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La politica al tempo della globalizzazione
di Giorgio Fazio

 

Il tema che rimane costantemente sullo sfondo delle tre interviste qui presentate - con le quali si dà avvio sul Giornaledifilosofia.net ad un percorso di riflessione a più voci sul tema “la politica al tempo della globalizzazione”- non è altro che una presa d’atto, tutt’altro che nuova: gli spazi e i tempi della politica, nelle società odierne e su scala globale, sono visibilmente in crisi. Se si assume per politica quanto si è venuto concretizzando nelle esperienze più mature delle democrazie novecentesche – dove, rischiando di semplificare, essa è stata una dimensione dell’accadere sociale che ha avuto come proprio livello di condensazione principale le grandi organizzazioni di massa come i partiti e i sindacati, il quasi esclusivo spazio di esercizio in territori circoscritti dai confini nazionali e i propri tempi scanditi dalle procedure delle democrazie parlamentari. E se ci si riferisce alle due funzioni fondamentali nelle quali in passato si è concretizzata la politica e la sua opera: da una parte la formazione, l’espressione e la rappresentazione sulla scena pubblica di interessi e valori collettivi; dall’altra la mediazione, il confronto e la traduzione di quegli interessi e di quei valori in decisioni aventi la capacità di produrre nuove normazioni di carattere coercitivo.
La presa d’atto che rimane implicitamente sullo sfondo di queste interviste è che questa politica riesce a consegnarsi alla rappresentazione pubblica quasi ormai solo sotto le forme della difficoltà e della debolezza, del ritardo e dell’inadeguatezza, al limite sotto le vesti della sua semplice assenza o più o meno colpevole mancanza; i tempi e i luoghi delle sue decisioni avendo perso gran parte del loro grado di realtà, e la sua capacità di intercettare bisogni, riconoscere interessi e offrire orizzonti di trasformazione mobilitanti apparendo seriamente pregiudicata.
Stretta tra globalizzazione dei processi produttivi e segmentazione del lavoro, tra de-nazionalizzazione e atomizzazione del corpo sociale, tra diffusione delle fonti normative e concentrazione dei poteri economici, la sensazione che attraversa le interviste è che la politica oggi si presenti spesso semplicemente come l’immagine sfocata di tempi trascorsi, mimati a volte in forme caricaturali, dietro le quali si nasconde spesso la semplice realtà di un’incapacità radicale ad accordarsi con i movimenti di un tempo in cambiamento. Quasi sempre inseguito senza un orientamento proprio e autonome griglie interpretative.
Se si è tentato di leggere in questi fenomeni i segni di un tramonto destinale della politica, le interviste qui presentate, al contrario, partono dall’assunto che debbano essere interpretati, più semplicemente, come il segnale che sia necessario oggi sottoporre la politica ad un processo di radicale riorientamento culturale.
Come affermano tanto Mario Pianta quanto Saskia Sassen, nelle esperienze più compiute delle democrazie nazionali, l’equilibrio virtuoso venutosi a creare tra politica e dimensione complessiva dell’accadere sociale si reggeva spesso sul dato di fatto che la società nel suo insieme riusciva a restituire di sé un’immagine dai contorni maggiormente stabili e netti rispetto al presente e, con un più elevato grado di definizione, consentiva inoltre di riconoscere le geografie dei soggetti sociali e degli interessi di cui essi erano portatori.
Oltre a questo dato di fatto, si potrebbe aggiungere che ad animare la politica del passato vi era spesso la fiducia che la dinamica sociale, messa in movimento dai processi di produzione capitalistici nel suo stadio di sviluppo fordista, generasse da sé, sotto forma di aggregazioni sociali createsi intorno ad interessi non riconosciuti, i propri anticorpi alle polarizzazioni e alle disuguaglianze prodotte dallo sviluppo economico. Fiducia che aveva come suo naturale corollario l’idea secondo cui la politica stessa dovesse essere un ambito distinto dalla società e che nella società stessa fosse da far valere una ben marcata divisione di ruoli: alle rappresentanze sociali il compito di portare ad espressione gli interessi a partire dai luoghi in cui essi si formano e si cristallizzano e ad un ceto distinto il compito di tradurre quegli stessi interessi in programmi e decisioni, entrando così nel vivo della vera e propria battaglia politica.
L’assunto di partenza delle tre interviste è allora più concretamente che questa forma mentis è oggi difficilmente perseguibile per un dato storico e oggettivo: la dinamica della globalizzazione, infatti, ben lungi dall’aggregare, seppure a contrario, soggetti collettivi, sta creando una scomposizione e moltiplicazione senza precedenti degli aggregati sociali in cui gli interessi giungono ad auto-rappresentazione o, travolti e sommersi, non giungono a rappresentazione affatto. E non lascia nemmeno presagire come da questa molteplicità si possano ricostruire politicamente soggetti unitari in grado di imitare le forme e i modelli organizzativi del Novecento.
