Intendo proporre una lettura de La trascendendance de l’Ego (1936)
che abbia di mira un confronto pensante con il modo in cui Jean-Paul Sartre
affronta la questione del Je , del Moi , dell’Ego
e della coscienza. E’ possibile ricavare da questo giovane Sartre –
qui radicalmente decontestualizzato dalle sue fonti dirette (eccetto Edmund
Husserl) e anche isolato dallo sviluppo del suo pensiero - elementi teorici,
spunti filosofici se si vuole, che valgano allo scopo di ‘utilizzarlo’
per la edificazione di quella teoria della soggettività a cui dedico
da qualche tempo una parte delle mie energie. Mi atterrò alla traduzione
italiana del testo curata nel 1992 da Rocco Ronchi e mi limiterò all’
analisi di gran parte del primo capitolo intitolato L’Io e il Me ( cfr.
La trascendenza dell’ego, tr.it, Milano 1992, pp.17-33). Rifletterò
in questa sede sulle prime due sezioni del primo capitolo del saggio sartiano.
Tale scelta mi è imposta dalla natura della cosa, ossia dalla estrema
complessità dell’argomentare giovanile sartiano, dalla genialità
del suo progetto, che definirei post-fenomenologico, e dunque dall’obbligo
di evitare il “sorvolo” sintetico con il quale non di rado si affronta
il pensiero di questo grande filosofo. Basta un semplice sguardo alle pagine
del saggio del 1936 per capire che esso sfida il lettore non solo dal punto
di vista ristretto che chiede conto della maggiore o minore fedeltà di
Sartre alle fenomenologia husserliana – ciò che pure merita grande
attenzione – , ma dalla più ampia prospettiva dei problemi che
la tradizione filosofica occidentale non soltanto moderna ha messo al centro
della propria tematica, da quello del natura dell’Io penso e del pensare
in genere, al rapporto ontologico e predicativo di tale pensare con un Io del
pensiero, a quello della riflessività e della natura riflessiva o non
riflessiva della coscienza. Molto del pensiero del Sartre maturo trova il suo
fondamento filosofico in queste pagine , alle quali si deve riservare lo studio
paziente e micrologico che ogni testo intensamente teoretico richiede. Un commento
complessivo del saggio non è previsto in questa sede. Deve anche avvertire
non ho potuto studiare con la dovuta attenzione l’importante saggio di
Vincent de Coorebyter, Sartre face à la phénoménologie.
Autour de “L’intentionalité” e de “La trascendance
de l’Ego” , Paris 2000, ma ritengo di poter trovare spunti interpretativi
convergenti con le mie tesi specialmente nel cap. 7, L’aporie de l’irréfléchi.
La scelta essenziale consiste nel sottoporre ad analisi critica la nozione di
coscienza irriflessa, vista quale metro e criterio che consente di definire
l’Ego come unità noematica della coscienza riflessa, suo oggetto
intenzionale. Sartre prende le mosse dalla confutazione della tesi secondo cui
l’Ego “abita” la coscienza. Egli ritiene che l’Ego non
sia nella coscienza né in senso formale né in senso materiale,
perché esso piuttosto è “nel mondo”, in quanto è
appunto “l’Ego dell’altro”. Kant riteneva, com’è
noto, che “l’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni”.
La problematica che Sartre propone anzitutto concerne il punto se non debba
essere distinta la questione “di fatto” dalla questione “di
diritto” dell’accompagnamento da parte dell’Io di tutte le
mie rappresentazioni. Dato che Kant non s’è chiesto come si costituisca
di fatto la coscienza empirica, e dato che , inoltre, per lui la coscienza trascendentale
è soltanto l’insieme delle condizioni necessarie ‘di diritto’
alla esistenza di una coscienza empirica, ogni “realizzazione” fattuale
dell’Io trascendentale quale accompagnatore risulta del tutto esclusa.
E’ interessante notare che il fenomenologo sui generis Sartre non si accontenta
di mostrare che l’espressione “deve poter accompagnare” pone
una questione di solo diritto. Una volta affermato che la coscienza trascendentale
pone le condizioni “di diritto” dell’unificazione della rappresentazioni
mie e che dunque nessun Io trascendentale deve essere realizzato, resta aperta
ai suoi occhi la questione “di fatto”. La soluzione trascendentale
rischia di lasciare aperta la possibilità che “di fatto”
l’Io penso trascendentale accompagni invece le rappresentazioni. In questo
caso, il fantasma di un Io trascendentale che sia la “struttura”
della coscienza assoluta torna ad affacciarsi. Kant , insomma , non sembra contribuire
alla liquidazione dell’Io trascendentale, poichè all’interno
della sua posizione l’Io sembra destinato a residuare nella nostra coscienza,
o come ciò che è reso possibile dalla unità sintetica delle
nostre rappresentazioni, o, inversamente , come ciò che rende possibile
tale unità
Qui Sartre introduce il riferimento ad Husserl. Ma prima di soffermarci sul
secondo passaggio della sua argomentazione, osserviamo che la decostruzione
dell’Io trascendentale non si risolve nella semplice constatazione che
quel che chiamiamo “coscienza trascendentale” non impone alcuna
realizzazione dell’Io. Lo sguardo fenomenologico vuole infatti sapere
come avvenga la costituzione della unità sintetica e se per caso qui
non si torni ad incontrare il “fatto” dell’accompagnamento
delle rappresentazioni da parte di un Io. Dissolto nel suo fungere come insieme
delle condizioni di possibilità dell’unità sintetica, l’Io
rischia indubbiamente di resistere come “esistenza fattuale dell’Io
nella coscienza”. Insistiamo su questo punto perché intendiamo
sottolineare quel che è peraltro esplicito, ossia che Sartre propone
una riflessione sull’Io che si configura essenzialmente come una ‘battaglia
contro l’Io’, ossia come un procedimento di dissoluzione di ogni
‘effetto di ingombro’ che l’Io eserciterebbe in quanto fosse
nella coscienza. Dunque Sartre punta alla costituzione di un campo trascendentale
“senza Io” (sempre che di “campo trascendentale” sia
ancora possibile parlare). Non sarà difficile mostrare che la purificazione
della coscienza dalla presenza dell’Io, che Sartre persegue, finirà
per conseguire il risultato paradossale che di una soggettività coscienziale
assolutamente pura potrà parlarsi solo a patto di indicare che essa deve
essere riempita dalla oggettività che essa intenziona. Se tuttavia le
cose stanno così, quale mai senso si deve assegnare ad una nozione di
intenzionalità che sembra doversi risolvere nel suo oggetto noematico
(non l’odio per Pietro, ma Pietro che deve essere odiato, secondo l’esempio
fornito da Sartre stesso di tale intenzionalità priva della strutturale
correlazione noetico-noematica)? E , d’altra parte, quale legittimità
riusciamo ad assegnare alla nozione di una coscienza che , per essere radicalmente
“senza Io”, deve presentarsi nella sua assoluta “irriflessività”?
