Il successo di Sartre è singolare: ricalcando il titolo di un suo celebre
libro postumo, si potrebbe dire: quel drôle de succès.
Si è parlato tanto di lui, ma pochi sono stati i suoi veri interlocutori,
è stato famoso, ma le sue posizioni sono state o ferocemente attaccate,
o ridicolizzate ... e comunque, quasi sempre fraintese. Che questo strano fenomeno
si sia prodotto al tempo della guerra fredda e dei blocchi contrapposti, nel
decennio '40-'50, o, negli anni '80, al tempo della grande ubriacatura anti-umanista,
è qualcosa che può forse trovare una giustificazione storico-culturale,
sebbene rimanga un evento preoccupante. Che esso accada ancora oggi, nel terzo
millennio, con il mondo che si complica e si trasforma sotto i nostri occhi,
appare ancora più preoccupante, e ci dà molto da pensare.
La pagina che Il Sole 24 0re ha dedicato a Sartre il 13 febbraio 2005,
che pure reca firme prestigiose, quali Oliver Todd, Goffredo Fofi e Armando
Massarenti, non può infatti non farci pensare, e molto. Sono senz'altro
interessanti gli squarci sulla personalità di Sartre, sul suo carattere
e sul suo stile di vita, i ricordi personali, gli aneddoti, di cui questa pagina
è ricca.
Colpisce tuttavia che Sartre sia ricordato per le sue divertenti e originali
stranezze caratteriali, o per alcune sue prese di posizione politiche un po'
avventate, ma in alcun modo per la sua filosofia. La sua opera più bella
e più profonda, L'essere e il nulla, viene dichiarata da Todd "illeggibile",
mentre l'unico saggio degno di essere ricordato come un capolavoro è
per tutti e tre Le parole. Sembrerebbe insomma che dopo "la sua influenza
straordinaria" (Todd), di questo autore, che "non piace più
ai giovani" (ancora Todd), rimanga soltanto questa opera autobiografica.
Mi pare un bilancio un po' sommario e un po' superficiale che sottovaluta alquanto
la grandezza filosofica di Sartre, il quale, non solo ci ha lasciato una riflessione
sulla condizione umana di rara profondità, ma ha anche rivoluzionato
il modo di fare filosofia. Per Sartre infatti c'è filosofia ovunque la
mente si mette in moto: c'è filosofia nei saggi per gli addetti ai lavori,
ma altresì nei romanzi, nelle autobiografie, nelle pièces teatrali,
nei film. Noterei en passant che anche Le parole, testo così enfatizzato
dai tre relatori, è difficilmente apprezzabile senza una profonda conoscenza
dei percorsi filosofici di Sartre, dato che il suo pregio consiste molto più
nel "non detto" che non nella lettera della scrittura (anche Todd
peraltro lo nota).
Sorge allora una domanda: perché la filosofia di Sartre suscita questo
rifiuto, al punto da essere frettolosamente liquidata e grossolanamente fraintesa?
Perché, ad esempio, un pensatore così pregevole, e non certamente
antiumanista, come Cornelius Castoriadis, non ha reputato onorevole neanche
fare il nome di "questo autore" [Sartre], e tanto meno ha reputato
opportuno perdere tempo a contraddirlo: "noi che abbiamo sempre pensato
che egli parlasse delle faccende di questa terra come un essere venuto da un
altro mondo"? (C.Castoriadis, L'enigma del soggetto (1975), Bari
1998, p.328).
Perché il suo esistenzialismo laico e costruttivo non ha fatto scuola?
Perché, per molti anni, sulla scia di Heidegger, già solo la parola
esistenzialismo ( umanismo era addirittura impronunziabile) era equiparata ad
un insulto filosofico, a destra e a sinistra?
Non dimentichiamo che Sartre inizia il suo cammino filosofico in modo molto
simile a Heidegger: entrambi partono da una radicalizzazione della fenomenologia
di Husserl. Per molti aspetti le loro strade corrono parallele: tutti e due
criticano il sostanzialismo, il cosismo, l'oggettivismo, criticano il modello
adeguazionista della verità; vogliono fare filosofia senza rinchiudersi
nella trappola gnoseologica della dualità soggetto-oggetto.
