Angelo Bolaffi, filosofo politico e germanista, insegna all'Università
«La Sapienza» di Roma. Tra i suoi studi Il sogno tedesco. La
nuova Germania e la coscienza europea (1993), con Giacomo Marramao Frammento
e sistema. Il conflitto-mondo da Sarajevo a Manhattan (2001) e Il crepuscolo
della sovranità. Filosofia e politica nella Germania del Novecento
(2002).
Professor Bolaffi, vorremmo che Lei ci aiutasse a percorrere parte di un itinerario
perlopiù ancora inesplorato. La pubblicazione di una biografia, degli
atti di un convegno e infine di una raccolta di scritti ha indotto recentemente
a parlare in Germania di una riscoperta di Siegfried Landshut: vero è
infatti che tutta la sua produzione - dai primi scritti, alla vigilia degli
anni Trenta, fino alla fine degli anni Sessanta - è rimasta in una sorta
di oblio, nonostante i - pochi, a dire il vero - tentativi di riattualizzazione
del suo pensiero. E vero è anche che il suo nome viene ancora oggi ricondotto
agli ambiti più disparati, dal marxismo occidentale al neo-aristotelismo,
dalla filosofia pratica all'heidegger-marxismus. Un itinerario non solo inesplorato,
allora, ma anche pieno di insidie.
Tuttavia il nome di Landshut interseca il Suo, di itinerario, almeno in due
occasioni: nell'edizione della monografia di Lukács (del '54) sul Giovane
Marx e, più recentemente, nei suoi studi sulla trasformazione delle categorie
classiche della modernità negli anni Venti-Trenta del Novecento e in
particolare in quelli su Weber, raccolti in Il crepuscolo della sovranità.
Qui il nome di Landshut compare, assieme a quello di Löwith, tra gli autori
di un'interpretazione in chiave «critico-filosofica» dell'opera
di Weber e di quella di Marx. Cos'è che conduce questi autori da Weber
a Marx e cos'è che fa di quelle letture, come Lei scrive, due letture
insuperate?
A.B.: Fondamentalmente due elementi, uno casuale, l'altro sostanziale: casuale
fu la scoperta dei Manoscritti che, come è noto, Landshut pubblicò
nel '32, la cui rilevanza tuttavia non fu percepita da tutti nella stessa maniera.
Particolarmente sensibili all'importanza di questi testi furono invece alcuni
autori, come Landshut e Löwith, entrambi di formazione fenomenologica e
influenzati da Heidegger; lo stesso si può dire per Marcuse, che li recensì
su Die Gesellschaft. Perché i Manoscritti: intanto
perché erano testi essenzialmente filosofici, cioè presentavano
Marx liberato dall'immagine del Marx economista, come lo voleva la Seconda Internazionale,
cioè del Marx studioso delle leggi di tendenza oggettive dell'economia,
che era invece il secondo Marx o il Marx scienziato, il Marx del Capitale.
Questo era invece un Marx filosofo che si misurava con il punto più alto
della filosofia tedesca prima di Essere e tempo, cioè con la
Fenomenologia. In Heidegger Hegel non gioca un grande ruolo, paradossalmente
è più importante la sua rilettura di Kant, però se cerchiamo
un testo che si presenti come un esame della condizione del soggetto nella modernità
da paragonare ad Essere e tempo, questo è la Fenomenologia
dello spirito. Questo è il primo elemento. In secondo luogo, questa
scoperta di Marx cadeva in una particolare congiuntura storico-politica: una
congiuntura in cui ai filosofi era richiesta una critica del reale. Il mondo
era attraversato da una crisi reale: una crisi che investiva la Germania del
'32, la Germania prima dell'avvento di Hitler, la Germania in cui il concetto
di capovolgimento era un dato delle cose prima che della coscienza filosofica.