Quale legittimità possiamo assegnare ad una nazione di “irriflessività”,
che si istituisce per via negativa? Come si configura, nella sua pretesa di
originarietà, una coscienza che si definisce piuttosto attraverso la
presa di distanza negativa, dunque attraverso un ‘riflessione negativa
ed escludente’, dalla riflessività stessa?
Sembra si debba ammettere che la battaglia di Sartre contro l’Io prenda
le mosse da una presupposizione e da una negazione inevitabilmente logica dell’Io
stesso. Il che significherebbe che Sartre prende lo mosse dalla tesi kantiana
del necessario accompagnamento delle “mie” rappresentazioni da parte
dell’Io penso, non in virtù di una sorta di arbitraria e modificabile
scelta del punto di attacco della sua argomentazione, ma al contrario perché
è dall’”Io penso” kantiano che si deve partire, per
mirare a decostruirlo. La decostruzione dell’”Io penso”, tuttavia,
oltre che apparire augurabile alla edificazione di una filosofia dell’autotrascendimento
della coscienza, della esistenza come oltrepassamento, quale è quella
che Sartre si propone di realizzare, risulta anche in sé pienamente realizzabile
e giustificabile? E ancora, riassuntivamente, è pensabile una fenomenologia
senza un Io puro trascendentale, a cui fanno capo trascendentalmente tutte le
sintesi attive e passive della coscienza costituente? Sartre intende collocarsi
fuori e contro la tradizione del criticismo trascendentale kantiano? Ma , nel
far questo, non vulnera forse anche una delle premesse fondamentali della fenomenologia
husserliana? E’ un fatto meritevole di segnalazione che l’attacco
a Kant e la critica a Husserl siano compresenti nel saggio sartiano del 1936.
Certo, Sartre ha ragione nel sostenere che la fenomenologia consente di affrontare
con assai maggiore consapevolezza “il problema della esistenza di fatto
dell’Io nella coscienza”. La fenomenologia è un sapere delle
“cose” stesse nella loro “fattualità” (nel senso
per cui esse sono “essenze” che fattualmente si impongono nella
loro originaria datità alla sguardo dell’Io costituente, come Sartre
stesso precisa).. Colta attraverso l’epoché husserliana , la coscienza
trascendentale kantiana viene incontrata di nuovo, ma essa non è più
né una ipotesi di diritto, né un insieme di condizioni logiche.
Essa è un “fatto assoluto” , che in quanto tale azzera la
questione della natura “fattuale” o non fattuale dell’accompagnamento
delle “mie” rappresentazioni. Il problema dell’essere l’unità
dell’Io penso analitica o sintetica non sussiste più. Essa sta
integralmente nella riduzione, non serve alla sintesi della conoscenza.
Sartre coglie molto bene la questione che qui ci interessa rilevare. E’
nel passaggio oltre Kant che la fenomenologia husserliana mette a tema in modo
radicalmente nuovo la questione dell’Io e della soggettività. E’
dunque della massima importanza la circostanza che proprio qui, in questo punto
di origine della tematica post-metafisica dell’Io, Sartre faccia convergere
la forza iniziale della sua critica. Da un lato, egli accetta la nozione husserliana
di “coscienza costituente” il mondo e “imprigionantesi”
(così scrive) “nella coscienza empirica”. Accetta altresì
che la collocazione esterna, oggettiva e trascendente del nostro Io empirico
psico-fisico debba essere ridotta. Ma poi si chiede se sia necessario accompagnare
l’Io empirico “con un Io trascendentale, struttura della coscienza
assoluta”. E si pone questa domanda , cui ritiene si debba dare una risposta
negativa, non per farsi difensore dell’Io psico-fisico, ma perché
vuole mostrare che , essendo la coscienza quel “che rende possibile l’unità
e la personalità del mio Io”, “l’Io trascendentale
non ha perciò ragione d’essere”. La condizione di questo
cruciale passaggio che sostituisce la funzione di una certa coscienza al ruolo,
svelatosi superfluo, dell’Io, è che si definisca la natura “irriflessa”
della coscienza stessa. A questo compito Sartre si dedica prima di passare al
punto B della sua argomentazione nel primo capitolo del saggio in cui viene
messo a tema Il Cogito come coscienza riflessiva. Di tanto si mostra rilevante
la nozione di coscienza “di primo grado o irriflessa”, di altrettanto
si svaluta il diritto fenomenologico di un Io trascendentale di porsi come interno
alla coscienza, di affiancarsi ad essa: di essere , lui e non altro, il punto
di attacco di una ricerca sull’Io stesso. Domandarsi dunque se vi sia
e quale possa essere una via di possibile confronto critico sulla nozione del
non-riflessivo diviene a tutti gli effetti essenziale per mettere a confronto
una teoria della soggettività con le tesi sartriane.
La risposta negativa alla domanda se il moi empirico psico-fisico
debba essere accompagnato dall’Io trascendentale , forma strutturale della
coscienza assoluta, conduce a conseguenze rilevanti. La prima soprattutto lo
è, in quanto espone la convinzione sartriana che l’Io penso possa
accompagnare le rappresentazioni solo sulla base della sua scomparsa come tale,
ossia come originario ed autentico Io penso. L’accompagnamento può
bensì avvenire, ma soltanto a patto di ammettere che esso si staglia
“su uno sfondo di unicità che non ha contribuito a creare”
dato che questa unità che lo precede lo rende in realtà possibile.
L’io penso si impone (si direbbe con una funzione ‘collaterale’
di mera unificazione delle rappresentazioni a fini conoscitivi) sullo sfondo
di una unità che esso non produce, ma che gli è presupposta non
come unità unificante , come sintesi attiva di un Io. L’originarietà
dell’Io è perduta. Sartre pronuncia la sentenza chiave della sua
‘requisitoria fenomenologica contro l’Io’, in virtù
della quale la fenomenologia husserliana finisce per volgersi contro il suo
stesso principio egologico. La critica alla funzione sintetica assegnata da
Kant all’Io penso trapassa senza soluzione di continuità nella
tesi della superfluità del ruolo “unificante e individualizzante”
dell’Io per una coscienza concepita nel senso, che si presume rigorosamente
fenomenologico, che impone di escluderne ogni funzione di facoltà della
sintesi.
