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La riscoperta delle pratiche contro il rischio della barbarie Intervista a Mario Pianta
di Giorgio Fazio

 

Mario Pianta è professore di Politica economica e direttore del Master "Lavorare nel non profit" all'Università di Urbino. E' autore fra l’altro di di Globalizzazione dal basso. Economia mondiale e movimenti sociali (Manifestolibri, 2001) e di Democracy vs. Globalisation. The Growth of Parallel Summits and Global Movements (in D. Archibugi, a cura di, Debating Cosmopolitics, Verso, 2003).



Nei suoi studi Lei sostiene la tesi, corredata da un lavoro di inchiesta, secondo la quale nelle forme di mobilitazione rincorsesi negli ultimi anni a livello globale – come quella per la pace del 15 febbraio 2003 – sia possibile registrare una netta discontinuità rispetto alle modalità e al senso dell’azione della società civile organizzata del passato. Prima di entrare nel merito di considerazione di natura teorica, la prima domanda potrebbe essere semplicemente questa: chi sono i soggetti che dal basso, attraversando i confini nazionali ed in forme del tutto auto-organizzate, danno vita ogni volta a queste manifestazioni? E ci troviamo di fronte a qualcosa di interamente nuovo - e se sì perché - o è possibile individuare di questi fenomeni delle radici storiche, tracciandone una sorta di genealogia?


