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L’essere umano: un progetto stazionario? Riflessioni sul volume di Eugenio Mazzarella "Vie d'uscita"
di Giorgio Fazio

 

Per discutere il “programma stazionario metafisico” consegnato alle pagine iniziali dell´ ultimo lavoro di Eugenio Mazzarella Vie d’uscita è necessario ricostruire preliminarmente l’impostazione teoretica complessiva che ne fa da sfondo e da quadro di fondazione. Tale impostazione, già ampiamente articolata nella produzione precedente, sembra tuttavia trovare in quest’ultimo lavoro del filosofo un definitivo approdo concettuale, facilitandone per certi versi il lavoro di sintesi. Per dare avvio a quest’analisi preparatoria può essere utile partire da uno dei capitoli conclusivi del libro, che già dal titolo - Che cosa è metafisica? –si presenta come una serrata ripresa e riformulazione di questioni heideggeriane.
L’assunto centrale da cui Mazzarella parte, per rispondere all’interrogativo con cui si apriva la prolusione heideggeriana del ’29, è che l’evento di natura affatto particolare in cui consiste la metafisica ha una dinamica costitutivamente paradossale: per un verso, infatti, quella forma di trascendenza che in essa viene messa ogni volta in opera non può non coincidere con un sapere – sapere che quindi, come condizione di possibilità del darsi di una trascendenza stessa come metafisica, deve essere per un verso prius. Per altro verso, però, ciò che caratterizza specificamente un sapere metafisico è il proprio dar conto di essere in differimento costitutivo verso qualcos’altro e di avere la propria condizione di possibilità fuori di sé; in altre parole di non essere prius.
E’ questo movimento dell’autoavvertirsi come sapere che, trascendendo un mondo, da esso si separa, riuscendo a dar conto nello stesso tempo che quel mondo è ciò che accorda la possibilità del proprio trascendimento. Questo saper-si infondato ed esposto, riconoscendo al contempo il proprio debito per questa esposizione, è quanto la storia del pensiero metafisico, come pensiero rivolto alla totalità e alla sua origine – come afferma Mazzarella seguendo su questo punto Heidegger - ha da sempre in qualche modo mancato, tramandandolo sotto forma di tradimento. E questo per il motivo al fondo semplice che ciò nei cui confronti il sapere metafisico dovrebbe avvertirsi ogni volta in differimento è anche quanto lo costringe a dimettere ogni pretesa fondativa; come quella che subito dopo il suo accadere originario ha accompagnato il tentativo platonico-aristotelico di sistematizzare l’essere in principi e regioni e come quella che, al termine estremo della sua parabola, sottende l’attuale tentativo di macchinazione tecnica del mondo, che di quella sistematizzazione rappresenta l’ultima ed estrema deriva storica.
La prima domanda che occorre formulare per comprendere il discorso teoretico di Mazzarella - e che ci capiterà di riformulare diverse volte nel corso della presente lettura - è cosa rappresenti più precisamente per lui quel fondo nei cui confronti il sapere che accade come trascendenza metafisica, a costo di perdere il suo movimento genuino, non può non riconoscersi ogni volta in debito.