Sartre scrive dunque che “il campo trascendentale diviene impersonale
o, se si preferisce , ‘prepersonale’, è senza Io “.
L’Io (je ) diviene la “faccia attiva “ del moi
passivo che insieme all’Io appartiene all’Ego e ne riempie la trascendenza.
La nozione di “impersonalità” occupa una posizione strategica.
“Sarà lecito domandarsi se la personalità (anche la personalità
astratta di un Io) è un accompagnamento necessario di una coscienza e
se si possono concepire delle coscienze assolutamente impersonali”. La
risposta di Husserl a questo problema appare a Sartre diversa nelle Ricerche
logiche, dove il moi risulta essere una produzione trascendente della
coscienza , e nelle Idee , dove si avrebbe il recupero di un Io che sta dietro
la coscienza come la sua struttura, che illumina con i suoi Ichstrahlen ogni
contenuto intenzionato dall’attenzione. Secondo Sartre , che forza nettamente
la tesi husserliana in senso personalistico, la coscienza che fosse sorretta
da tale Io diverrebbe “rigorosamente personale”. Il pericolo della
perdita dell’appena conquistata “impersonalità” e “prepersonalità”
si fa incombente nello stesso Husserl maturo. Vedremo subito, prima di proseguire,
quale ruolo giochi la centralità della nozione di “impersonalità”
nella presa di distanza di Sartre da Henri Bergson. Osserviamo intanto che il
riassunto offerto da Sartre delle Ricerche logiche di Husserl con il dire che
questi ha interpretato il moi come “produzione” trascendente
della coscienza, semplifica non poco la tesi husserliana, in quanto la svuota
di ogni riferimento alla nozione di “atto”.
Nella Quinta ricerca ( cfr. Ricerche logiche, tr. it, Milano 1968,
vol. II, pp. 151-153) Husserl esibisce una nozione di quello che Sartre chiamerebbe
il moi , che fa di quest’ultimo certamente un ‘costituito’dalla
coscienza, ma all’interno di una “complessione” fenomenologica
dell’Io stesso della quale l’Io fisico rappresenta solo il lato
esterno, una “parte” della cosa fenomenologica “Io”
presa nella sua interezza. Sembra difficile ricavare da questo testo la tesi
di una coscienza desoggettivata che produce il suo moi. L’io-corpo
fisico viene messo da parte a vantaggio dell’”Io spirituale”
connesso con il primo. Ridotto alla datità fenomenologica attuale “l’Io”,
scrive Husserl, “esibisce la complessione …di vissuti afferrabili
riflessivamente”. L’Io psichico appartiene alla complessione dei
vissuti esibiti dall’Io. Che lo intenda come moi o come ego,
l’Io passivo , quello che si potrebbe definire l’Io reale, resta
fino a tal punto un ‘costituito’ dall’ Io puro o dalla coscienza
costituente, da appartenere all’insieme dei vissuti dell’Io sui
quali quest’ultimo torna riflessivamente. La complessione dei vissuti
esibita dall’Io si riferisce all’Io psichico (seelisch ) come il
‘lato’ che “cade nella percezione” di una cosa esterna
percepita che si riferisce alla “cosa intera”. Il vissuto intenzionale
nel quale l’Io intenziona il corpo vivo, la persona spirituale “e
quindi l’intero io-soggetto empirico (Io, l’uomo)” è
comprensibile soltanto se si pensa che “alla compagine fenomenologica
complessiva dell’unità di coscienza appartengono anche quei vissuti
intenzionali in cui l’io come …l’intero io-soggetto empirico
(Io, l’uomo), è l’oggetto intenzionale, e inoltre che tali
vissuti intenzionali costituiscono al tempo stesso un nucleo fenomenologico
essenziale dell’io fenomenale”. Sartre si è chiesto se l’io
psichico e psico-fisico non sia in sé fino a tal punto “sufficiente”,
e se non si possa quindi evitare di accompagnarlo con un Io trascendentale,
struttura della coscienza. Husserl aveva già dato una risposta: non si
tratta solo del fatto che l’Io psico-fisico non basta, ma del fatto che
il vissuto intenzionale costituisce il nucleo fenomenologico dell’io fenomenale.
Senza la compagine fenomenologica dell’unità complessiva di coscienza
, non si avrebbero neanche i vissuti intenzionali in cui l’Io si presenta
come “Io-soggetto empirico”. Osservata da questa prospettiva , l’operazione
tentata da Sarte sull’Io si basa su un duplice movimento argomentatativo.
Da un lato, si ha la sottrazione all’ Io della sua funzione costituente
in quanto funzione di un Io trascendentale (si tratta del punto che abbiamo
visto sopra, quando abbiamo osservato il passaggio senza soluzione continuità
tra la critica all’Io penso di Kant e la critica all’Io soggetto
dei suoi atti intenzionali di Husserl). Dall’altro lato troviamo che quel
che Sartre chiama la produzione del moi da parte della coscienza si
priva della sua stessa giustificazione fenomenologica , in quanto le viene a
mancare il polo noetico dell’atto intenzionale che intenziona (“produce”
nel linguaggio di Sartre) l’io empirico psico-fisico. Manca dunque a Sartre
la nozione di coscienza (la terza nozione di cui si parla nelle pagine della
Quinta ricerca): quella nozione assolutamente centrale per cui essa
risulta definita “proprio dagli atti o dai vissuti intenzionali”
Husserl dà sviluppo nel modo seguente alle tesi che ha preannunciato
(cfr. Ricerche logiche, cit., p. 152).
Il terzo concetto di coscienza è costituito dagli atti o dai vissuti
intenzionali. Tentare di disconoscere gli atti o vissuti intenzionali equivale
a non voler riconoscere che l’essere-oggetto in termini fenomenologici
consiste negli atti in cui qualcosa si manifesta o viene pensato come oggetto.
E’ questa circostanza – ossia l’ammissione della nozione di
atto o di vissuto intenzionale – che consente di capire, inoltre, che
l’essere-oggetto può a sua volta diventare oggettuale, ossia che
“ci sono degli atti che ‘si dirigono’ verso il carattere peculiare
degli atti in cui qualcosa si manifesta; oppure ci sono degli atti che si dirigono
verso l’io empirico e il suo riferirsi all’oggetto”. In questo
modo emerge il “nucleo fenomenologico” dell’Io empirico: attraverso
il suo divenire oggetto di atti intenzionali che fanno di esso Io empirico l’oggetto
intenzionale, quest’ultimo si manifesta come tale che in lui avvengono
atti che “portano gli oggetti alla sua coscienza” poiché
in essi “l’Io ‘si dirige’ verso l’oggetto in questione”.