Tutto questo poi si congiunge al fatto che Löwith e Landshut, entrambi
sensibili alla lettura weberiana, avevano dato di Weber un'interpretazione anch'essa
antieconomicistica, anzi sociologica, e quindi avevano letto Weber come critico
della società moderna più che come scienziato. Un'operazione analoga
a quella che in un certo senso si fa con Marx: come il Marx di Kautsky non piace
a questi autori, così non gli sarebbe piaciuto il Weber di Talcott Parsons.
Difatti tendono a mettere in primissimo piano il potere della razionalità
weberiana confrontandolo con il concetto di Entfremdung in Marx, e
il concetto di Entfremdung in Marx, come dice Landshut, viene direttamente
dalla Fenomenologia dello Spirito. Marx prende da Hegel il termine
di alienazione, dove però l'alienazione hegeliana non è più
l'alienazione dello spirito da sé ma è il mondo reale che si contrappone
all'umanità. Questo spiega secondo me quelle letture. Quello che non
si spiega è il perché del loro diverso destino… Apro una
parentesi. Anche Löwith, nonostante la sua ormai riconosciuta importanza
nel panorama filosofico del Novecento, in realtà ha avuto molti meno
riconoscimenti e molto più tardivi di quanto ci si potesse attendere.
A parte il famoso attacco ingeneroso di Habermas contro Löwith, che fu
una sorta di colpo sotto la cintola, parlo dell'accusa di Ritiro stoico
dalla coscienza storica - mentre non era affatto così - in realtà
sia la Scuola di Francoforte sia i marxisti - e quindi Habermas, che ha fatto
da ponte tra i due - tendono a spingere Löwith da una parte, accusandolo
di volta in volta di essere o troppo heideggeriano o troppo poco marxista, mentre
una critica semmai andrebbe fatta più alla Scuola di Francoforte. Comunque
sia, sta di fatto che un autore come Löwith comincia ad essere riconosciuto
nella sua importanza quando, a un certo punto, si va oltre i due grandi paradigmi
della scuola di Francoforte e del marxismo, e la crisi dell'uno e dell'altra
apre degli spiragli inediti: la scoperta di Jonas, della Arendt, di Strauss
e appunto di Löwith si collocano in questa prospettiva. Ci si potrebbe
attendere a questo punto anche un ritorno di Landshut: ma Landshut è
ancora meno fortunato, perché tutti gli altri si rifugiarono in America,
Landshut no. Landshut è andato in Palestina. Quindi questo sicuramente
ha giocato un ruolo negativo nella sua ricezione; e poi Landshut non ha scritto
in inglese, e questo era fondamentale nella comunità filosofica del Novecento.
Ma aveva imparato l'ebraico e scriveva in ebraico…
A.B.: Per poi essere ritradotto in tedesco. Io credo che si debba tener conto
del fatto che Landshut non ha partecipato al dibattito del main stream
dell'emigrazione. Aggiungerei che quando tornò in Germania la cosa non
destò grande clamore, e poi vi tornò come fondatore della scienza
politica, cioè di una scienza speciale, che sia i marxisti - che intendono
il marxismo come una critica della politica - che la scuola di Francoforte vedevano
con ostilità. Quindi la spiegazione del perché Landshut sia stato
tardivamente e poi solo parzialmente riconosciuto ha motivi sicuramente biografici,
però ha a anche che fare anche col fatto che questa biografia si intreccia
con una vicenda culturale-filosofico tedesca che si intreccia a sua volta con
l'emigrazione ebraica tedesca in America. Questo credo sia il background.
A Landshut succede in modo esponenziale quello che era accaduto a Löwith
o alla Arendt. Quando ho studiato in Germania, negli anni Settanta, la Arendt
era ritenuta una filosofa della guerra fredda perché aveva scritto sul
totalitarismo. E il totalitarismo era la teoria che secondo la Scuola di Francoforte
era lo strumento ideologico della guerra fredda e del suo antimarxismo programmatico.
Se la Arendt era accusata di essere una ideologa della guerra fredda, è
facile immaginare cosa si sarebbe potuto pensare di Landshut.