Gran parte dello sforzo teoretico di Mazzarella nel corso degli anni è stato quello di pensare all’insegna di una fedeltà radicale al verdetto nietzscheano della “morte di Dio”, assumendo quest’ultimo come una sorta di correttivo di immanentizzazione rispetto ad una  tensione ineliminabilmente inscritta nella tesi heideggeriana della fine della metafisica come onto-teo-logia: sciogliere la questione ontologica, riproposta in virtù del congedo dalla metafisica, da ogni riferimento al sostrato ontico in cui tale questione a ben vedere si pone. Per Mazzarella, “morte di Dio” vuol dire innanzitutto assunzione radicale della scomparsa dall’orizzonte del pensare contemporaneo di ogni possibilità di riferimento ad un Assoluto meta-oggettivo, come fondamento in grado di assicurare, con l’ente in generale, la stessa prassi umana. Ma “morte di Dio” vuol dire anche assunzione che qualsiasi riferimento all’essere, dopo la metafisica, altro non può essere da quell’eccedenza che, nel momento in cui il pensiero si discosta dall’ente aprendo con questo una soglia minima di trascendenza, emerge come inafferrabile e inconcettualizzabile Physis. Al termine di un processo di progressivi e inesorabili disincantamenti, è quanto nella sistematica aristotelica era essere secondo rispetto ad un essere meta-fisico che, scomparso quest’ultimo, il pensiero non può non avvertire come prius: come fondo e mistero in cui il suo accadere è già da sempre incluso e superato; come in ultima istanza dono, se è vero che è grazie al suo stesso irrecuperabile darsi come vita, e vita biologica, che il pensiero può essere, sempre ex-post, in atto.
“Alla fine della modernità, la filosofia seconda come cura esclusiva della propria Physis - che solo questo può esserci, non essendoci più alcun altra “salvezza” ultramondana da tutelare - si è fatta tout court prote filosòfìa, la prima e l’ultima filosofia: resistere in un universo che è tutto movimento, puro divenire.” (p.27) Un sapere che secondo Mazzarella era già deposito immanente dell’esperienza tragica, nella misura in cui non alienava da sé la consapevolezza della fatica dei Bìoi ad emergere dalla Zoè e parimenti la cognizione della loro inesorabile traiettoria di ritorno in essa; ed un sapere che è racchiuso anche nell’esperienza cristiana della fede, nella misura in cui quest’ultima non lascia risolvere la salvezza del singolo con il suo sforzo etico di bene operare. 
Ora il punto è che per Mazzarella, tuttavia, oltre alla dinamica di capovolgimento che non può non investire la filosofia nell’atto della consumazione finale del suo oggetto tradizionale, c’è un motivo in più per cui Oggi essa assuma come compito quello di mantenere viva la memoria dell’eccedenza e dell’irrecuperabilità di una natura fisica risoltasi in Kìnesis, sul suo stesso darsi come sapere. L’esigenza è data dal fatto che i nuovi saperi bio-tecnologici, arrivati al punto di poter intervenire direttamente nella dinamica primaria della riproduzione del vivente, minacciano con questo di compromettere la condizione minima di riconnessione tra i saperi culturali e, al di là di ciò, del darsi stesso di un sapere che accade come metafisica: la possibilità del riferimento, con la Natura, nello stesso tempo ad un medesimo fondamento. Solamente l’Altro come vita biologica preservato nella sua dinamica originaria, infatti, afferma Mazzarella, può svolgere quel ruolo esiziale di contro-bilanciamento all’apertura antropologica di cui ogni sapere culturale è espressione: indicare un nucleo di invarianza a fondamento dell’essere umano il quale, per continuare a riconoscersi come tale e per non smarrire per sempre la possibilità di comprendere quale sia la sua identità, in quanto progetto indefinito e in continuo divenire, ha pur sempre bisogno di un elemento che permanga alla sua base come identico.
Per queste ragioni, contro i rischi apportati da un uso incontrollato delle bio-tecnologie è necessario promuovere secondo Mazzarella un “programma stazionario di identificazione umana”; e la filosofia, che per mancanza del suo oggetto tradizionale è destinata a trasformarsi in techne dell’origine come Physis – “sapere che se ne intende delle proprie condizioni di sussistenza” - è il sapere a cui solo Oggi è possibile attuare tale programma, in cui del resto ne va della sua stessa sopravvivenza. Con un distanziamento etico che è capacità e insieme testimonianza di saper nuovamente dimorare nel mondo, la filosofia deve porsi il compito di riportare alla memoria l’originarietà della Physis come Phylum, nel significato di perimetro biologico invariante della vita alla base di ogni variabile possibilità della cultura; in quanto secondo Mazzarella le istituzioni hanno fallito alla prova di cui le riteneva ancora capaci Gehlen, unico riferimento ancora in grado di far riassumere ad un mondo umano in preda ai suoi sogni di immortalità un principio di stabilizzazione e, ancor oltre, una misura della sua stessa creaturalità.