Non si vorrebbe anticipare troppo. Ma non sembra azzardato ipotizzare che Sartre
deformi gravemente la fisionomia dell’Io fenomenologico husserliano in
quanto gli sottrae la caratteristica essenziale di atto o di vissuto intenzionale
che si dirige ad un contenuto o ad un oggetto. L’Io sartriano è
un Io senza oggetto intenzionale. La sua struttura viene esplicitamente respinta
come superflua qualora si intenda definire la funzione costituente della coscienza,
esattamente per il motivo che Husserl ha segnalato. E’ necessario capire
che l’”essere oggetto” di ciò cui il vissuto intenzionale
dell’Io si riferisce deve poter diventare oggettuale, ossia deve poter
divenire tematico il riferirsi stesso. Solo in questo modo il nucleo fenomenologico
dell’Io empirico che si dirige sul suo oggetto diviene visibile e dicibile.
Non basta: solo così, cioè solo distinguendo tra atti che si dirigono
sugli atti peculiari in cui qualcosa si manifesta, e atti che si dirigono verso
l’Io empirico e il suo riferirsi al suo oggetto, si incontra la necessità
che l’atto di un Io trascendentale costituisca un Io empirico –
che senza quell’atto costituente resterebbe del tutto gratuito in termini
fenomenologici. L’essere atto dell’Io empirico che si riferisce
ad un oggetto viene legittimato dal sua essere oggetto di un ‘precedente’
atto costituente. Una semplice riflessione sulla necessità che la coscienza
si liberi dell’Io riconoscendo la “impersonalità” incombente
o immanente in questa ‘coscienza senza Io’ non basta a definire
come “fenomenologico” questo procedimento. Accade infatti che insieme
alla assoluta originarietà dell’atto costituente di un Io trascendentale,
vada perduta la dimensione della trascendentalià in quanto tale. Trascendentale
è infatti in Husserl la circostanza essenziale che un atto di si diriga
su…, ossia intenzioni atti che manifestano l’oggetto, oppure si
diriga su atti di un Io empirico che anch’esso si dirige sull’oggetto
– ma del quale si parla in termini fenomeologici soltanto sulla base del
‘raddoppiamento’ regressivo dell’atto che Sartre sembra trascurare
del tutto.
Sartre, lo ripetiamo, punta alla costruzione di una coscienza senza Io. Si
muove nella prospettiva che implica il disconoscimento della tesi husserliana
che “l’atto è il riferirsi della coscienza o dell’Io
all’oggetto” ( ivi, p. 166). Incontriamo qui un punto assolutamente
centrale per la riflessione sulla ‘coscienza senza Io’ di cui Sartre
parla nella prima parte della Trascendenza dell’ego . Husserl sostiene
infatti che alla negazione di un “Io puro come centro di riferimento”,
costantemente identico, “punto essenziale di unità”, deve
corrispondere la tesi per cui noi “viviamo nell’atto corrispondente”.
Quello che non possiamo ammettere è che , guardando a ciò che
accade nel vissuto-atto, l’Io si riferisca all’oggetto “mediante
l’atto o in esso”. In questo modo, infatti, tra la coscienza, da
un lato, e la cosa cosciente sussisterebbe un relazione reale (real) , e l’Io
come polo dell’identità unificante ‘starebbe nell’atto’.
E’ di questo Io , di questa coscienza , che si suppone entrino in rapporto
“reale” con l’oggetto, che si deve negare la legittimità.
Quel che succede nel vissuto-atto è invece proprio la scoperta dell’irrilevanza
dell’Io come “punto di riferimento” degli atti compiuti. Soltanto
se la rappresentazione “si effettua realmente e si pone in unità
con l’atto corrispondente, ‘noi’ ‘ci’ riferiamo
all’oggetto in modo tale che a questo riferirsi all’Io corrisponda
qualcosa che possa essere mostrato descrittivamente”. Solo in questo caso
la “rappresentazione-Io” resta a disposizione. L’Io “non
rappresenta per noi null’altro che l’ ‘unità di coscienza’,
ciascun ‘fascio dei vissuti’, o anche , ma in una formulazione empirica
e naturale, l’unità continua, cosale, che si costituisce intenzionalmente
nell’unità di coscienza come soggetto personale dei vissuti”.
Sartre, dicevamo, ritiene che nessuno motivo giustifichi la trasformazione,
autorizzata secondo lui da Husserl stesso contro le sue migliori intenzioni
fenomenologiche, della coscienza trascendentale in un soggetto personale. Abbiamo
appena visto la difficoltà di attribuire la natura di soggetto personale
all’Io dell’atto vissuto come tale, di cui Husserl parla nella Quinta
ricerca. Si tratta di una difficoltà cui Husserl fornisce la risposta
‘costituente’ che abbiamo appena visto. La fenomenologia, secondo
Sartre, non ha bisogno di ricorrere ad un Io “unificatore e individualizzante”,
grazie alla cui operazione di rapportamento alla mia coscienza di tutte i miei
pensieri e percezioni , la coscienza stessa risulti unificata - e , ad esempio,
Pietro e Paolo, possessori ciascuno della propria coscienza, si distinguono
tra loro. L’immagine che Sartre offre della coscienza husserliana presenta
una duplice caratteristica. La prima, quella in virtù di cui la coscienza
si definisce “attraverso l’intenzionalità” è
in realtà schiettamente husserliana. L’altra , che imporrebbe di
riconoscere che “attraverso l’intenzionalità essa si trascende,
si unifica sfuggendo a stessa”, lo è assai meno. Sartre intende
dire che è l’oggetto trascendente intenzionale (nell’esempio
:”due più due fa quattro”) ciò che unifica tutti gli
atti di coscienza in cui , ripetendomi infinite volte, aggiungo due a due per
avere quattro. E’ ben vero che un principio trascendentale soggettivo
di unificazione, costituito dall’Io, dovrebbe essere evocato se l’oggetto
(“due più due uguale quattro”) fosse il “contenuto”
della mia rappresentazione. Ma è altrettanto vero che , diversamente
da quel che pensa Sartre, l’oggetto non è trascendente rispetto
alla coscienza che lo coglie ed è dunque difficile sostenere che in esso
la coscienza trovi la sua unità.