Vorrei tornare brevemente alla lettura di Marx e Weber proposta da questi
autori. Il parallelismo istituito da Landshut e Löwith tra la categoria
dell'alienazione e quella della razionalizzazione si è prestata a più
di un'obiezione. Prima fra tutte, quella di ricondurre sullo stesso piano una
categoria economico-sociale ed una coscienziale, fornendo perciò un'interpretazione
destorificante e spiritualistica. Se è vero che l'accusa di spiritualismo
colpisce tale interpretazione in una fase della riflessione filosofica italiana
fortemente segnata dal marxismo e dalle sue tensioni e contraddizioni, non crede
- ad uno sguardo retrospettivo, quindi alieno da ubriacature ideologiche - che
quel parallelismo se male interpretato rischi di smorzare il potenziale emancipativo
della teoria marxiana dell'alienazione e del feticismo e che tanto Landshut
quanto Löwith riconobbero in Marx? E qual è invece il loro (di quelle
letture) potenziale interpretativo?
A.B.: Intanto bisogna dire che l'accusa di aver operato una decontestualizzazione
storica, o di aver declinato l'Entfremdung come condition humaine
non rappresenta una novità, perché già Lukács aveva
fatto un'operazione analoga in Storia e coscienza di classe: questo
semmai fa sospettare che all'origine i marxisti più sensibili filosoficamente
tendevano a interpretare l'Entfremdung in senso hegeliano, e quindi
diremmo che Löwith, Landshut avevano visto giusto se anche Lukács
fece lo stesso. E Storia e coscienza di classe, come diceva Colletti,
è il più grande libro scritto da una penna marxista dopo Marx.
Difatti le critiche non risparmiarono neanche Lukács.
A.B.: E lo stesso Lukács fa autocritica. Ora, paradossalmente questo
accadeva quando era in atto una rinascita nel marxismo …in senso marxista,
nel senso che si legge Marx come critico della società capitalistica
borghese e quindi si tende a privilegiare il Marx del Capitale, dove
l'Entfremdung c'è e però è collegata all'analisi
del Warenfetischismus. In Marx c'è questo oscillare dell'idea
dell'alienazione come condizione storica, come condizione legata ad una situazione
storica determinata, di più: come condizione legata ad una situazione
storica determinata e ad un determinato attore sociale, il proletariato. Però
lo stesso Marx nella Sacra famiglia a un certo punto dice: lo stesso
capitalista vive una condizione alienata. Ma come fa a vivere in una condizione
alienata se l'alienazione è solo di chi non possiede i mezzi di produzione?
Marx da questo punto di vista ritiene che l'uomo in quanto tale, l'umanità
in quanto tale - non solo il proletario - vive in una condizione alienata nella
società capitalista e sgancia quindi la condizione di alienazione dalla
proprietà dei mezzi di produzione. In Marx ci sono entrambi gli elementi:
sicuramente Landshut, Lukács, il primo Korsch, Löwith, privilegiano
una lettura non economica dell'alienazione, e favoriscono invece una lettura
filosofica in termini di critica della società moderna e quindi rientrano
nel grande main stream culturale della filosofia tedesca post-hegeliana,
della filosofia tedesca di matrice non-kantiana, che legge la società
moderna presentando elementi di Kulturkritik. La Filosofia del
denaro, la più grande opera di sociologia scritta in base alla teoria
di Marx, certamente è piena di elementi di cultura critica, ma Simmel
non si illude che abolendo la società capitalistica si abolisca la condizione
alienata, anzi ritiene che ci sia un processo di ulteriore accelerazione, come
del resto pensa anche Weber. Il Weber delle ultime pagine dell'Etica protestante
non si può dire che abbia presente Marx, anzi, non può per ovvi
motivi aver presente il tema dell'Entfremdung e difficilmente aveva
letto il Capitale. Però come dice Marianne Weber, gli autori
su cui si era formato erano Marx e Nietzsche. Quindi questa idea della critica
della società borghese, dove borghese significa in Weber non tanto capitalistica,
ma moderna, dell'Ethos moderno, questo elemento arriva sicuramente
anche a Löwith e a Landshut.