Comincerei per rispondere da una considerazione di natura generale. Negli ultimi quindici anni, di fronte all’incalzare dei processi di globalizzazione economica, finanziaria, tecnologica e culturale, i meccanismi politici tradizionali che per un secolo hanno funzionato su scala nazionale come motori di integrazione sociale ed economica si sono dimostrati inefficaci e inadeguati. Categorie d’analisi e pratiche della politica, per molteplici ragioni, non hanno funzionato più. E’ a partire da questo dato che va letta la straordinaria accelerazione degli ultimi anni di processi di sintesi e creazione di reti della società civile internazionale al di fuori della sfera politica tradizionale. Di fronte all’enorme deficit di politica e di democrazia venutosi a creare dentro e attraverso i confini degli Stati, soggetti e realtà delle singole società civili nazionali si sono assunti progressivamente nuove responsabilità; sono passati dall’impegno locale e settoriale a forme di mobilitazione globale e su questioni inserite in orizzonti politici sempre più ampi.
Non è la prima volta che succede. Se vogliamo individuare nel passato fenomeni che hanno anticipato quanto sta avvenendo adesso il nostro sguardo deve andare prima di tutto alla campagna contro la schiavitù, per certi versi il primo caso nella storia di creazione sistematica di una rete internazionale di pressione politica da parte della società civile. O al movimento internazionale delle donne, che alla fine dell’Ottocento, chiedeva il riconoscimento dei diritti politici alle donne a sistemi nazionali interamente in mano agli uomini. O alla storia del movimento operaio internazionale: il tentativo più grande per certi versi, di affermazione di diritti e giustizia sociale su scala internazionale, ma che è poi stato precocemente nazionalizzato.
Tutti fenomeni nati dall’esigenza di riaffermare principi di giustizia e di estensione dei diritti fondamentali, su questioni che superavano strutturalmente i confini nazionali, e di fronte ai quali le società politiche tradizionali oltre a non essere attrezzate a rispondere, si mostravano incapaci di avvertire gli stessi problemi come tali.
La situazione in cui oggi ci troviamo presenta molte analogie con quella venutasi a creare prima dello scoppio della prima guerra mondiale. Anche lì ci trovavamo alla fine di una fase di forte apertura e globalizzazione dell’economia, con problemi che potevano essere risolti solo su scala internazionale, e la non risoluzione dei quali è risultata la causa dello scoppio della guerra e del successivo ripiegamento su politiche nazionalistiche che ha portato della nascita dei fascismi e da lì alla seconda guerra mondiale. In una direzione contraria rispetto a questa deriva andava la creazione nel 1919 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro all’interno della Società delle Nazioni, una scelta effettuata di fronte alla drammaticità della questione operaia e a cui non è estraneo lo scoppio della rivoluzione sovietica. E' stato un avvenimento importante anche per le indicazioni sul piano programmatico che ci può ancora dare, perché l’OIL/ILO - che esiste ancora oggi - pur essendo un organismo istituzionale, non è una sede interstatale: ha una struttura tripartita, in cui siedono i rappresentanti del governo, dei lavoratori e dei datori di lavoro. Un’istituzione cioè dove vengono temperate le istanze istituzionali con gli interessi sociali in una prospettiva globale.