Per definire ancor meglio il quadro teoretico che sta alla base della proposta appena ricostruita è essenziale sciogliere una questione che si affaccia immediatamente alla mente del lettore esperto di cose filosofiche: che rapporto intercorre tra il concetto di Physis, a cui Mazzarella fa riferimento nel corso del volume, e il concetto di Physis presente negli scritti di Martin Heidegger. Secondo tutte le apparenze, infatti, a orientare il discorso di Mazzarella altro non è che quella costellazione di pensieri che nella sua tarda riflessione Heidegger viene a snodare intorno alla questione della Tecnica; in particolare il tema assunto a riferimento sembra essere quello veicolato dal concetto heideggeriano di Gelassenheit,che proprio nel riferimento alla Physis viene a trovare uno dei suoi punti di cristallizzazione più evidenti. L’impressione è rafforzata dal fatto che lo stesso Mazzarella articola il rapporto tra trascendenza filosofica e Physis parlando di quest’ultima come di un dono per un pensiero che, rendendo conto della sua appartenenza ad essa e “sapendo parlare il linguaggio della Gelassenheit, che alla tecnica, alla necessaria fiducia dell’uomo al suo sapere, (..) sa dire insieme sì e no” (p.40), è capace di ringraziare, di denken come danken. A ben vedere tuttavia le cose non sono così semplici ed è lo stesso Mazzarella che, per altri versi, sembra voler rimarcare il proprio distacco dal tracciato heideggeriano. Un punto, decisivo per la discussione della sua prospettiva, sembra chiarirlo molto bene.
Nel confronto diretto che istituisce con Heidegger nel capitolo Ontologia dell’essere secondo, infatti, il rimprovero centrale che Mazzarella gli muove è in ultima istanza di pensare il rapporto tra pensiero e Physis in termini, come si potrebbe dire, ontologico-eventuali. Infatti, afferma: “ancorché ancorata al lessico greco della Physis, l’ontologia fenomenologica heideggeriana non può che leggere questa che come gratuita necessità dell’evento, e questo come storico – giacché il filtro di questa lettura fenomenologica (..) è quello esistenziale dell’esperienza cristiana della vita come kairòs cui afferrarsi per il tempo debito, privata della trascendenza e addossata al tragico greco.” (p.41)
Secondo Mazzarella, l’effetto di questa illegittima commistione tra l’esperienza greca o tragica della Physis e l’esperienza kairologica cristiana della rivelazione è che, ritradotta in un contesto ontologico, quest’ultima viene a perdere ciò che di più specifico la caratterizza: con l’eventualità dell’appello, il riferimento all’eventualità della risposta. Risposta che nei confronti del Kairòs cristianamente inteso può essere data come non data, coincidendo con questa possibilità il carattere stesso della libertà di fede; fede che, da parte sua, oltre a tale spazio di libertà, per essere realmente tale, richiede l’invisibilità delle cose credute.