Nel 1918, a Vienna, Weber tenne infatti un ciclo di lezioni sulla Positive
Kritik der materialistischen Geschichtsauffassung, sulla critica positiva
della concezione materialistica della storia.
A.B.: Qui ha un ruolo importante Bernstein. Bernstein, accusato di essere il
revisionista, in realtà non accetta il ritorno al Marx filosofo - come
invece fanno Löwith e Landshut. Diciamo che in Bernstein ci sono elementi
di critica a Marx di natura popperiana, ad esempio la critica della dialettica.
Però la critica che Bernstein fa a Kautsky - e cioè all'idea che
l'azione soggettiva sia un puro riflesso della dinamica oggettiva - privilegiando
invece il momento coscienziale dell'atto politico, sicuramente apre ad una lettura
del marxismo molto più vicina a quella di Weber, che riconosce alla dinamica
storica un'autonomia spirituale completamente sganciata dalla dinamica oggettiva
delle forze di produzione.
Dopo aver confinato per anni il pensiero di Max Weber nella Kulturkritik
di stampo irrazionalistico e romantico - lasciando che fosse Talcott Parsons
a fare di Weber un "classico" - a vantaggio della grande fioritura
di studi marxiani che l'Italia ha conosciuto nel secondo dopoguerra, non siamo
oggi di fronte ad un rovesciamento di segno inverso di quella operazione? Il
recupero - travagliato, come Lei sa bene - del pensiero di Weber non ha fatto
da contraltare al ridimensionamento non solo delle implicazioni teleologiche
ed essenzialistiche del pensiero di Marx, ma della rilevanza del pensiero di
Marx tout court? E se le cose stanno davvero così, non dovremmo
forse guardare ancora una volta proprio a Landshut e Löwith che, a dispetto
del tempo, riconobbero in Marx e Weber gli interpreti insuperati della condizione
dell'uomo nel mondo moderno?
A.B.: Intanto direi che ci vuole equilibrio… Siamo di fronte ad un fatto
reale e cioè che Weber ha scritto tantissimo e ha pubblicato pochissimo.
In fondo le cose pubblicate sono la dissertazione, l'Etica protestante,
alcuni articoli e Vorträge. L'opera eventualmente paragonabile
al Capitale di Marx, Economia e società, non fu pubblicata
da Weber, che l'aveva lasciata in forma frammentaria. In un certo senso, un
destino analogo a quello di Marx: Marx ha pubblicato il primo libro del Capitale,
il secondo e il terzo sono stati pubblicati postumi, ad indizio che c'era un
grande dubbio: un autore non lascia le cose non pubblicate se è convinto
della loro validità. Era un cantiere aperto. Direi che in Weber come
in Marx ci sono due anime: lo scienziato e il filosofo. C'è la grande
tradizione filosofica tedesca, che si presenta come una critica della modernità
o critica delle aporie della modernità. Non è un rifiuto della
modernità, è una messa in luce - contro le euforie dei modernisti
- delle contraddizioni che la modernità porta con sé. La modernità
non risolve i problemi, li enfatizza. Questo non significa che si possa saltare
a pie' pari la modernità, anzi, però è un errore non vedere
i problemi che essa porta con sé. E poi c'è questa grande spinta
analitica a conoscere le cose, a ricostruire, in Marx a individuare le leggi
economiche - ci sono pagine di Marx di analisi storiche e sociali ancora insuperate
e del tutto analoghe a quelle di Weber… Diciamo che la vera grande differenza
è che in Marx c'è la speranza della redenzione, la speranza che
sia possibile redimere l'umanità. Dopo Nietzsche, Weber questa speranza
l'ha perduta. Questo non è poco, al contrario, sarà anzi l'elemento
che spingerà poi alcuni weberiani o heideggeriani, come ad esempio Marcuse,
a tornare a Marx; o Adorno - se pure non mosso da una speranza di redenzione
- a tenere aperta, con Benjamin, la piccola porta da cui entra il messia. Lo
stesso Adorno non perde la speranza che possa essere possibile. Questa speranza,
in maniera disincantata, Weber l'aveva perduta. Questo non vuol dire che si
sia adagiato sulla modernità. Tutt'altro: io direi che uno dei motivi
- e questo Hennis l'ha spiegato benissimo - delle difficoltà anche psicologiche
di Weber sia questa enorme difficoltà di fronte alla realtà, difficoltà
che si ripercuoteva in lui in forma anche nervosa, fino a rendergli impossibile
continuare a lavorare.