Dopo la seconda guerra mondiale, si è avuta una nuova affermazione della sovranità dello Stato sulla politica, sulla vita associata e sui cittadini, a scapito delle stesse istanze di democratizzazione e di giustizia sociale che con il Welfare si andavano affermando. In questo periodo tuttavia, dentro le società europee, abbiamo esperienze molto importanti che saltano i confini nazionali e in cui possiamo scorgere le radici prime dei nuovi movimenti globali: le campagne di solidarietà internazionale con i movimenti di liberazione nazionale del Sud del mondo che in qualche modo proseguono, allargandola, la prima esperienza della campagna contro la schiavitù; le prime esperienze, dagli anni '50 ai ’70, dell’impegno pacifista, antinucleare e ambientalista, i movimenti per i diritti civili e il movimento delle donne.
E’la globalizzazione dell’economia a partire dagli anni ’80 che però ha smontato i meccanismi della politica nazionale. La reazione della società civile e dei movimenti è la nascita di reti e iniziative internazionali che, dopo una fase di incubazione in cui ci si concentra su temi specifici, sviluppano una nuova attenzione sulle nuove emergenze globali. Le immagini che, con tutto il loro carico emotivo, rimbalzavano dal Sud del mondo, portandoci la realtà drammatica del sottosviluppo, delle guerre, della morte per fame, della devastazione ambientale, della violazione dei diritti fondamentali, hanno contribuito a sviluppare una nuova coscienza dei problemi globali e a promuovere su questi campagne mirate. Un momento fondamentale di questa diffusione di consapevolezza è stata la serie di conferenze organizzate dalle Nazioni Unite, prima fra tutte quella di Rio sull’ambiente nel 1992, seguita poi nel 1995 da quelle di Copenaghen sullo sviluppo sociale e di Pechino sulle donne. E’ in queste conferenze che si sono incontrate per la prima volta decine di migliaia di organizzazioni sociali e di esponenti delle società civili nazionali, che si sono creati collegamenti internazionali tra soggetti che si impegnavano su temi specifici e che spesso prima non comunicavano, non si pensavano parte di uno stesso movimento. Questo è stato un processo inedito e fecondo, a cui però mancava ancora una progettualità e una sintesi sul terreno della politica.
Il caso dell’Italia è per certi versi anticipatore; qui c'è stata sempre una maggior consapevolezza della politicità dei temi globali, dalla pace all'ambientalismo, alla solidarietà internazionale, e il percorso di mobilitazioni "settoriali" della società civile ha fatto un salto politico già nel 1994 con l'organizzazione del controvertice al G7 di Napoli; naturalmente del tutto ignorato allora dai media.
A livello mondiale il punto di rottura arriva poco dopo, con le mobilitazioni contro il vertice dell'Organizzazione mondiale del commercio (WTO) a Seattle nel 1999; in cui forse per la prima volta , vi è stata una maturazione direttamente politica della società civile internazionale. Ciò che ha colpito a Seattle è stata la saldatura contro un nemico comune - un’istituzione e la logica complessiva del libero mercato che ne orienta il funzionamento – da parte di mondi tra loro prima incomunicabili: ambientalisti, pacifisti, ong, organizzazioni sindacali, statunitensi e internazionali. E’ stata la prima volta che si è avuta la capacità di costruire, contro un avversario comune, una visione complessiva di un’alternativa possibile. E di praticare forme di lotta originali ed efficaci nel bloccare il funzionamento delle istituzioni esistenti.