E’ proprio da questa mancata distinzione che scaturiscono per Mazzarella gli equivoci più pericolosi di tutta l’ontologia heideggeriana, che vengono ogni volta a prodursi, per l’appunto, come effetto del trasbordare di un linguaggio ontologico in un linguaggio appartenente al dominio della decisione morale: “la libertà dell’esserci per lui è saldamente ancorata ad un’idea di libertà come conformità all’essere, in ultima istanza all’eidos dell’evento, per quanto kairologicamente questo eidos sia pensato, imprescrutabile certo nel suo quando e perché, ma non per questo meno vincolante della necessità ontologica propria al pensiero greco.” (p.46) Ponendo un’equivalenza tra essere, manifestazione, verità, libertà, ciò che ne risulta in ultima istanza è che Heidegger non può che limitarsi a riconoscere alla libertà dell’esserci uno statuto semplicemente ontologico-“riflessivo”, in quanto l’Esserci, secondo Mazzarella, “non riflette e non può non riflettere l’unico veramente libero invio dell’essere come compaginarsi storico o della situazione”. “La Zeitlichkeit estatica nella sua compiutezza ontologica, cioè nella sua deliberata consapevolezza, non può essere altro che ri-flessione della Temporalität estatica dell’essere.” (p.48) E questo perché “la fede nelle cose invisibili (non verificata, o vivificata, ex auditu nella propria coscienza) è territorio intenibile per l’angoscia heideggeriana, che a qualcosa – di là dal nulla radicale - la necessità vincolante dell’evento che si dà allo sguardo, deve, e vuole, comunque legarsi”; vigendo ancora in Heidegger “la mitologia dell’occhio che non inganna, se purificato nella visione.” (p.47)
Mazzarella conclude su questo punto decisivo affermando come il problema della libertà umana sarebbe al contrario quello di inserire “una cesura in questa riconduzione della libertà umana alla riflessività della libertà dell’essere (..) Si tratta di recuperare all’esserci stesso quel carattere di Enteignis, di sottrazione al continuum dell’essere, di arbitrario ritrarsi che è nello stesso essere: di recuperare all’esserci umano il carattere veritativo, liberante di sottrarsi alla riflessione dell’annuncio dell’essere, l’arbitrio di negarsi a questo annuncio per un altro annuncio, magari posto da sé a se stesso.”(p.49)
Ma allora, di nuovo, se la Physis non può essere caricata di quel filtro guadagnato nel confronto con l’esperienza cristiana - cioè in sostanza letta come invio ontologico, nei cui confronti in “una mimesis della fede come fiducia, invocare una Gelassenheit come abbandono” tale da inglobare tutto lo spazio dell’azione umana e con questo di recidere ogni possibilità di gioco propriamente morale - come essa deve essere in ultima istanza concepita per Mazzarella?
Per rispondere definitivamente a questa domanda è possibile tornare al capitolo Che cosa è metafisica? e seguire l’interessante discussione che al termine di esso Mazzarella istituisce con il neoparmenidismo di Emanuele Severino. Nel corso di questo confronto Mazzarella afferma come per Physis debba essere inteso null’altro che il trascorrere del tutto, il risolversi cioè di ogni ente in movimento, dal suo essere ente al suo tornare al niente. Vale a dire, l’esperienza di un divenire che non rimanda ad altro che al suo stesso movimento a cui fa riferimento la dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno, imprimendo il sigillo della necessità su un divenire cosmico innocente in quanto a-sensato. Come viene argomentato, vedere in questo divenire autoreggentesi un’insostenibile contraddittorietà e per questo rimandare, o come il neo-parmenidismo di Severino in maniera contro-fenomenologica, alla incontrovertibile coincidenza di ogni ente con l’essere e con questo alla sua vera permanenza non diveniente, oppure, come Bontadini in maniera teologica, ad un principio creatore come garante del destino dell’ente stesso e del suo altrimenti inconcettualizzabile autonomo passare dal suo essere ente al niente, non sarebbe altro che una in-fedeltà. In-fedeltà di chi non riesce a sostare nell’irrequietezza del tempo, ma ha bisogno di un “mondo vero” dietro il “mondo dell’apparenza” per accettare quest’ultimo; mondo che, però, per un’ontologia che si voglia fenomenologica e constatativa – l’unica ad essere giustificata nel tempo della “morte di Dio” – non può che avere il carattere dell’intrascendibilità.