I piani che nelle interviste vengono richiamati per articolare questo discorso sono di tre tipi. Il primo è di taglio sociologico: nelle interviste viene richiamata la parabola di consumazione dei vincoli di socializzazione tradizionale che si sta attuando nel Sud del mondo, dove, come ricorda Pianta, l’ingresso nei mercati globalizzati sta disarticolando repentinamente i tessuti delle comunità locali. Il secondo è di natura strettamente economica: le trasformazioni degli assetti produttivi avviate grazie all’introduzione delle nuove tecnologie e l’implementazione di politiche di deregolamentazione e di compressione dei diritti sociali, con i loro effetti a catena di segmentazione e scomposizione del mondo del lavoro. Il terzo è infine di natura culturale, in quanto vengono richiamati i fenomeni di sovrapposizione, contaminazione e riconfigurazione degli immaginari simbolici indotti dal potere di diffusione e di comunicazione globali dei vecchi e nuovi media, nonché i flussi di migrazioni di massa incrementatisi negli ultimi anni, di cui uno degli effetti più vistosi, nominato da Saskia Sassen, è quello della “perdita di forza agglutinante verso il centro”, venutasi a creare con la crisi simbolica, oltre che politica, dello Stato-nazione.
Tali piani di discorso tendono a mettere in evidenza come le trasformazioni prodotte dai processi di globalizzazione economica, finanziaria, tecnologica e culturale sottraggono il terreno a vecchi motori di aggregazione collettiva senza restituirne di nuovi; e, soprattutto, intervengono nel cuore di meccanismi centrali di formazione delle identità: da una parte rendendole più fluide e recettive, dall’altra, però, dematerializzandole o semplicemente annientandole, creando dei vuoti e delle inedite mancanze.
Il punto su cui da ultimo sembrano incontrarsi le argomentazioni sviluppate nelle interviste quindi è che, insieme a esclusione sociale e a enormi disuguaglianze economiche, le trasformazioni oggi in atto stanno sollevando inedite domande di riconoscimento e nuovi bisogni di identificazione; bisogni che, nonostante siano immateriali e non sempre univocamente riconducibili ad interessi, sono a ben guardare decisivi oggi proprio per la partita della politica.
Deve essere ricondotto a ciò il motivo per cui, alla domanda sulle prospettive future della politica, l’attenzione degli intervistati viene a spostarsi automaticamente, anche se con sfumature diverse, su terreni tradizionalmente considerati pre-politici. Come a registrare il fatto che, venuti meno molti dei riferimenti giuridici, sociali, economici, culturali del passato, a balzare in primo piano non possono non essere i luoghi dove vengono a generarsi i nuovi bisogni di riconoscimento e identificazione. Proprio quanto non può essere più considerato come base di partenza per programmi di aggregazione elaborati ad un livello meramente politico, proprio ciò in cui l’effetto spaesante della perdita di garanzie ed assicurazioni dischiude soglie antropologiche di apertura fatte di nuovi bisogni, di movimentazione continua di identità, ma anche di esposizione alla volubilità, al rischio e, ovviamente, alla manipolazione e al controllo.
Nel corso delle interviste vengono richiamati in particolare due fronti nei quali quei bisogni, invece di essere riconosciuti, stanno trovando pericolosamente la strada di quelli che potrebbero essere definiti processi etero-diretti di sublimazione e di rimozione.
Infatti, da una parte viene fatta menzione del potere di disturbo sui meccanismi di formazione dell’immaginario detenuto dal mezzo televisivo e, più in generale, dall’industria dilagante dell’entertainment e dello svago. A conferma della tesi secondo cui le forme della produzione capitalistica tendono oggi a colonizzare, mercificandoli e sottraendoli al loro naturale e libero sviluppo, processi essenziali di socializzazione e di espressione umana. Vendendo esperienze e stili di vita più che semplici merci tangibili, s’istituisce un processo nel quale la soddisfazione mediata dal denaro dei nuovi bisogni immateriali rende il loro appagamento relazionale sempre più lontano.
D’altra parte si fa riferimento al fenomeno per cui soggetti che vogliono sottrarsi agli invasivi processi di mercificazione economica trovano sempre più risposte in programmi anti-universalistici di critica della Modernità, che riescono ad occupare gli spazi gestiti in passato dalle forme della politica democratica, veicolando modelli di socializzazione identitaria e puntando a ridefinire, intervenendo direttamente nella sfera politica, la griglia dei diritti civili normata nei decenni trascorsi (su questo si veda quanto afferma Micheal Albert sul nuovo fondamentalismo religioso dell’amministrazione Bush e Mario Pianta sulle vicende relative all’elezione del nuovo papa). Modelli che, sgravando gli individui dal peso di difficili scelte esistenziali, hanno il vantaggio di fornire contesti di rassicurazione e appartenenza comunitaria.