Le loro strade si separano quando si tratta di comprendere quel che resta dopo
questa critica. Per Sartre resta l'individuo, e questo diventa l'oggetto del
suo interesse; Heidegger ritiene questa nozione troppo "cosale", e
preferisce parlare di Dasein, per non confondersi con i filosofi che hanno "obliato
l'essere". Ma se pensiamo al fatto che Sartre non si è mai stancato
di ripetere che le faccende umane non possono essere cosalizzate, è abbastanza
facile indovinare che forse la posta in gioco tra i due non è la differenza
ontologica, ma un modo diverso di atteggiarsi verso la realtà e verso
l'esistenza degli altri.
Per comprendere bene questo contrasto, è necessario seguire il percorso
che conduce Sartre dalla contestazione di un soggetto sostanzializzato all'ammissione
della centralità dell'individuo. L'individuo, infatti, per Sartre, non
coincide affatto con il per-sé - in ciò è d'accordo con
Heidegger - ma ne è solo una limitazione storico-sociale, che lui chiama
il "me". Ma per Sartre è molto importante soffermarsi su questa
limitazione, e sui rapporti che si instaurano tra il per-sé e il me,
perché la dimensione storico-sociale, la cui ossatura è costituita
dall'esistenza degli altri, per il nostro è filosoficamente ineludibile.
La esistenza degli altri complica però molto l'esame di realtà.
L'esistenza degli altri, anche se sempre vissuta da un per-sé, produce
un evento altamente destabilizzante: ci fa comprendere che, anche se io sono
un "essere-nel-mondo", ho "un di fuori", e che per gli altri
sono soltanto un "me".
Soltanto lo sguardo dell'altro, ci racconta Sartre in celebri pagine, rivela
che "ho un di fuori", e che "mi si vede"; Sartre ritiene
anzi che a rigore si può parlare di realtà e di mondo soltanto
quando si guadagna la dimensione dell' "altro" che ha la sua mente
e il suo punto di vista. Il per-sé è quindi un territorio
non sostanziale, non cosale e senza limiti, che tuttavia è messo in crisi
dall'esistenza degli altri, che gli pongono dei limiti, e che lo vedono come
un "me", in qualche modo cosalizzandolo. Il primo problema che un
per-sé ha da affrontare è quindi quello del rapporto tra l'infinità
del suo per-sé e i limiti che la realtà e l'esistenza degli altri
gli fanno incontrare, e che gli ricordano la sua condizione umana. Sartre ha
insomma portato l'attenzione sulla situazione di un per-sé che
non può evitare di vivere come un individuo in mezzo agli altri, e ha
posto al centro della riflessione filosofica e storica le vicende psicologico-esistenziali
che travagliano gli esseri umani nella loro vita storico-sociale. Egli ci offre
anche alcune prospettive liberatorie, per nulla ovvie e banali. Al pari di Heidegger,
valorizza molto il sentire e il pensare, certamente molto più che l'avere.
Il "pensare", tuttavia, per Sartre apre nuovi orizzonti soltanto da
un punto di vista metaforico: non è, come per Heidegger, un evento ontologico.
Una mente pensante non è in alcun modo esentata dall'affrontare i problemi
della condizione umana : la sua contingenza, la sua responsabilità, la
sua finitezza, e soprattutto la diversità degli altri, che hanno altri
punti di vista. Forse è proprio questo l'elemento che ha sempre imbarazzato
gli interpreti: il suo esistenzialismo umanistico, che "progetta",
ma senza dimenticare la contingenza, e dà ad ogni individuo la responsabilità
delle sue scelte, senza dimenticare che la realtà è sempre "altra"
e che ogni scelta è sempre un'opinione. Dalle pagine di Sartre emerge
l' impossibilità per l'individuo di raggiungere una dimensione "non
soggettiva", che lo possa liberare dall'intollerabile condizione di essere
"uno dei tanti" . Un discorso questo che non piaceva a nessuno, né
ai cattolici, né ai marxisti, né agli heideggeriani, né
agli strutturalisti ... e che, a quanto pare, anche oggi stenta a trovare il
suo spazio.
Per fortuna vi sono molte voci discordanti nel panorama culturale contemporaneo.