Io intendevo piuttosto questo: avendo "fallito", come si dice,
il Marx scienziato non Le pare che si voglia "buttar via" anche il
filosofo?
A.B.: Questa è la posizione di Colletti. Rileggendo come ho fatto in
questi giorni il Landshut degli anni Cinquanta, credo di no, credo anzi che
il fallimento, o la falsificazione del Marx economista, e anche la critica al
Marx filosofo escatologico lasci tuttavia impregiudicata l'importanza del Marx
critico della modernità, del Marx della Entfremdung - non ovviamente
secondo una lettura dell'Entfremdung in senso stretto come la intendeva
Marx ma Entfremdung come condizione dell'uomo nella modernità.
Lì credo che Marx abbia visto giusto, abbia visto cioè il fatto
che ci sia una dinamica della tecnica che spinge ad una divisione del lavoro
di cui l'uomo non riesce più ad essere padrone. L'uomo si trova di fronte
ad un mondo che sfugge completamente al suo controllo. Le informazioni gli pervengono
attraverso altri strumenti tecnici, attraverso meccanismi che egli stesso non
controlla e che poi riguardano una sezione "molto" finita del mondo
circostante. Diciamo che sicuramente la capacità di conoscenza e di controllo
della Mitwelt e della Umwelt dell'uomo premoderno, paradossalmente,
era molto più forte, molto più completa di quanto l'enorme sviluppo
della tecnica consenta - nonostante il suo carattere sofisticato - la conoscenza
della Mitwelt all'uomo moderno. Questo è un paradosso. Si sviluppa
la tecnica per conoscere meglio e ciò produce il paradosso che nel mondo
esiste una divisione del lavoro che lo rende inconoscibile.
Come interpretare allora la considerazione positiva della tecnica e delle
macchine da parte di Marx (ovviamente nell'ambito di una società non
più estraniata)?
A.B.: Marx aveva una visione semplicistica delle macchine perché si
muove ancora in un universo newtoniano. Dopo il passaggio dalla fisica alla
biologia, oggi siamo al passaggio alla natura-codice. Paradossalmente, secondo
me oggi dovremmo rileggere l'Engels della Dialettica della natura,
il tanto deprecato Engels, che presenta elementi di cui oggi tiene conto la
stessa teoria dei sistemi: ad esempio il passaggio dalla quantità alla
qualità, il fatto che non è vero che, diciamo così, l'assommarsi
di un elemento all'altro è un puro assommarsi, ma c'è un punto
in cui questo assommarsi fa saltare tutto il sistema…
Come dire: alla fine si torna sempre a Hegel. Tornando invece a Landshut,
prima che quale interprete di Weber, il suo nome comparve in Italia negli anni
'50 come editore della "tristemente famosa" edizione Kröner degli
scritti giovanili di Marx. Tristemente famosa perché oltre all'inspiegabile
esclusione del I manoscritto (e quindi anche del capitolo sul lavoro estraniato!),
l'edizione Landshut si segnalava per l'inclusione del IV manoscritto, con alcuni
passaggi estratti dalla Fenomenologia, e per l'inversione dell'ordine
(III,II,IV). Mentre però nella MEGA Adoratskij parlava di un giovane
Marx ancora prigioniero "della terminologia filosofica e feuerbachiana"
e di "saggi in forma frammentaria su salario, rendita fondiaria e profitto
del capitale", già nella prima edizione del '32 Landshut non esitava
a riconoscere nei Manoscritti «l'opera in un certo senso più
centrale di Marx» e dove, nel concetto di autoestraneazione, si riflette
l'unità dell'idea fondamentale di Marx, che abbraccia la sua teoria nella
sua interezza ma che lì, nei Manoscritti deve ancora dispiegarsi.
