Saskia Sassen insegna sociologia all'Università di Chicago e alla London
School of Economics in qualità di 'Visiting professor'. Considerata fra
i teorici di spicco della società dell'informazione, la Sassen ha acquistato
fama e prestigio con il libro 'Global city' (1991). Tra le sue pubblicazioni
recenti ricordiamo: Guests and Aliens (1999), Globalization and its Discontents
(1998), 'Losing Control? Sovereignty in an Age of Globalization' (1996). I libri
della Sassen sono stati tradotti in tre lingue. Fra i libri tradotti e pubblicati
in Italiano ricordiamo: 'Città globali' Utet, Torino,1997; Fuori controllo,
Il Saggiatore, Milano,1998; 'Migranti, coloni, rifugiati. Dall'emigrazione di
massa alla fortezza Europa', Feltrinelli, Milano, 1999. Attualmente la Sassen
sta completando il libro 'Cities and their Crossborder Networks'. Fra i progetti
di ricerca che sta portando avanti ricordiamo il progetto 'Governance and Accountability
in a Global Economy.'
L’impressione che si è ricevuta in occasione di manifestazioni
come quella del 15 febbraio 2003 contro la guerra americana in Iraq è
di essersi trovati di fronte a nuove forme di agire collettivo, difficili da
inquadrare in consolidate categorie di analisi. Al di là del dato numerico
e del carattere internazionale della protesta, ciò che sorprende ogni
volta è che mobilitazioni di questo tipo proteste si giocano quasi completamente
al di fuori dei tradizionali canali di mediazione politica. Partiamo allora
da questo dato che è quello più evidente : qualcosa nei vecchi
canali di mediazione politica non funziona più e qualcosa di inedito
sembra prenderne il posto. Quali sono le caratteristiche dei nuovi movimenti
e perché i vecchi canali di mediazione politica sembrano essere entrati
irrimediabilmente in crisi?
Il successo dei vecchi canali di mediazione politica era legato all’esistenza
di realtà sociali determinate e a possibilità concrete di trasformazione,
ma il mondo ha subito un’accelerazione e una trasformazione radicale negli
ultimi venti anni. Non è che partiti e sindacati abbiano commesso errori
o siano responsabili di colpe, è semplicemente che hanno perso il loro
terreno di radicamento. Il sindacalismo in particolare ha fatto uscire il sistema
capitalistico da una fase di accumulazione primaria e lo ha costretto a confrontarsi
con istanze sociali e principi di giustizia. Il risultato è stato un
orientamento generalizzato verso politiche economiche keynesiane, che paradossalmente
sono state proprio quelle che hanno permesso al sistema capitalistico di rimanere
in piedi. Negli anni questo progetto però ha perso progressivamente terreno
e possibilità di riuscita su scala nazionale. Adesso, potremmo dire,
ci troviamo di nuovo in una fase di accumulazione primaria del capitalismo,
con problemi enormi di redistribuzione; il problema però è che
mancano ancora chiare strategie e soggetti definiti all’altezza della
società globale.
Un secondo fattore di crisi lo collegherei alla esplosione degli immaginari
politici avvenuto negli ultimi anni. Le interdipendenze provocate dalla globalizzazione
hanno prodotto l’effetto di scomporre l’universo politico in una
molteplicità di vettori e di direzioni prima impensabili. Il fatto che
oggi anche chi non viaggia può accedere ad un rete mondiale di informazioni
e contatti, provoca un rimescolamento di immaginari che ridimensiona simboli
e riferimenti del passato. Anche se i valori possono essere comuni - estensione
dei diritti fondamentali, giustizia sociale, etc.- l’effetto di questo
processo è che le forme empiriche che oggi assumono le proposte politiche
variano moltissimo. Alcuni si impegnano per l’ambiente, altri contro la
tortura, altri con il movimento gay. Ed è una diversità per certi
versi irriducibile. Siamo così catapultati in una realtà in cui
il nostro progetto non appare più l’unico progetto politico. In
una battuta potremmo dire che ciò che è successo è che
ciascuno di noi ha perso la propria innocenza politica.
Un terzo fattore di crisi della politica tradizionale potrebbe essere individuato
a mio avviso nel fatto che la perdita di potere dello stato nazionale crea più
cinismo. Venendo a mancare quella forza agglutinante al centro rappresentata
dallo stato nazionale, che offriva anche un orizzonte di cambiamento reale,
si è persa in molti la stessa fiducia di poter trasformare lo stato di
cose esistente. Nel ceto politico questo ha significato in molti casi la concentrazione
sulla mera lotta per il potere.
Se le forme del politico invalse nelle democrazie novecentesche sembrano entrare
in crisi, come effetto a catena una sorte analoga sembra subire lo spazio che
ha rappresentato per certi versi l’interfaccia del politico novecentesco,
cioè ciò che è stato nominato dalla categoria moderna di
opinione pubblica.
Il concetto di opinione pubblica ha subito negli ultimi anni un mutamento profondo
che ne ha snaturato il senso originario. E’ diventata sempre più
una nozione strumentalizzata. Oggi serve per lo più al potere economico-politico
e ai mass-media per controllare la società e immunizzarla da ogni sua
autentica dinamica pubblica.