Ne abbiamo avuto una conferma nel bellissimo congresso Sartre après
Sartre appena conclusosi, ed anche nella mia attività di docente
ho riscontrato un interesse fortissimo degli studenti per Sartre, proprio per
il Sartre di Essere e Nulla, e proprio perché questo testo non arretra
di fronte alla quantità di dolore che incombe su chi vuole affrontare
i problemi dell'esistenza umana.
Per questi motivi Sartre ci offre anzi molto aiuto per comprendere il mondo
a noi contemporaneo. Per esempio, è stato uno dei primi ad introdurre
nel regno "intoccabile" della politica le problematiche esistenziali,
mostrandoci, con analisi raffinatissime, i percorsi con i quali angosce profonde
portano a eccessi di dominio, o a eccessi di consenso collusivo.
Nel suo bellissimo saggio Réflexions sur la question juive,
scritto nel 1946, egli si rifiuta di affrontare il tema "antisemitismo"
con categorie razionali, e ci offre un'analisi che non solo affonda nelle angosce
e nei desideri legati alla condizione umana, ma ci mostra anche il mix esplosivo
che viene fuori quando queste angosce ricevono dall'esterno una risposta priva
di pensiero, come quella razzista.
Todd invero riconosce che l'accoppiata storia-psicologia è uno dei temi
che rendono Sartre attuale, ma la sua notazione perde vigore quando poi definisce
"una trovata" il famoso esempio dell'Essere e Nulla del cameriere
che non "è" un cameriere, ma "gioca" solo ad esserlo.
Quell'esempio è portato da Sartre per illustrare uno dei pilastri del
suo discorso, la evanescenza degli esseri umani, e la insopportabile angoscia
che da essa proviene.
Nessuno "è" nulla, dice Sartre, nessuno "è"
cameriere, nessuno "è" professore, o industriale, o divo ...
tutti "giocano" un ruolo, e la ricerca di un fondamento sostanziale
che dia alla propria vita una sicurezza di granito è per Sartre una delle
origini del dominio, del fanatismo, della intolleranza, della "totalità".
L'evanescenza, tuttavia, se accettata, ci offre, secondo Sartre, molte chances,
perché permette di impostare la propria vita sul sentire anziché
sull'essere, permette di cambiare, di avere delle belle emozioni. L'"impegno",
come Sartre lo teorizza in Qu'est-ce que la littérature? - spesso
in modo criptico, per farsi accettare dai compagni - che altro è se non
un elogio dell'azione benefica esercitata dall'arte sul sentire degli esseri
umani?
E nonostante abbia descritto con realismo estremo le difficoltà dei rapporti
con gli altri (e anche questo non gli è stato perdonato), ha tuttavia
intravisto nella comunicazione interumana una delle poche salvezze della vita.Come
possiamo leggere allora che Sartre adora la totalità (Fofi), e che ha
sempre privilegiato il "fare" rispetto al "pensare" (ancora
Fofi)?
Certamente Sartre quando scrive di filosofia è prolisso e a volte tortuoso,
e questo non facilita la comprensione; ma ciò non spiega lo sconcertante
atteggiamento di disistima da parte di molti. Così come non è
solo la bellezza dello stile - innegabile - che possa spiegare come la Lettera
sull'umanismo di Heidegger, bella, affascinante, ma contenente un messaggio
quello sì totalitario e antidemocratico, abbia "sedotto" per
anni, a sinistra e a destra.
Infine un'ultima notazione: Todd ironizza sulla mancanza di rapporti sessuali
tra Sartre e Simone de Beauvoir. Una notazione scherzosa che richiede però
di essere commentata in quanto, pur nella sua irrilevanza filosofica, offusca
un profondo pensiero di Sartre. Per il nostro l'attività sessuale coinvolge
l'essere umano nella sua interezza: significa scegliersi come desiderio e scegliere
di vivere in un mondo di desiderio, nel quale "fare" sesso, è
un evento particolare. E se, sempre secondo Todd, essi, per questa mancanza,
"non erano una coppia", questo non poteva che far piacere a Sartre,
il quale ha visto nella assillante ricerca della "definizione" dei
momenti belli della vita ("che cosa sei per me?", "siamo una
coppia? ", ecc.), la causa principale della sconfitta dei rapporti umani. |