A ben vedere, tuttavia, il discorso di Mazzarella su una Physis risoltasi in divenire, non sembra terminare qui. In-fedeltà all’evento della “morte di Dio”, infatti, può voler dire paradossalmente anche, e proprio al contrario di quanto sembra, mancanza di fede nei confronti di qualcosa. E in effetti Mazzarella riconosce come anche un’ontologia del divenire, nel senso da lui difeso, sia affetta pur sempre da un inguaribile carattere di fede. Fede, però, non nel senso di credenza in qualcosa, come appunto un ente sommo o meta-oggettivo in grado di sgravare l’umanità contemporanea dalla condizione nichilistica e post-metafisico nella quale è gettata, ma, proprio al contrario, fede nel senso performativo di un atto constatativo, che nell’atto stesso della constatazione istituisce ciò a cui crede. Ma chi è allora che, riguardo al divenire di un universo risoltosi in Physis, nell’atto della sua constatazione, nello stesso tempo lo viene istituendo?
Ora, se per Mazzarella è la memoria di quell’indominabile radicamento originario che è la Physis a permettere alla trascendenza che si dà come sapere metafisico di non involgere nella sua distorsione rappresentativa trasformandosi in tecnica, è anche vero all’inverso che è solo grazie alla trascendenza metafisica che quello stesso fondo originario può essere avvertito. Svolgendo ancor oltre il ragionamento ciò significa che - e una conferma e contrario è data dal fatto che la prospettiva severiniana si presenta esplicitamente come un definitivo “oltrepassamento dell’uomo” – a fondare un’ontologia del divenire altro non può essere che l’assunzione a fondamento della riflessione dello stesso accadimento umano; nel momento in cui quest’ultimo, discostandosi dall’ente e aprendo in questo modo uno spazio di nulla, come evento della trascendenza meta-fisica constata un passaggio e, in questa constatazione, nello stesso tempo lo viene istituendo.
Che un’ontologia si arresti fenomenologicamente alla constatazione del divenire, dando conto della dialettica tra nulla ed ente che sta al fondo di questa constatazione e, individuando in questa stessa dialettica il senso dell’essere, dovrebbe cioe´significare in qualche modo arrestarsi all’evento minimo dell’istituzione antropologica del mondo; facendo a meno di un fondamento immutabile che, in quanto in grado di assicurare ai fenomeni una salvezza o un destino al di là del loro semplice trapassare, astrarrebbe nello stesso tempo dalla fondamentalità dell’accadimento umano nell’istituire e gestire tale trapassare. A costo di forzare il ragionamento di Mazzarella, fede nel divenire si dovrebbe rivelare quindi equivalente a fede dell’uomo, cioè alla capacità dell’uomo di avere fede, non altri che in se stesso come constatatore-istitutore del divenire.
 Mazzarella sembra assumere con coerenza le conseguenze di questa ontologia (che si potrebbe anche chiamare quindi antropologia) del divenire. Richiamandosi all’Heidegger primo-friburghese della fenomenologia della vita effettiva, infatti, dichiara di respingere esplicitamente una concezione della filosofia come teoria pura e come identità di pensiero ed essere, e di abbracciare al contrario una concezione della filosofia come ethos, nel significato di com-portamento originario: capacità di mantenere sempre aperto, tramite un atteggiamento, lo spazio di una differenza. Oltre a ciò, più volte nel corso del volume richiamandosi al Dilthey dell’Introduzione delle scienze dello Spirito, ribadisce la tesi secondo la quale nell’età nella quale ci è toccato in sorte di abitare, post-metafisica in quanto post-cristiana, la questione dell’essere si è trasformata, capovolgendosi nella questione della vita: “quell’escluso di principio dall’ontologia aristotelica, quel quasi non-essere che è posto al centro dell’esperienza cristiana della vita” (p.29). Come afferma in altro luogo, vita nel significato di “contingenza avveduta, che si avverte cioè come un colpo di dadi e non come un programma genetico della sostanza-mondo in sé logica e orienta alla logica”, come “capacità di assumere la propria natura, detto negativamente di non avere essenza (Hegel) detto positivamente di avere da essere il proprio progetto gettato (Heidegger).”(p.35)
Svolgendo queste argomentazioni sembra, tuttavia, di dover arrivare ad un punto diverso da quello da cui si era partiti; conseguenza del fatto che, se è vero che Physis, lungi dall’essere invio e accadimento dell’essere, altro non è che fondo pre-culturale diveniente, tra trascendenza come sapere e altro come Physis non si dà, né può darsi, alcun autentico movimento di riflessione. Riprendendo l’assunto iniziale, si potrebbe osservare allora come, nel momento in cui la trascendenza che si dà come sapere metafisico si avvede di essere in differimento verso qualcos’altro, questo qualcos’altro come Physis sembra non potere avere altro effetto che quello di far tornare la trascendenza verso di sé; facendola avvertire quindi proprio come, per certi versi, infondata.