Come lei la descrive, quindi, una traiettoria che ha condotto alla progressiva politicizzazione della società civile. Eppure proprio su questo punto iniziano a nascere i problemi di natura teorica. La società civile per come si organizza e si costituisce - strutture a rete e flessibili rese possibili dall’utilizzo sistematico delle nuove tecnologie, irriducibile pluralità dei contenuti e delle proposte, interfaccia continuo tra dimensione globale e locale che salta la dimensione nazionale – sembra andare contro le categorie con cui siamo abituati a pensare la Politica. Come ambito di aggregazione e mediazione tra interessi, in cui si prendono decisioni su temi di rilevanza collettiva; inscritto su un livello nazionale e per questo collegato a processi di ampia legittimazione democratica. Di quale politicizzazione allora si può parlare in riferimento alla società civile internazionale?

Quando parlo di politicità mi riferisco a due piani di discorso diversi. Innanzitutto segnalo una discontinuità. Quello che è successo negli ultimi sei anni, da Seattle a oggi, è il tentativo di costruire una politica a scala globale dal punto di vista della società civile. Il controvertice di Genova del 2001, le assemblee dell’Onu dei popoli a Perugia che nascono già nel 1995, l’esperienza intensissima dei controvertici degli ultimi anni, e soprattutto i Forum sociali mondiali con le loro articolazioni continentali che iniziano a Porto Alegre nel 2001, sono tutti tentativi di portare la varietà di punti di vista della società civile organizzata dentro un quadro capace di esprimere, oltre alla protesta, una proposta politica. Si supera così il livello dell’incontro, della conoscenza reciproca e della costruzione di reti; si avvia una maturazione politica, ci si pone il problema di presentare alternative possibili alle politiche dei governi e delle istituzioni sovranazionali. Un salto di livello e qualità che rappresenta una discontinuità rispetto al passato e che copre il vuoto progettuale e politico della sfera della politica nazionale, che si è in genere chiusa in meccanismi autoreferenziali, che non riescono il più delle volte nemmeno a percepire l’urgenza dei problemi spalancatisi con il procedere della globalizzazione neoliberista. Anzi, in molti casi sono proprio le politiche dei governi nazionali che l'hanno alimentata e sostenuta.
Detto questo, è chiaro che il fatto che una società civile globale emerga come “la seconda superpotenza mondiale” è l’espressione di un’anomalia. La politicizzazione della società civile globale anticipa l' orizzonte di una futura politica su scala globale, proprio perché mancano istituzioni internazionali e sedi democratiche dove la politica possa tornare a svolgere le sue funzioni. E’ decisivo comprendere che le espressioni più avanzate dei movimenti globali che sono emersi negli ultimi anni, oltre a chiedere giustizia economica e sociale, chiedono democrazia internazionale. E lo chiedono a un sistema internazionale che non è democratico, che non ha il complicato sistema di principi costituzionali, equilibri, contrappesi che ha portato a regolare in senso democratico l’ambito della vita associata su scala nazionale.
La sfida che ha lanciato la società civile globale non è rivolta soltanto ai protagonisti della politica tradizionale, ma anche e soprattutto ai poteri globali che operano al di fuori di qualsiasi logica democratica. Al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale si contano i pacchetti azionari e non i governi nazionali o i popoli; il WTO solo adesso, dopo il fallimento del vertice di Cancun, si sta ponendo il problema di mediare con gli interessi dei paesi del Sud. C'è poi il potere di alleanze finanziarie, come il gruppo dei creditori dei paesi del sud del mondo più indebitati che, al di fuori di qualunque meccanismo istituzionale, ostacola il cammino dell’estinzione del debito estero dei paesi del Sud del mondo, già ampiamente ripagato. C'è il potere delle monete, con le decisioni prese dagli Stati Uniti e dalla Banca centrale europea sulla politica monetaria e i tassi d’interesse che hanno effetti capillari a livello internazionale. C'è il potere dei mercati finanziari, sempre più speculativi e instabili, con effetti devastanti per i paesi con le economie più aperte e vulnerabili. C'è il potere delle imprese multinazionali, che possono decentrare senza ostacoli la produzione in paesi in cui i salari dei lavoratori sono un quarantesimo di quelli del Nord, svuotando così il senso stesso delle conquiste di democrazia economica e sociale nei paesi del Nord.
Si tratta sempre di poteri sottratti ai meccanismi di legittimazione democratica. E’ per questo che nei Forum sociali mondiali sta arrivando in primo piano la necessità di individuare una possibile agenda di riforme istituzionali internazionali. Che vadano nella direzione di ridimensionare i poteri meno legittimi, ma anche meno efficaci di fronte ai problemi di oggi, e di creare nuovi meccanismi efficaci che rispondano a principi della democrazia. Ci sono le proposte di eliminare il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di affiancarlo con un Consiglio di sicurezza economico e sociale che tuteli gli obiettivi di sviluppo umano stabiliti dall’Undp; c'è la proposta di creare una assemblea parlamentare delle Nazioni Unite e un forum delle organizzazioni della società civile mondiale. Tutti problemi che la società civile ha posto, ma di cui sa bene di non poter dare soluzioni dirette.
Il vero problema è l’arretratezza della politica tradizionale, che non riesce a percepire il livello della posta in gioco: non più soltanto la questione delle trasformazioni sociali, ma la stessa sopravvivenza del pianeta.