La conseguenza che è possibile trarre da tali argomentazioni indica come i problemi che la politica si trova oggi costretta a sciogliere, per riuscire a stare al passo con tempi ed esigenze mutati, non possono essere più riducibili a quelli della elaborazione di contenuti programmatici e della costruzione di ambiti di partecipazione pubblica, finalizzati a far sì che ciascun singolo sia facilitato a riconoscere l’interesse che, in quanto membro di un collettivo, gli è già proprio. Ben al di là di questo, la sua possibilità di riprendere terreno è legata alla capacità di mostrare attenzione alle domande di riconoscimento e, quindi, di senso delle particolarità individuali come tali. Quelle domande che, appena emerse, si stanno spegnendo nelle nuove merci immateriali da una parte e nelle derive neo-fondamentalistiche dall’altra.
A conferma di ciò viene richiamato il fenomeno sul quale in ultima analisi maggiormente vengono interpellati i tre intervistati: l’irruzione sulla scena pubblica globale registratasi negli ultimi anni di nuove forme di impegno pubblico, giocate pressoché per intero al di fuori dei tradizionali canali di mediazione politica. Forme che, se hanno una radice storica in quei movimenti contemporaneamente volti all’ottenimento di risultati concreti e alla trasformazione delle strutture della mentalità, come il femminismo, l’ambientalismo, il pacifismo, come ricorda Mario Pianta, rappresentano d’altro canto una netta cesura rispetto al passato per il modello di interdipendenza a rete tra dimensione locale e dimensione globale che riescono a mettere in atto, facendo uso dei mezzi tecnologici della nuova economia, ribaltandoli però di senso rispetto alla loro direzione di utilizzo originaria. Forme di partecipazione e impegno politico, inoltre, meno astratte rispetto a quelle sperimentate nei partiti e dove il singolo individuo riesce a trovare più risposte ai bisogni e ai desideri, spesso frammentati anche al proprio interno, di identificazione sociale, di impegno etico e di partecipazione e confronto pubblico, avendo la possibilità di inscrivere quegli stessi in un orizzonte che da quella del vicinato, saltando la dimensione nazionale, raggiunge molto spesso direttamente quella globale. Contesti d’altro lato particolarmente fragili e, se isolati e non sorretti da risposte istituzionali, alla lunga destinati al fallimento.
Il messaggio che in conclusione sembrano voler lanciare gli intervistati è dunque che una politica in grado, tramite un nuovo impegno per i diritti e per la democrazia, di stare all’altezza della sfida lanciata dalle nuove domande di liberazione individuale da una parte e di riconoscimento economico-sociale e protezione solidale dall’altra, emerse con l’avanzata dei processi di globalizzazione, non può essere che una politica in grado di entrare in un rapporto di tensione oppositiva con due fondamentali principi guida del suo recente passato.
Il primo è l’idea, assunta quasi come una legge di natura nel Novecento, secondo la quale sul banco degli interessi collettivi e dei principi di giustizia possano esser sacrificati i valori morali e i mezzi dell’agire pubblico. Una politica capace di entrare sul terreno aspro, ma sempre più decisivo, della costruzione, del confronto, dello scontro e del tentativo di mediazione tra identità e valori dovrà essere costretta a sperimentare, come afferma Mario Pianta, che per raggiungere l’obiettivo della giustizia sociale, riaggregando e portando ad espressione gli interessi esclusi dai meccanismi di redistribuzione della ricchezza, questi stessi interessi, di per sé soli, faranno paradossalmente sempre più fatica a trasformarsi in canali di mobilitazione e partecipazione. La testimonianza che saprà dare di sé e la promozione che saprà risvegliare nel corpo sociale di prassi etiche e stili di vita alternativi costituiranno uno dei principali volani con cui essa potrà ri-identificare e ri-aggregare.
Il secondo è quella convinzione che ha attraversato come una bussola le forme della politica nel secolo trascorso, la convinzione secondo la quale siano da perseguire ad ogni costo l’unità e la centralità come ultime forme della propria organizzazione e auto-rappresentazione. Non rinunciando alla sua vocazione alla sintesi, come afferma Saskia Sassen, la politica dovrà essere costretta ad accettare il fatto che il potere - a tutti i livelli, locale, nazionale, regionale e globale - sarà in futuro sempre più funzione diretta della capacità di creare reti e stabilire connessioni tra realtà molteplici, piuttosto che capacità di conquistare un palazzo che, come unico luogo del potere stesso, non esiste più.
Come si potrebbe dire in altro modo: accettare il fatto che quell’universale che, sotto la figura della classe si era pensato di riconoscere come via d’uscita dal dominio, è qualcosa di non dato, ma da costruire a partire dall’universale riconoscimento degli irriducibili bisogni e delle tante domande delle molteplici persone, vedendo in questo stesso riconoscimento la strada principale per far sì che al centro dell’agenda collettiva possa ritornare il tema dell’emancipazione umana.


PUBBLICATO IL : 24-10-2005


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