E’ arrivati a questo punto che possono essere formulati gli interrogativi critici che l’intera proposta del filosofo sembra non potere non suscitare. Posto che la memoria tragica di questo fondo come Physis - tutelata da un pensiero che “solo nel dominio ontologico e non in quello morale può essere denken come danken” - possa davvero riuscire a far deporre il delirio di onnipotenza tecnico che attraversa il mondo contemporaneo, è sulle pretese più determinate che al di là di questo intento Mazzarella solleva con il richiamo alla Physis che infatti nascono dei dubbi.
Come viene spontaneo di chiedersi, infatti, che norma di invarianza è possibile trarre dalla Physis così come concettualizzata da Mazzarella, se non paradossalmente proprio quella di essere destinati a dover scegliere, in una sospensione priva di qualsiasi garanzia ontologica, l’identità che decidiamo di essere? E, quindi, l’appello alla “sacralità della vita”, come richiamo alla tutela di uno spettro di riconoscibilità antropologico-identitario inscritto nella natura cui attenersi in forma normativa, non è alla fine una ricaduta proprio in quella fenomenologia dell’evidenza che si è per altri versi drasticamente criticata in Heidegger? In quell’ossimoro di un’ontologia kairologica che veniva individuata come la ragione dell’assenza in Heidegger di un pensiero autenticamente morale e con questo di uno spazio concesso all’agire infondato dell’uomo? Non consegue cioè da quanto detto, che l’immagine della Natura a cui noi ogni volta concretamente ci possiamo appellare in funzione normativa, altro non può essere da ciò che noi stessi vogliamo e decidiamo ogni volta di divenire? Cos’altro può significare nell’età post-metafisica il richiamo etico alla tutela di uno sguardo sull’eccedenza della Physis, una volta declinato contenutisticamente, se non un modo di intendere la vita, un volersi decidere per una sua forma, piuttosto che per un’altra?
Il confronto con Mazzarella tuttavia non può arrestarsi alla formulazione di questi interrogativi, ma deve proseguire, a parere di chi scrive, ripartendo proprio da quell’idea di filosofia che lui stesso dichiara di assumere a orientamento di tutto il suo lavoro: filosofia come “pensiero dell’Oggi”, secondo le sue parole: “filia temporis, comprensione-attuazione del proprio tempo in pensieri”; come si potrebbe diversamente dire, radicalizzazione degli interrogativi che stanno al fondo del proprio tempo, affinché esso diventi sempre più tempo debito. Mantenendosi fermi su questa idea di filosofia, per proseguire il confronto con la prospettiva di Mazzarella, si potrebbe allora formulare questa ulteriore domanda: se con Physis non può essere heideggerianamente inteso l’invio di un accadimento ontologico che chiama il pensiero al compito di una risposta, a quale esigenza risponde un pensiero che si richiama nell’Oggi alla Physis?