Proviamo ora a prendere il rapporto nuovi movimenti/politica tradizionale dal punto di vista degli stessi movimenti, i quali oltre a chiedere alla politica nuove sintesi e decisioni, il più delle volte dichiarano di ambire ad una trasformazione dell’agire collettivo in quanto tale. Si pensi a questo proposito alle mille esperienze di quello che è stato chiamato terzo settore. In che senso allora secondo lei questi nuovi fenomeni sociali costringono ad un allargamento semantico di ciò che si è sempre inteso con politica?

Storicamente il modo in cui si è articolata l’azione della società civile nei confronti della politica era quello della protesta di fronte a politiche particolari e della pressione con il meccanismo delle lobby a tutela degli interessi settoriali. L’inaridimento del rapporto tra politica e società ha spinto la società civile a raggiungere una capacità di proposta di alternative politiche complessive, con un ruolo vicario nei confronti di una politica il più delle volte non più in grado di costruire sintesi. Tutte e tre le forme in cui in passato si è consolidato il rapporto tra società civile e politica presuppongono un sistema politico permeabile, capace di ricevere stimoli e di istituire un rapporto fecondo, nella reciproca autonomia, con la società civile. Anche l’idea di proposte politiche che partano dalla società civile assume in fondo l’idea che sia possibile un cambiamento della politica, e lo cerca di raggiungere con un percorso dal basso: è per questo che abbiamo parlato di "globalizzazione dal basso" proposta dai movimenti. E' un percorso ben diverso da quello "illuminista" che ha segnato la politica negli ultimi due secoli: l'idea di un cambiamento "dall'alto", attraverso la definizione di regole universali, obbligatorie e legittimate attraverso un processo democratico (o una rivoluzione, come quelle americana, francese e sovietica) che all'interno di un paese può introdurre cambiamenti nella politica, nell'economia e nella società. Questa idea è diventata sempre meno corrispondente alla realtà per la perdita da parte della politica nazionale della capacità regolare i comportamenti economici (e sociali) che travalicano sempre più i confini nazionali, ma si è rivelata inadeguata anche in linea di principio. Anche nei casi in cui - come nei paesi del terzo mondo decolonizzati, oltre che nell’Unione Sovietica - il potere politico nazionale è stato conquistato in nome dei diritti, dell’uguaglianza, della giustizia sociale, della pace, le istanze di cambiamento e di democrazia sono state schiacciate dalla logica del potere e da un’idea di sviluppo economico priva di alcun riferimento alla qualità umana e ambientale dello sviluppo. La politica ha smarrito i propri valori di riferimento e qualunque dimensione etica. I mezzi, oltre ad essersi rivelati sempre più inefficaci sui fini, li hanno quasi sempre snaturati.
Da qui la ricerca di nuovi percorsi della politica, in cui la società civile è meno disposta a delegare le proprie richieste alla sfera della politica. Si potrebbe dire che alle tre p - protesta, pressione, progetto – oggi i nuovi movimenti ne vogliono aggiungere una quarta: quella delle pratiche.Una politica che si è sganciata dai valori dei comportamenti sociali, spinge la società stessa a riscoprire l’etica e i comportamenti come uno degli elementi fondativi dell’azione sociale.
Pratiche alternative, come il commercio equo e solidale, la finanza etica, la cooperazione decentrata, lo sviluppo del terzo settore su una base solidaristica, diventano nuove strade attraverso le quali si tenta di intrecciare i tre piani rappresentati da un orizzonte di trasformazione politica generale, dalla ricerca di risultati concreti, e dal richiamo alla trasformazione dei comportamenti individuali. Vendere e acquistare caffè del commercio equo e solidale, al di fuori della rete delle multinazionali agro-alimentari, diventa un modo per diffondere la consapevolezza che le regole sbagliate del commercio internazionale schiacciano le possibilità di sviluppo di comunità che si trovano dall’altra parte del mondo. Permette ad una cooperativa di coltivatori africani di vivere producendo il caffè che noi consumiamo, ma richiama il fatto che noi, come consumatori, ma anche come lavoratori e risparmiatori, abbiamo la responsabilità dei nostri modelli di vita: nei confronti di noi stessi, di altri esseri umani e delle generazioni future. E' chiaro che il commercio equo e solidale non può cambiare direttamente le regole del commercio internazionale, ma può dimostrare come esiti e valori, politica e modelli di comportamento oggi non possano più essere dissociati.


I processi scatenati dalla globalizzazione neoliberista sono intervenuti, sconvolgendoli, in meccanismi centrali della riproduzione sociale. In che modo queste nuove forme di azione sociale, in cui politica, società e comportamenti individuali provano a presentarsi come tre piani non più dissociabili, possono contribuire a riancorare l’economia all’interno della società e dei suoi processi?

Le trasformazioni dell’attuale fase capitalistica hanno sconvolto le strutture sociali al Nord come al Sud: il primo ha visto deindustrializzazione, diseguaglianze, esclusione sociale e politica; al Sud l'integrazione nel mercato mondiale ha distrutto le comunità tradizionali. In entrambi i casi sono state frammentate e scomposte le identità sociali, economiche e politiche. Le nuove esperienze che nascono dalla società civile cercano di riavvicinare mezzi e fini, possono ricreare nuove connessioni nelle identità delle persone, tra il ruolo economico di lavoratore, la posizione politica di cittadino, e la dimensione sociale di soggetto che appartiene a una comunità. Ma è chiaro che ciò che si può fare all'interno della sfera della società civile è limitato; ci sono esperienza di riconnessione di tessuti sociali, dove la società stessa è diventata soggetto economico e politico, come per esempio in Argentina nel caso della rete di fabbriche occupate e gestite dai lavoratori, che esercita un'importante influenza politica. Ma sono piccole esperienze, emerse in situazioni estreme; le dinamiche sociali continuano ad aver bisogno di un'economia che le riconosca e di una politica che le rappresenti.