Ora, certamente la teoria dell'alienazione ha rappresentato per il marxismo
italiano - e specialmente nella versione Dellavolpiana - un problema gnoseologico
di capitale importanza: chiare sono dunque le difficoltà che si presentarono
a Landshut e alla sua edizione degli scritti giovanili di Marx. Stupisce però
che neanche da parte dell'interpretazione «umanistica» di Marx -
e comunque a fronte di una fioritura di studi praticamente ineguagliabile -
giunsero segnali di attenzione nei confronti di un autore - giovane, certo;
"allievo" di Heidegger, ma infedele - cui era stata affidata l'edizione
tascabile degli scritti giovanili di Marx (che oggi è alla settima ristampa).
Anche Lei nell'introduzione al saggio di Lukács parla di Landshut in
termini liquidatori. Che cosa ricorda del contesto in cui maturò questa
posizione di chiusura, se non di censura nei suoi confronti? Landshut fu fatto
mai oggetto di studio nell'ambito della Marx-Forschung italiana (come
accadde, ad esempio, anche se da una prospettiva marcatamente critica, nel caso
di Löwith)?
A.B.: Quel che ricordo è di aver citato criticamente Landshut, allora
sulla scia della consueta critica a Landshut fatta dal marxismo italiano, che
lo accusava di essere troppo heideggeriano da una parte e di aver fatto un'operazione
filologicamente non corretta. Il perché va ricercato a mio avviso nella
presenza troppo importante della MEGA. Nessuno allora avrebbe preso a riferimento
un Landshut contro la MEGA. Quello che mi meraviglia è che in Germania
ancora non lo si riprenda a riferimento.
A me sembra degno di rilievo che nello stesso saggio di Lukács che
Lei ha curato ricorrano riflessioni già presenti in Landshut: l'identificazione
oggettivo-idealistica di idea e realtà, che mette al riparo da ogni dover
essere, mutuata da Hegel e che in Marx rivela il suo aspetto rivoluzionario
(che, certo, Landshut vede all'opera anche in seguito, nel Marx maturo…);
o l'individuazione anche da parte di Lukács nei Manoscritti, "sia
pure in forma solamente abbozzata", della concezione della storia del materialismo
storico e dialettico; o la lettura di Marx "nel suo tempo", spirituale
e storico. Considerazioni che a Landshut sono costate l'esclusione dal dibattito
filosofico di area marxista, mentre non hanno scalfito il peso e il ruolo di
Lukács - nonostante le critiche che pure ha continuato ad attirarsi.
A.B.: Il motivo va cercato nel fatto che in fondo Lukács …era
Lukács! Certo, nel saggio del '54 ricompare la vecchia posizione diciamo
"spiritualista" - ma in forma attenuata - quando ad esempio scrive
che Marx era socialista prima di essere marxista. Vale a dire: a differenza
di quanto pensava Kautsky, e cioè che si è socialisti solo in
base a Marx, Lukács ritiene che in Marx ci sia una spinta critica della
società che precede la consapevolezza filosofica. Quindi Marx è
contro la società borghese prima di essere marxista. Quindi c'è
qualcosa che non va bene, c'è un malessere che muove tutti questi autori,
come Landshut, Weber, Löwith, il primo Lukács. Poi ognuno troverà
le sue categorie filosofiche, ma all'origine per tutti c'è il disagio
della modernità. Fino a trasformarsi nel suo opposto, come in Lukács,
che si pente e diventa il filosofo ufficiale del partito. Ma anche in quel libro
terribile che è La distruzione della ragione, a ben vedere,
ci sono molte più aperture di quanto non si sia indotti a pensare: a
Nietzsche, a Schopenauer, Simmel, tutti autori che il movimento operaio aveva
cancellato. Con la scusa di criticarli tutti - e qui secondo me Lukács
fa una operazione un po' alla Leo Strauss, di dissimulazione - in realtà
