saldamente ancorato all'ebraismo ortodosso. Nella sua apertura al cristianesimo così come nei confronti estremi con Heidegger e con Schmitt, il rabbino-filosofo mantiene il punto di vista ebraico. Ma è una questione che fornirà ancora molti spunti su cui riflettere. Anche di qui la complessità del suo pensiero, che solo da pochi anni ha suscitato interesse in Germania prima, negli Stati Uniti, in Francia e in Italia poi. Mancava tuttavia una monografia, che arriva ora con il libro di Elettra Stimilli, titolato Jacob Taubes. Sovranità e tempo messianico (Morcelliana) a ripercorne l'opera scegliendo di seguire i due filoni della filosofia della storia e della teologia politica. Quel che spinge Taubes a rintracciare nella storia dell'occidente l'idea messianica è l'esigenza di chi è sopravvissuto all'ultima apocalisse, lo sterminio degli ebrei. Reagire all'annientamento significa delineare un processo escatologico che si svolge nella storia, ma è anti-storico, dove la Shoah diviene necessaria. Questa è la sfida lanciata da Taubes dove è contenuta già la risposta che - come osserva Stimilli - promette un compimento della teologia politica: il messianismo. Ma la questione si amplia - e si amplierà anche nel percorso di Taubes. Come pensare infatti il messianismo ebraico post Christum, dopo la cristianità e il suo apparente risolversi in secolarizzazione?

Mentre riconduce la storia escatologica dell'occidente alle sue radici ebraiche, Taubes riannoda con il filo del pensiero apocalittico ebraismo e cristianesimo, pur tenendoli ben distinti. Ma con un gesto imprevisto e inattuale legge il cristianesimo delle origini attraverso l'ebraismo. Per Taubes, che si definisce dall'inizio un «apocalittico della rivoluzione», la parola originaria è la «estraneità» che nel vocabolario gnostico rinvia alla frattura tra uomo e mondo, Dio e mondo. Uomo e Dio sono così accomunati dalla loro estraniazione al mondo. La estraniazione si traduce nell'erranza che segna il passaggio dalla natura alla storia, dal mondo pagano al mondo ebraico-cristiano. È nel popolo di Israele, «luogo storico dell'apocalittica rivoluzionaria», che l'erranza si manifesta per la prima volta assumendo quella forma teologico-politica che con un termine greco viene detta «teocrazia».

Il tema, toccato già nell'Escatologia, è affrontato da Taubes soprattutto negli ultimi anni a partire dal seminario intitolato Teologia politica come problema ermeneutico. Usato per la prima volta da Flavio Giuseppe, quando descrive la rivolta degli zeloti, dei gruppi di resistenza ebraica contro l'Impero romano, il termine «teocrazia» viene rilanciato nella modernità da Spinoza. Fenomeno fondamentale della teologia politica, la teocrazia è «un immediato dominio di Dio che esclude ogni forma di dominio dell'uomo sull'uomo», fino al rifiuto di ogni guida politica. Viene così alla luce la vena anarchica del pensiero di Taubes.

Il patto di alleanza con Dio esclude ogni altro patto o vincolo terreno e fa di Israele una comunità politica senza autorità, una società che non si costituisce attraverso uno stato. «La teocrazia si basa sull'animo sostanzialmente anarchico di Israele». Qui Taubes segue un'antica linea interpretativa che nel novecento passa per Gustav Landauer e Martin Buber. Pone però l'accento sull'originaria estraneità a se stesso del popolo ebraico, stirpe nomade destinata a restare deterritorializzata - come direbbe Deleuze - popolo «non-popolo» il cui diritto, a differenza del diritto romano, vieta la proprietà privata, «popolo senza spazio» e perciò «popolo del tempo», il cui unico luogo è il non-luogo del deserto in cui si rivela «il Dio universale che guida la storia del mondo». Questo Dio straniero ed escatologico è un Dio sovversivo perché «contesta il mondo in sé e annuncia quello nuovo».

Il pericolo però della spinta sovversiva e rivoluzionaria è quello di affondare nel vuoto nulla oppure di differire il suo télos, il suo fine, nel futuro. In breve: la spinta apocalittica rischia di mostrare solo la sua tragicità se privata dell'idea messianica. Soltanto se quest'ultima regge, può delinearsi la «nuova alleanza» che è il vero télos della rivoluzione. Di qui l'interesse di Taubes per le prime comunità cristiane che si oppongono al potere imperiale e l'attenzione per le due figure capaci di rivelare l'essenza dell'escatologia: Gesù di Nazareth e soprattutto Paolo di Tarso. Ma la lettura che Taubes fa di queste due figure è una lettura ebraica.