Abbiamo parlato della società civile organizzata come un veicolo di promozione di democrazia. Non stiamo sopravvalutando però il potenziale di riattivazione critica della sfera pubblica e, soprattutto, sottovalutando i pericoli di involuzione che si nascondono sempre dietro un eccessivo protagonismo della società non riarticolato nelle forme tradizionali della politica?

E’ chiaro che l’espansione eccessiva della società civile può aprire la strada a orizzonti pericolosi. Finora abbiamo parlato della società civile come portatrice di un’idea di bene comune e come un ambito che, in nome della tutela dei diritti umani e della pace, dei principi di libertà, uguaglianza e fraternità, e della protezione dell’ambiente, tenta di ricollegare in maniera virtuosa dimensione locale, dimensione nazionale e dimensione sovranazionale.Gran parte delle esperienze della società civile globale si muovono in questa direzione, ma esistono dimensioni e iniziative che si muovono in direzioni opposte, rispondendo ai disastri della globlalizzazione neoliberista in modo regressivo, con un recupero di identità pre-moderne, fondamentalistiche e anti-universalistiche. E non sto parlando solo del fondamentalismo islamico o delle guerre civili e tribali in Africa, ma anche della recente guerra nei Balcani, o di casa nostra: delle derive secessioniste dei leghisti della "Padania" o del nuovo fondamentalismo cristiano che, con il nuovo papa, dall'America sembra sbarcare anche in Italia. Tutti fenomeni in cui lo spazio lasciato vuoto da una politica che non è più sostenuta dal dinamismo dell'economia e che ha reciso le sue radici e i suoi legami con il sociale, viene occupata da soggetti che hanno una idea delle identità e del sociale che è regressiva, antiuniuversalistica e antidemocratica. In questi processi il dissolversi della capacità dello Stato nazione di assicurare sviluppo e integrazione sociale, e quindi la crisi della sua stessa legittimità, va di pari passo con l’emergere di un localismo esasperato e la riscoperta di radici e tradizioni anti-illuministe.
Tutto questo produrrà problemi inediti tanto alla società civile democratica, quanto alla politica, che si vedrà costretta sempre più a mediare tra soggetti che affondano le proprie radici non più soltanto in interessi negoziabili, ma anche in identità non più negoziabili. L’orizzonte che ci aspetta è preoccupante: se la sfera politica tradizionale continuerà a non avvicinarsi alla società civile, la politica si troverà costretta a mediare tra questioni sempre più difficili da riconciliare, mentre dentro la società civile stessa, si creeranno contraddizioni legate alla messa in discussione dell’orizzonte democratico e universalista.
Se vogliamo tornare al nostro parallelo storico, queste stesse contraddizioni hanno segnato gli anni della prima guerra mondiale, gli anni '20 e '30: allora le spinte universaliste, democratiche e solidaristiche vennero sconfitte, e questo anche dentro gli stessi partiti socialdemocratici. Questa volta forse la "seconda superpotenza" è più forte e meno "nazionalizzata". Certo è che, per impedire la regressione nella barbarie, negli "scontri di civiltà" e nelle "guerre preventive", l'unica carta è rimettere la democrazia nel cuore della politica: a livello locale, nazionale e globale.

Brutte notizie in questo senso ci arrivano pure se consideriamo un altro ambito oggi sempre più decisivo per la formazione dell' opinione pubblica: quello dei mass-media.

Brutte davvero. I media oggi rappresentano il mondo del "pensiero unico" neoliberale, sono sempre più controllati da oligarchie economiche e subalterni ai poteri politici; invadono inoltre terreni che prima erano lasciati a complessi processi sociali di costruzione e rappresentazione delle identità. Producono consenso, assuefazione, superficialità, standardizzazione e omologazione sociale. Forse l’unica alternativa è quella di spegnere la televisione, e di usare e costruirci nuovi media in cui possiamo reimpossessarci davvero della comunicazione.


PUBBLICATO IL : 22-10-2005


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