rimette in circolazione degli autori che negli anni Cinquanta nessun comunista
mai avrebbe letto. Schopenauer, Nietzsche, Simmel, Weber, Heidegger, Jaspers,
tutti. Lui li critica tutti e intanto giù pagine e pagine… Alla
luce dello spirito dell'epoca non è impossibile che si sia trattato di
una sofisticata operazione di dissimulazione…
Che troverebbe una conferma nella passione di Lukács per Thomas
Mann... Nelle domande precedenti abbiamo segnalato con il Suo aiuto due passaggi
del pensiero di Siegfried Landshut che in qualche modo segnano anche la storia
della sua ricezione: il campo dei testimoni - così in Germania - si divide
tra chi ricorda l'editore dei Frühschriften e chi l'interprete
di Weber. Tuttavia l'edizione della scelta di scritti e degli atti del convegno
di Amburgo dedicato a Landshut (recensiti in questa pagina) è ispirata
da altra intenzione: quella cioè di riscoprire il Landshut fondatore
della scienza politica nella Rft, accanto ad Alfred Weber, Carlo Schmid, Wolfang
Abendroth e Ernst Fraenkel e a pochi altri. Scienza politica che nasce sulle
ceneri dell'equazione politica-potere, che tenta di ricostruire una genealogia
della cosiddetta crisi della modernità dopo l'assunto weberiano della
avalutatività e che insegue il carattere specifico del Politico e di
un nuovo statuto per sé e per la filosofia politica. In conclusione:
secondo Lei, che conosce il Landshut interprete di Marx e Weber, ma anche quello
di Aristotele, di Althusius e Tocqueville, possiamo - ed eventualmente in che
senso - ricavarne una lezione per il presente e per le questioni con le quali
si dibatte oggi la filosofia a confronto con la "diagnosi del tempo"
e del suo rapporto con la scienza politica?
A.B.: C'è una parte nel saggio del '56 Die Gegenwart im Lichte der
Marxschen Lehre che mi ha molto colpito e che lo avvicina a Carl Schmitt.
Ad esempio quando scrive: voi pensate che l'idea di Marx del deperimento dello
stato sia sbagliata perché apparentemente lo stato invece di deperire
si ingrandisce. Al di là del fatto che anche una sociologa attuale americana
ha osservato recentemente a proposito della globalizzazione che lo stato nazionale
declina crescendo, Landshut presente una tesi molto interessante. Lui dice:
"Bisogna stare molto attenti, Marx in fondo ha ragione perché lo
stato che Marx immaginava era lo stato che si identificava con la nazione. Ora
lo stato nazionale non c'è più. Abbiamo la trasformazione della
funzione dello stato - che in Hegel era l'eticità - in amministrazione,
in Verwaltung. E d'altra parte abbiamo una sorta di globalizzazione
della funzione dello stato". Quindi da questo punto di vista, sia pure
con le debite cautele, abbiamo una intuizione geniale di Landshut, che pure
durante la guerra fredda, pure nel momento in cui il mondo era diviso, intravede
una tendenza alla neutralizzazione dello stato: lo stato non è più
il luogo delle guerre civili e del sovrano che le risolve, come in Hobbes, ma
è ormai la funzione tecnica di amministrazione dei beni e quindi perde
anche quella funzione di punto di riferimento etico collettivo che aveva ancora
in Hegel. Qui secondo me si può cominciare a leggere Landshut per capire
il mondo della globalizzazione e quindi vedere se in fondo non ci siano già
in lui, sia nell'esame della società post-classista, sia nell'esame dello
Stato in quanto amministrazione nell'ambito dello stato post-nazionale, elementi
che ci aiutino a capire l'attualità del fenomeno della globalizzazione.
Qui, nelle ultime pagine di Gegenwart im Lichte der Marxschen Lehre
ci sono sicuramente elementi che andrebbero riletti in questo senso.
|