«Gesù non va considerato come l'iniziatore di qualcosa di nuovo, ma come un fenomeno dell'ondata apocalittica in Israele». Il suo annuncio del Regno va inteso «secondo l'espressione ebraica»: importante non è che cosa il Regno sia, ma il fatto che è vicino, che anzi forse c'è già. Anticipando quello che sarà un importante filone di ricerca - va ricordato il libro di Jules Isaac, Gesù e Israele, curato da Marco Morselli (Marietti, 2001) - Taubes guarda dunque al Cristo storico. Gesù di Nazareth, ebreo, carpentiere itinerante, del ramo impoverito della stirpe di David, chiede al popolo un atto politico decisivo per il Regno di Dio seppure non violento: se tutta l'ecumene è sottomessa all'Impero, al popolo libero di Israele non resta che l'esodo nel deserto. Ma la profezia di Cristo non è adempiuta. La delusione nelle comunità ebraico-cristiane è immensa. È qui che entra in scena Paolo, Saul di Tarso, per predicare che «nonostante il ritardo della parusia il nuovo eone è già cominciato». Così mantiene la tensione messianica tra il già e il non-ancora - tensione che va definitivamente perduta con l'escatologia individuale di Agostino e il riconoscimento della Chiesa come impero. Si comprende allora perché la figura di Paolo assuma per Taubes un significato particolare che si sviluppa e si precisa nella sua riflessione fino al seminario di Heidelberg pubblicato postumo con il titolo La teologia politica di San Paolo (Adelphi, 1997).

Mentre l'Imperium si espande ineluttabilmente, Paolo riesce a farsi carico dell'estraneità dal mondo delle masse spingendole a un «epocale raccoglimento», condizione alternativa al potere imperiale. Allontanarsi dall'Impero è seguire il Messia. Contro la versione cattolica che fa di Paolo un normalizzatore e soprattutto il fondatore di una nuova religione, Taubes lo interpreta come un eversore, esponente radicale del messianismo ebraico.

Ma è questa interpretazione che produce lo scontro con Scholem, uno scontro che investe il concetto stesso di messianismo. La questione si incentra sulla Legge ebraica, sulla Halakhah. Per parte sua Taubes ribadisce la validità della Legge condivisibile da tutti nella «sobrietà quotidiana della giustizia» - e rilancia la sfida ebraica contro l'arbitrio dell'amore. Paolo - e questo è il punto - non ha inteso per nulla negare la Legge; piuttosto ha voluto ripensare il rapporto tra Legge e fede. L'attualità di questo ripensamento per la politica è stata sottolineata da Giorgio Agamben: un sistema irrigidito che pretende di normare tutto è il segno di una perdita di senso della legge (Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, 2000). Scholem fraintende il gesto antinomico di Paolo ricondotto a una crisi della tradizione; così la redenzione ebraica sarebbe un evento pubblico, quella cristiana un evento spirituale. Deriva anche da qui il messianismo che Scholem propone: il prezzo che il popolo ebraico ha dovuto pagare per l'idea messianica sarebbe «una vita vissuta nel differimento», un rinvio dunque della venuta del Messia - rinvio che tende a trattenere, a conservare, e che indebolisce l'ebraismo. Perciò Taubes si affretta ad abbattere quella barriera dell'interiorità che Scholem ha eretto tra ebraismo e cristianesimo - ma occorre dire che critiche in tal senso sono state mosse a Scholem anche dal noto cabbalista Moshe Idel.

La «trasgressione» di Paolo non vuole essere una negazione, ma un compimento della Legge perché se il Messia è venuto, la Legge è compiuta. È questa la via di Damasco, l'eresia che l'ebraismo ovviamente non può seguire. Ma è un'eresia ebraica, come eresie ebraiche sono quelle di Gesù di Nazareth o di Shabbatai Zvi, il falso Messia dell'età moderna. Per Taubes non si tratta tuttavia di riportare a casa un eretico, quanto piuttosto di giungere attraverso Paolo e la sua «interiorizzazione» del messianismo a una auto-comprensione più complessa dell'ebraismo post Christum.

«La Lettera ai Romani - scrive Taubes nel seminario di Heidelberg - è una teologia politica perché è una dichiarazione di guerra politica» contro l'Impero. Quando la profezia viene meno, la speranza della redenzione vacilla, la grandezza di Paolo sta nel fronteggiare interiormente la crisi e di farne l'epicentro stesso della vita messianica. Ciò che allontana Taubes da Scholem al tempo stesso lo avvicina al modo in cui Benjamin intende la teologia, ossia come messianismo, pensando la redenzione non nel futuro, ma in ogni istante in cui si raccoglie e si riscatta anche il passato. «La comunità messianica non è priva di storia; tutto il passato spinge verso un adesso; esiste in un permanente stato di eccezione». Qui Taubes non esita a confrontarsi con Carl Schmitt - di cui conosceva bene i trascorsi nazisti. Davvero sovrano - aveva detto Schmitt - non è chi definisce la norma, ma «chi decide sullo stato di eccezione». La differenza tuttavia è che per Schmitt teologia e politica si identificano e il potere si autolegittima: nella sua interpretazione di Paolo la forza che ritarda la venuta dell'anticristo è l'Impero. Al contrario per Paolo interpretato da Taubes la forza antimessianica è l'Impero contestato nella sua illegittimità. Sovrano è solo il Messia, perché solo il Messia può compiere la legge e perciò sospenderla. La teologia in Taubes non si identifica per nulla con la politica; proprio il loro divergere può accelerare «l'avvento del regno messianico».

Nel ripensare radicalmente teologia politica e filosofia della storia Taubes sa dare risposte alle questioni urgenti della fine della sovranità e della fine della storia. E lo fa seguendo il punto di fuga dal pensiero apocalittico che la tradizione ebraica ha sempre indicato: il messianismo.


PUBBLICATO IL : 07-04-2005


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