Che l’oggetto sia intenzionale per una coscienza significa appunto che
esso non è trascendente, perché l’oggetto che chiamiamo
“reale” e trascendente viene costituito come tale dall’atto
della coscienza intenzionale, per il quale esso non è un contenuto immanente
in attesa di unificazione . Husserl è esplicito su questo punto proprio
nella pagine delle Ricerche logiche che abbiamo citato. Ciò sembra destinato
a confutare sia la tesi sartriana che la coscienza “sfugga a se stessa”,
sia che essa trovi nell’oggetto trascendente la sua unità. L’io
unificante manca anche nella prospettiva husserliana, ma per il motivo che io
e coscienza si risolvono nell’Erlebnis del loro essere “atti”,
ai quali manca la caratteristica kantiana di svolgere una funzione unificante
propria di una facoltà della sintesi. Sartre sembra trascurare questo
punto .Egli trova una conferma della propria convinzione anche dalla circostanza
che Husserl non abbia fatto ricorso “a un potere sintetico dell’Io”
neanche nelle lezioni sulla Coscienza interna del tempo, dove piuttosto la “coscienza
si unifica da sé e in modo concreto attraverso un gioco di intenzionalità
‘trasversali’”. Ne consegue che l’Io può essere
solo un’ “espressione”, non una “condizione” della
coscienza e che è la coscienza a rendere possibile la personalità
del mio Io, non viceversa. Si ribadisce così la tesi della “impersonalità”
della coscienza. Una tesi che potrebbe essere legittimamente rivolta contro
Husserl, se questi avesse effettivamente pensato all’Io come ad una entità
personale, piuttosto che come alla soggettività propria di un atto vissuto.
Il minimo che si possa dire è che la tesi sartriana sull’Io si
afferma attraverso una deformazione della teoria husserliana della soggettività
Non mi interessa indagare qui il senso dello “sfuggire a se stessa”
della coscienza, ossia della tesi che segnala forse il punto più netto
del di stanziamento di Sartre da Husserl. Si può soltanto avanzare l’ipotesi
che un Io fondamento della coscienza rappresenti un ostacolo insormontabile
per la volontà di tener ferma la tesi che tende ad equiparare natura
trascendentale e costitutivo sfuggimento a se stessa della coscienza –
e che ciò costituisca un motivo in più per negare l’Io trascendentale.
Importa piuttosto ribadire con Florence Caeymaez (Sartre, Merleau-Ponty, Bergson.
Les phénoménologies existentialistes et leur héritage
bergsonien, Hildesheim,Zürich, New York 2005, pp. 47-48) che l’impersonalità
è la chiave teorica della Transcendance de l’Ego. E’ ben
evidente che la nozione di “irriflessività”, sulla cui potenziale
aporeticità abbiamo richiamato l’attenzione all’inizio e
che si accinge a divenire il punto critico nodale della Transcendance, è
strettamente correlata alla nozione di “impersonalità” della
coscienza , e condivida con quest’ultima il destino di dire il contrario
di quel che dice, in quanto anch’essa riesce a definirsi per via negativa,
attraverso l’esclusione di quella nozione di personalità che essa
è comunque costretta a presupporre. Non si obietti che si tratta di semplici
necessità linguistiche . L’obiezione non sembra capace di difendere
una filosofia che compie il suo primo passo non riprendendo , sia pure criticamente,
la nozione di “evidenza”, ma proponendosi di realizzare un vero
proprio attacco all’Io.
Nella difesa della “impersonalità” della coscienza, Sartre
realizza una radicale presa di distanza da Henri Bergson, osserva la Caeymaez.
E’ ben vero che Bergson va in cerca di una nozione di “spontaneità
vissuta”, di una “libertà più originaria”, ma
secondo Sartre entrambi sono identificate ad un moi rigorosamente personale.
Il Saggio sui dati immediati della coscienza presenta una concezione
della “durata” come serie totale degli stati di coscienza. Proprio
nella Transcendance, Sartre rileva che la spontaneità della
coscienza è in Bergson una “pseudo-spontaneità” e
che la sua spontaneità-libertà descrive un oggetto e
non una coscienza. Quando Bergson scrive che libertà concreta è
il rapporto del moi concreto all’atto che compie e che siamo
liberi quando i nostri atti emanano dalla nostra personalità intera e
l’esprimono, proprio la circostanza che questa affermazione implichi la
difesa della qualità contro la quantità, della “durata concreta”
contro la “durata simbolica” (cfr. H:Bergson , Saggio sui dati
immediati della coscienza, tr. it., Milano 2002, p. 151) comporta che la
distanza rispetto a Sartre si radicalizzi, perché “la tesi dell’impersonalità
del campo trascendentale costituisce l’ossatura del saggio” sartriano.
“Se la personalità, che ricava le sue caratteristiche dallo psichico,
finisce per Sartre nell’oggettività, mentre la coscienza pura è
anonima, per Bergson all’opposto l’oggettività è impersonale:
far entrare i nostri stati di coscienza nella corrente della vita sociale, cioè
oggettivarli, significa disindividualizzarli, o piuttosto desingolarizzarli”.
L’Io trascendentale, qualora ne fosse ammissibile l’esistenza, condurrebbe
alla fine la coscienza che , in quanto assoluto, è solo “coscienza
di se stessa”, attuantesi tuttavia come “coscienza di un oggetto
trascendente”. La presenza di un Io, che Sartre concepisce come una sorta
di corpo reale estraneo capace solo di rendere la coscienza opaca a stessa ,
renderebbe inconcepibile la proiezione in avanti in cui la coscienza stessa
consiste. E’ molto importante osservare che , mentre l’opacità
dell’oggetto della coscienza non turba la sua piena trasparenza (“tutto
è chiaro e lucido nella coscienza”), poiché la trasparenza
dovrebbe essere e restare assicurata dalla circostanza per cui essa è
“coscienza della coscienza” del suo oggetto, l’ipotesi dell’innesto
in lei di un Io ne segnerebbe invece la fine. Il potere distruttivo della trasparenza
coscienziale che non viene riconosciuto all’oggetto della coscienza ,
lo viene riconosciuto invece senza esitazioni al soggetto. Sartre non si limita
a rilevare che la coscienza che si accinge a definire “irriflessa”
troverebbe nell’io trascendentale un inutile raddoppiamento, ma è
convinto della “nocività” per la coscienza della presenza
in lei della “lamina opaca” di un Io. La definizione della “coscienza
irriflessa” come non “posizionale” , ossia come tale da non
rendere sé oggetto di se stessa, è determinante per spiegare la
ragione della asimmetria della posizione di Sartre verso l’Io e verso
l’oggetto. Il primo infatti gli appare a tutti gli effetti come una soggettività
cosale che intorbida la trasparenza della coscienza, esattamente per il motivo
per cui l’oggetto della coscienza irriflessa non le appartiene come tale,
essendo piuttosto un oggetto esterno che la coscienza “pone” e “coglie”
in un medesimo atto. Se quella della ‘coscienza della coscienza di un
oggetto’ fosse una tesi ammissibile, allora la coscienza verrebbe distrutta
dal suo divenire oggetto. Ma questo non accade appunto perché il rapporto
della coscienza non “posizionale” con l’oggetto non interrompe
la sua assoluta “interiorità”.