Al contrario il concetto di sfera pubblica continua a conservare a parer mio
la sua validità e può servire a nominare dimensioni dell’accadere
sociale ben vive, anche se dislocate rispetto agli spazi tradizionali della
dinamica politica e sociale. Nei miei studi ho tentato di mostrare come un nuovo
fronte di attivazione della sfera pubblica sia individuabile paradossalmente
proprio nei luoghi in cui concretamente passano i processi di globalizzazione
capitalistica, cioè nel tessuto urbano delle cosiddette città
globali. Queste città, circa una quarantina nel mondo, sono attraversate
da due dinamiche opposte ma legate da una dialettica interna. Da una parte esse
sono lo spazio dove il capitale globalizzato, elettronico, elusivo, assolutamente
privato, diventa il nuovo motore di aggregazione, ridisegnando gli spazi stessi
della riproduzione sociale. In questo senso anch’esso assume una valenza
politica. Ma per altro verso è in questo stesso spazio urbano che tutta
l’amalgama crescente di persone esclusa da quei processi, le fasce della
popolazione povera, i migranti, ma anche i gay, i queers, e più in generale
tutta la gente che è fuori dai canali di riconoscimento ufficiali, trova
la possibilità di diventare forza sociale. E questo si badi ad un livello
che apparentemente è pre-politico. Io li chiamo i processi del “fare
presenza”, cioè i processi attraverso i quali queste persone si
riconoscono, vis à vis; e non in vista del potere, ma semplicemente come
soggetti investiti dalle stesse dinamiche di emarginazione, imparando a cogliere
gli uni negli altri analogie e ricorsività.
E’ chiaro che questo concetto di sfera pubblica ha poco o nulla a che
vedere con quello di opinione pubblica.
Lei sta dicendo cioè che lo spazio del politico viene a riconfigurarsi
perché oggi coinvolge fenomeni che prima venivano relegati nella mera
sfera dell’informale, del privato. Rimane il problema però di capire
come da queste forme di riaggregazione primaria si possa risalire alla costruzione
di nuovi soggetti, in grado di produrre progetti e intervenire concretamente
nella sfera delle decisioni.
E’ molto importante prima di tutto sottolineare il fatto, come lei diceva,
che oggi assume una valenza politica anche la semplice rivendicazione della
propria condizione esistenziale nella sua irriducibilità. Le madri de
majo in Argentina non sono semplicemente cittadini che lottano per i propri
diritti; tutto il senso della loro battaglia sta appunto nel presentarsi non
come soggetti politici, ma come madri, e come madri dei desaparecidos chiedono
giustizia. Questo vale anche per i gay, e per tutti i movimenti di questo genere.
E’ chiaro comunque che l’esigenza di forme di sintesi esiste.
Il forum di Porto Alegre è già una prima ricerca in questa direzione
da parte di soggetti che non si sentono rappresentati, questo come ho già
detto è molto importante.
Ma dobbiamo considerare un terzo aspetto, per me molto importante. Con qualche
riserva io considero la categoria di moltitudine utile, a costo di
depurarla dal suo carattere di astrattezza e soprattutto dalla sua tendenza
a ghettizzare i fenomeni che intende descrivere. Mi sembra che riesca a nominare
qualcosa, cioè il fatto che ci sono oggi tre miliardi di persone nel
mondo completamente out, fuori da ogni canale di integrazione sociale. Beh,
se noi entriamo in questo immenso mondo sommerso, scopriamo che ci sono già
lì dentro micro-infrastrutture politiche che lavorano creando prime forme
di sintesi e sovrapposizioni. Sono quelle che io chiamo “le pratiche degli
esclusi”. Sono punti di partenza da cui si può cominciare a tessere
reti. Trovo decisivo la funzione che in queste pratiche ha il narrare, il raccontare
le proprie piccole esperienze di rivendicazione di diritti, perché questo
permette ad altri di riconoscersi e di sedimentare una memoria in grado di produrre
reale esperienza. Il concetto di moltitudine non va certo nella direzione di
una sintesi politica nel senso tradizionale, del partito o del sindacato, ma
può descrivere questo processo di diffusione a rete che mi sembra l’unico
punto di partenza possibile in questi contesti per ricominciare a rimettere
la storia in cammino.
Non stiamo forse sopravvalutando le potenzialità di riattivazione
della sfera pubblica? La corrosione dei vecchi canali di integrazione sociale
rende comunque la società più esposta a involversi in dinamiche
di atomizzazione sociale e a subire il condizionamento dei mass-media, che oggi
contribuiscono in gran parte a produrre omologazione, passività, malleabilità.
Sono d’accordo. Tutto quello che ho descritto riguarda delle minoranze.
A Porto Alegre erano non più di 70 mila, ben poca cosa rispetto alle
maggioranze dei paesi coinvolti da quell’evento. Negli Stati Uniti per
esempio, al di là della popolazione coinvolta nel sistema politico tradizionale,
il livello di attivazione politica è completamente sottosviluppato.
Ed è anche vero che i mass-media svolgono ormai una funzione centrale
nella formazione della volontà politica. Sono diventati ormai i veri
protagonisti delle campagne elettorali. Basta vedere quello che è successo
nelle presidenziali statunitensi. Comunque ci sono segnali interessanti a parer
mio anche su questo versante. La teatralizzazione della politica ha spinto molti,
nei nuovi movimenti, a forme di mobilitazione artistiche molto intelligenti
che hanno l’obiettivo di entrare in lotta per la conquista dell’egemonia
degli immaginari mediatici.
Ma certo rimane il fatto che parliamo di minoranze, il vero dato è che
le società occidentale in questo momento sono molto passive e io direi
che più che individualistiche e atomistiche, sembrano essere attraversata
da processi, veramente inquietanti, di massificazione.
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