Si noterà agevolmente che questa mossa di Sartre comporta due conseguenze
importanti e rischiose. Da un lato, la reintroduzione in chiave nettamente antihusserliana,
perché al fondo antifenomenologica, della distinzione tra ‘esterno’
ed ‘interno’ e l’assegnazione alla coscienza di una internità,
ossia di un suo ‘spazio’ immanente.. Dall’altro lato, tale
internità o interiorità deve essere concepita come rigorosamente
vuota, affinché si possa sostenere che l’oggetto viene “posto”
e “colto” nella stesso atto, e dunque venga lasciato come un ente
esterno alla coscienza. Ora, circa la distinzione tra “porre” e
“cogliere” l’oggetto, si dovrà pur chiedere a Sartre
una spiegazione che vada al di là della esigenza evidente per lui di
respingere sia la tesi hegeliano-fichtiana ed idealistica in genere che l’oggetto
sia appunto un “posto”, sia anche la tesi che la coscienza colga
un oggetto in qualche modo ‘trovato’. Che Sartre usi l’endiadi
del “porre” e del “cogliere” segnala con evidenza sia
una difficoltà , sia la volontà di uscirne, mantenendo all’oggetto
la fisionomia di polo di una relazione con la coscienza, che tuttavia non dovrebbe
essere ‘affetta’ da tale relazione. Ma il doppio porre e cogliere
non risolve il problema della coerenza di una coscienza che deve essere al tempo
stesso interiorità assoluta, relazione con un oggetto esterno, e negazione
di una qualsiasi relazione con un oggetto (ivi compresa se stessa): una negazione,
quest’ultima, che è necessario supporre se si vuole che l’interiorità
sia tenuta ferma. Ma, d’altra parte, osservando la questione dal punto
di vista della soggettività, come sarebbe possibile negare la relazionalità
della coscienza ad un oggetto senza implicitamente ammettere che un soggetto
non si relaziona ad un oggetto che gli resta esterno, salvaguardando in questo
modo la sua purezza interiore? Si potrà decidere di non dare a questo
soggetto il nome di ‘Io’, ma la funzione che un Io mantiene nel
suo essere soggetto di giudizi positivi o negativi appare destinata a non scomparire.
Per questo motivo si diceva sopra che la nozione sartriana di “coscienza
irriflessa” costituisce un problema arduo per una filosofia che intenda
sbarazzarsi dell’Io. Il fascino al tempo stesso antisoggettivistico e
antioggettivistico che promana dalle pagine sartiane è indubbio. L’Io
è solo un qualcosa per la coscienza e non della coscienza. E’ un
suo abitante personale , che per quanto formale, ne opacizza la trasparenza,
ne turba la spontaneità, la fa degenerare in senso sostanzialistico.
Il Cogito husserliano è un autentico fenomeno in cui essere ed apparire
coincidono, ed è perciò molto diverso dal Cogito cartesiano. La
nozione di Io come “monade” che Sartre vede presente in quello che
per lui è il “nuovo” Husserl, sottrae alla esistenza della
coscienza la sua caratteristica “inesistenza” ed impedisce di pensare
l’Io come un elemento del mondo , esistente per la coscienza. Resta tuttavia
aperta, nel momento in cui si passa all’esame del “Cogito come coscienza
riflessiva”, la questione se la condizione stessa del darsi di un Io per
la coscienza non derivi dall’ammissione della natura egologico-trascendentale
della coscienza stessa. Se, vogliamo dire - e pur lasciando questa osservazione
critica priva di contaminazioni dialettiche – la riflessività non
sia la condizione trascendentale della irriflessività.
L’analisi del Cogito ruota esattamente su questo punto e stabilisce tra
riflessività e irriflessività un rapporto complesso che deve essere
esaminato accuratamente (cfr. La trascendenza dell’ego, cit.,
pp.25-33). Il punto che deve essere ribadito da parte di Sartre si riassume
nella convinzione che “la riflessione modifica la coscienza spontanea”,
la quale , in quanto coscienza irriflessa non ospita in sé alcun Io –
senza che questo punto possa essere visto come contraddittorio rispetto all’altro,
che in queste pagine viene specificamente preso di mira, per cui è innegabile
“che l’Io appaia in una coscienza riflessa”. Ma , se è
vero che la riflessione modifica la coscienza spontanea, mentre da un lato non
è consentito contrapporre “la presenza dell’Io nella coscienza
riflessa” alla assenza dell’Io nella coscienza irriflessa, resta
fermo che è a quest’ultima che deve essere rivolta l’attenzione,
perché tra le due non sussiste un rapporto di equivalenza. La coscienza
permane nella sua natura non posizionale originaria grazie a cui essa è
cosciente di se stessa senza trasformarsi in coscienza riflettente in quanto
non si pensa mai “come oggetto di se stessa”. Sartre ha ben presente
il tipo di obiezione che gli abbiamo rivolto (l’irriflesso è tale
rispetto ad un riflesso, che lo mostra come irriflesso, e dunque la riflessione
è originaria ed implica la presenza di un io trascendentale capace di
riflessione).Non lo si coglie dunque impreparato. Ma resta a suo carico il compito
di dimostrare che si possa sostenere che la “coscienza riflettente”
non serve alla “coscienza di se stessa”: solo in base a tale chiarimento
il “di se stessa” cesserebbe di essere riflessivo e di implicare
la presenza di un soggetto-Io trascendentale. Il nucleo della possibile dimostrazione
della validità della operazione in questo secondo passaggio del saggio
sta esattamente nella ammissione che “non c’è una delle coscienze
che io non colga come provvista di un Io”, dato che ogni volta che cogliamo
un Io che è l’Io del pensiero colto e che si dà, abbiamo
di fronte un Io “trascendente questo pensiero” ed ogni pensiero.
Ma questa è una operazione riflessiva “di secondo grado”,
che scopre il Cogito dirigendosi sulla coscienza, ossia assumendo la coscienza
“come oggetto”. Si assuma pure che l’assoluta certezza del
Cogito promana dalla indissolubile unità della coscienza riflettente
e della coscienza riflessa. Al punto che (si tratta del cuore della nostra obiezione)
la coscienza riflessa suppone una coscienza che si riflette. Ciò comporta
l’ammissione di una egologia riflessiva quale elemento originario. Il
principio della fenomenologia è salvo: “Ogni coscienza è
coscienza di qualcosa”. Ma esattamente a questo punto si colloca la pretesa
teorica di Sartre di fornire la dimostrazione che l’intenzionalità
è salvaguardata anche quando si distingua tra una coscienza riflettente
che , realizzando il Cogito, “non assume se stessa per oggetto”
(perché l’atto riflessivo si dirige sulla “coscienza riflessa”),
e una coscienza riflettente che sia soltanto coscienza di sé e dunque
“coscienza non posizionale”.
Fino a che punto è legittima tale pretesa? Risulta molto difficile
capire – se non sulla base della presupposizione di una nozione di coscienza
che sfugge in via di principio ad ogni analisi critica – come possano
convivere la funzione riflettente della coscienza e il suo essere non posizionale.
Appare legittimo il dubbio che Sartre proceda servendosi di una nozione presupposta
ed ipertrofica di Io o di soggetto, che egli si preoccupa tuttavia sistematicamente
di nascondere affinché non venga allo scoperto come quella fonte originaria
della spontaneità che egli chiama “coscienza non posizionale”.
Ma tale operazione si configura come tutt’altra rispetto a quella che
dovrebbe condurre alla esibizione di una coscienza “senza Io”. Sartre
sostiene che la coscienza di sé, non posizionale e riflettente “diviene
posizionale solo intenzionando la coscienza riflessa, la quale , anch’essa
, non era coscienza posizionale di sé prima di essere riflessa”:
“ogni coscienza riflettente è…in se stessa irriflessa e occorre
un atto nuovo di terzo grado per porla”. Ma come si concilia questa tesi
con l’altra che subito segue ? Secondo questa ulteriore tesi, si dà
una sorta di sospensione estrema dell’intenzionalità riflessiva,
capace di fermarsi ‘al di qua’ della realizzazione del Cogito, ma
che resta pur sempre necessaria affinché divenga possibile distinguere
tra una coscienza riflessa colta ‘prima’ del suo essere riflessa,
e dunque quando resta ancora irriflessa, e una coscienza riflessa pienamente
divenuta tale, quando il vissuto oggettivante ha compito il suo percorso. Quelli
che chiamiamo impropriamente i momenti del ‘prima’ e del ‘dopo’
costituiscono a tutti gli effetti i poli della relazione intenzionale. Ma Sartre
si accorge della difficoltà che deriva dalla stessa ammissione non già
di una coscienza riflessa, ma di una coscienza “riflettente”, e
dopo aver osservato che “la coscienza che dice ‘Io penso’
non è propriamente quella che pensa”, perché “non
è il suo pensiero che essa pone attraverso questo atto tetico “,
giunge ad un punto conclusivo della sua argomentazione che rovescia il già
detto. Dopo aver concesso autonomia alla coscienza riflettente, gliela nega
radicalmente: “Ogni coscienza riflettente è infatti in sé
stessa irriflessa e occorre un atto nuovo di terzo grado per porla. Non c’è
peraltro qui un rinvio all’infinito perché una coscienza non ha
per nulla bisogno di una coscienza riflettente per essere cosciente si se stessa.
Semplicemente non si pone a se stessa come il suo oggetto”.
D’altra parte, si potrebbe chiedere a Sartre come sia possibile una esibizione
fenomenologica della circostanza per cui l’atto tetico del pensare proprio
di una coscienza che dice “Io penso” rinvia non solo ad un atto
non tetico, ma ad un pensare che resta di una coscienza, ma non di quella che
lo dice e lo pensa. Come si può parlare di una coscienza che dice “Io
penso”, ma non è propriamente lei a pensare, senza che intervenga
un Io che dall’esterno di tale coscienza anonima e impersonale, che pensa
ma non può affermarlo, le assegna una qualche forma di soggettività,
consentendole di dire “Io penso”? Si può persino eliminare
la riflessività, ma non è possibile, sembra , cancellare quel
che fa di una coscienza anonima e irriflessa, appunto quello che essa è,
una coscienza anonima e irriflessa. In questo modo lo ‘è’
che ne definisce l’identità reintroduce comunque la riflessività
pensante, che poggia sullo sdoppiamento predicativo di soggetto e predicato.
La coscienza irriflessa appare ad un certo punto dell’analisi. Nell’atto
di ricordare la mia precedente lettura di un libro, gli oggetti di quell’atto
mi appaiono insieme alla coscienza irriflessa a cui solo si correlano. Dunque,
ancora una volta: la relazione oggettuale non implica né la presenza
di un Io, né la presenza di una coscienza riflessa.. Si osservi tuttavia
come Sartre si preoccupi di mostrare la possibilità che l’emergere
della coscienza irriflessa non comporti la sua trasformazione in coscienza riflessa.
Si produce una specie di abile aggiramento della questione che appare altrimenti
non risolubile. La più elementare della mosse psicologiche viene chiamata
in aiuto – senza che Sartre ritenga opportuno dar conto del ‘chi’
di questa mossa psicologica , che deve necessariamente appartenere a qualcuno
, essendo essa appunto l’atto (psicologico-soggettivo) di un qualcuno.
Una sorta di originaria “malafede” caratterizza il comportamento
teorico di Sartre, che entra in pieno nel gioco stesso del suoi concetti, manipolandolo
grazie al nascondimento a loro e a stesso della propria fisionomia autentica.
Per evitare l’oggettivazione della coscienza, Sartre propone che (io)
“diriga la mia attenzione sugli oggetti” del ricordo per questo
motivo “risuscitati, senza perderla di vista, mantenendo con lei [con
la coscienza] una specie di complicità e inventariandone il contenuto
in modo non posizionale”. Non tornerò a chiedere come si possa
fare l’inventario di qualcosa che non si presenta come mio oggetto . Ritengo
più urgente e più acuta, infatti, a questo punto, la critica che
domanda di nuovo ‘chi’ chiede alla coscienza irriflessa di farsi
complice della propria volontà, della propria decisione teorica che vuole
che essa resti irriflessa. ‘Chi’ dirà alla coscienza irriflessa:
“Aiutami a non trasformare te stessa in oggetto e quindi a non configurare
l’irriflesso come oggetto della mia riflessione”?
Soltanto se non si richiama l’attenzione sull’escamotage psicologico
promanante dalla mia coscienza pienamente riflessa e posizionale, grazie a cui
riesco a ‘convincere’ la coscienza irriflessa a permanere ciò
che ‘deve’ essere, tutto quel che può risultare convincente.
Nel mio leggere, non c’era un Io leggente, ma solo la coscienza del libro
che leggevo: “L’ Io non abitava questa coscienza”; “non
c’era un Io nella coscienza irriflessa”. Il fatto che io possa fare
di tali risultati colti in maniera non tetica l’oggetto di una tesi, sembra
non solleciti in Sartre il problema che invece dovrebbe essere sollevato: come
si giustifica il fatto che l’Io è assente dalla coscienza irriflessa,
ma è presente in quella riflessa che parla della coscienza irriflessa?
Il problema viene certo colto, ma la percezione di una aporia che richiede una
soluzione obbliga Sartre a distinguere tra ricordo riflessivo e ricordo non
riflessivo: non , si badi, tra attualità della coscienza ricordante e
attualità passata della coscienza ricordata. Sartre sembra orientato
a tagliare corto. Dato che il ricordo che attinge le coscienze passate è
, evidentemente, comunque riflessivo e dato che “la riflessione modifica
la coscienza spontanea”, Sartre si tiene fermo al rapporto aproblematico
che lega i ricordi non riflessivi alla coscienza irriflessa, per confermare
che “non si dà Io sul piano irriflesso”. L’ipotesi
che ciò viene che definito “coscienza irriflessa” sia costituito
da una presupposizione fenomenologicamente gratuita e non giustificabile si
rafforza, nonostante l’indubbio fascino degli esempi che Sartre presenta.
Non c’è un Io che corre dietro un tram, quando io corro dietro
a un tram: “C’è coscienza del-tram-che-deve-essere-raggiunto
e coscienza non posizionale della coscienza”. In quanto sono sprofondato
negli oggetti, “quanto a me , io sono sparito, mi sono annientato”.
Perché, si può chiedere , io mi sono annientato in quanto moi
, se non perché io non sono fatto della stessa stoffa degli oggetti in
cui appunto mi annullo – confermando tuttavia in questo stesso atto che
‘Io’ non mi annullo affatto, affinchè il mio moi
possa esserlo?. L’eccedenza trascendentale dell’Io sembra di nuovo
confermata nonostante gli sforzi in senso contrario compiuti da Sartre. Qui
si torna ad osservare l’Io penso , la cui potenza evidentemente non si
è dissolta agli occhi del filosofo . Sartre lo disloca in un ambito che
lo apparenta alle “verità eterne”. Esso non è una
struttura peritura della mia coscienza attuale, dato che “afferma la sua
permanenza al di là di questa coscienza e di tutte le coscienze”.
In virtù di questa collocazione trascendente dell’Io, Sartre si
propone di evitare l’imbarazzo che coglie nel paragrafo 61 del primo volume
delle Ideen di Husserl (cfr, trad. it. Torino 2002, pp.150-152) circa
l’esigenza di estendere la riduzione fenomenologica agli stadi eidetici
della logica e dell’ontologia formale, ma anche alle “essenze che
sono desunte dalla sfera del mondo naturale” e che non “appartengono
all’immanenza della coscienza stessa”. Solo un pregiudizio metafisico
può far dubitare che ogni trascendenza , e quindi anche l’Io, debba
cadere sotto l’epoché. L’Io è come “un ciottolo
in fondo all’acqua”. Esso non è oggetto di evidenza, né
apodittica né adeguata: non si può dire che sia l’”origine”
della coscienza perché “niente al di là della coscienza
può essere l’origine della coscienza”., e se si vuole parlare
di “origine” proprio questa nozione testimonia della “opacità”
dell’Io .
Se viene esclusa la tesi lo sartriana che l’Io non sia oggetto di evidenza,
perché è piuttosto la fonte dell’evidenza , o , se si preferisce
il nome che diamo al darsi originario della evidenza, all’evidenza colta
nella sua originaria purezza – se viene esclusa cioè la tesi che
sola può restituire un rilievo alla centralità trascendentale
dell’Io, restano le osservazioni con le quali si entra nell’analisi
della “presenza materiale del Me” e poi nell’analisi della
“costituzione dell’Ego”.. L’Io è un esistente
trascendente. L’intuizione (non , si badi, la coscienza riflessa) , lo
coglie nella coscienza riflessa, che dunque non sembra collaborare alla sua
intuizione. La formulazione che Sartre finisce per utilizzare per venire a capo
di una situazione teoreticamente difficile è che l’Io appare “in
occasione di un atto riflessivo”. Ciò significa che bisogna ammettere
una riflessione irriflessa, senza Io, dunque radicalmente anonima, “che
si dirige su di una coscienza riflessa”. Qualora si accetti questa essenziale
premessa , in virtù della quale la riflessione che deve potere dirigersi
sulla coscienza riflessa, lo fa negando la propria natura e d affermandosi contro
se stessa , quel che segue ci mostra da un lato il riferimento della coscienza
riflessa al suo oggetto nel mondo, dall’altro il suo ulteriore riferimento
ad un “nuovo oggetto”, ossia a qualcosa che è “occasione
di una coscienza riflessiva”. Questo “oggetto trascendente dell’atto
riflessivo è l’Io”, il quale dunque non è cosa della
coscienza irriflessa, in sé “assoluta” e non bisognosa di
riflessione, ma allo stesso tempo non presiede , come sembrerebbe naturale sostenere,
alla coscienza riflessa quale sua condizione, dato che l’atto di riflessione
è stato definito in se irriflesso è senza Io. Ma, data la difficoltà
della nozione di un “atto irriflesso di riflessione”, Sartre lascia
gravare sull’Io al tempo stesso la funzione di “oggetto” dell’atto
irriflesso riflettente e di “occasione” dell’affermarsi della
coscienza riflessiva. In questo modo, si ottiene l’obiettivo di valorizzare
ulteriormente la coscienza riflessiva, facendone qualcosa che si manifesta all’”occasione”
del darsi di quello che dovrebbe essere il suo oggetto. Non si cerchi di rendere
coerente questa situazione concettuale, largamente basata sulla decisione teorica
di principio, che ha guidato l’intera argomentazione fino a questo punto.
“L’Io trascendente deve essere soggetto alla riduzione fenomenologica”.
Il Cogito non può affermare troppo. Non può dire che “io
ho coscienza di questa sedia”. Dunque il Cogito è uno “pseudo
Cogito”, dato che il contenuto di ciò che neanche dovrebbe definirsi
come un “atto anonimo”, affinché si eviti di attribuirgli
la più piccola ombra di soggettività, è : C’è
coscienza di questa sedia”. Possiamo concordare con Sartre che tale “c’è
coscienza di…” apra un campo infinito di ricerche fenomenologiche
– a patto tuttavia che si riconosca che il problema del senso del “c’è”
non può considerarsi affatto risolto.
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