Mazzarella dichiara di rispondere all’esigenza di preservare la possibilità di riconoscere un nucleo identitario dell’essere umano. Ciò che viene presupposto, dunque, è che un nucleo identitario dell’essere umano, invariabile ed universale, esista ma rischi di scomparire, coincidendo con quanto le nuove bio-tecnologie minacciano di compromettere in forma definitiva: quanto sta a monte di ogni cultura, la semplice dinamica riproduttiva della vita. Tuttavia si potrebbe osservare che due altri presupposti sembrano a ben vedere stare alla base dell’intero ragionamento di Mazzarella; due presupposti che quindi potrebbero servire a gettare luce proprio su quella situazione dell’Oggi a cui un pensiero del tempo deve corrispondere.
Il primo presupposto che sta a monte del ragionamento di Mazzarella è che il punto a cui è arrivato il procedere tecnologico – e, potremmo aggiungere, la struttura economica nella quale quel procedere solo si dà – pone come ormai ineludibile a tutti i livelli la questione di quale sia, se ci sia, un’identità umana; e, soprattutto, posto che ve ne sia una, quale sia la forma di vita in cui tale identità si lasci riconoscere. Il secondo è che, al di là della risposta che si intende dare a tale questione, non sembra esserci altra strada per scioglierla che assumerla eticamente, anche nel caso in cui questo ethos sia rivolto, più che al futuro, come nel caso di Mazzarella ad un passato immemoriale da tutelare.
Di fronte alla questione dell’identità umana come questione dell’Oggi, l’appello etico che Mazzarella solleva come via d’uscita è un appello se si vuole difensivo, mosso in fondo da una paura. Lo stesso sentimento che sta alla base di una delle diramazioni novecentesche più significative dell’universo heideggeriano: la filosofia di Hans Jonas, la cui proposta etica viene programmaticamente a sorreggersi su un’“euristica della paura”; sebbene, a dire il vero, in questa l’Altro biologico nei cui confronti la responsabilità collettiva viene chiamata ad attivarsi, più che per la sua capacità di indicare un nucleo di resistenza controdinamico, è quasi all’inverso richiamato per il modello teleologico che lo costituisce. Come afferma Mazzarella sulla scia di Jonas, dunque, alle estreme propaggini di un’età contrassegnata dall’aver celebrato in tutte le sue varianti possibili l’avventura dell’homo faber, è il più anti-eroico dei sentimenti che solo sembra avere qualcosa di vero ormai da comunicare.
Eppure, a ben vedere, paura può essere anche qualcosa di diverso da quella che spinge a indicare come via d’uscita ciò che la volontà uscita fuori da ogni cardine della Modernità non riconoscerebbe mai come tale. Paura infatti può essere anche quella che puo´ cogliere di fronte a quella stessa libertà infondata che siamo destinati ad assumerci nel tempo della fine della metafisica, di cui parla così bene Mazzarella quando, contro Heidegger, afferma che “un pensiero morale libero è un pensiero che si assume la responsabilità della sua radicale autonomia, che non ha la fallace pietas di abdicare alla sua sovranità, e non si rifugia nel vincolo di un decreto, in definitiva nell’anticipata excusatio (..) dell’ho obbedito ad un ordine. Il pensiero morale è sempre aperto, costitutivamente un bivio che può perderci.” E´ quella paura che a ben vedere, sembra guidare in maniera irriflessa tutte quelle voci, sempre più assordanti, che nell’Oggi frappongono ad ogni confronto inter-umano il richiamo alla tutela della Vita, come se poi esistesse davvero una Vita che concerna l´essere umano sottraibile di principio al suo tentativo responsabile di viverla.
Di fronte a questa seconda paura e a tutti i tipi di fondamentalismi che da essa stanno sorgendo, l’esigenza dell’Oggi potrebbe essere proprio quella allora di assumersi tutto il peso della verità di un “pensiero morale libero”; insieme a quell’altra verità per cui, come fine delle nostre decisioni infondate, non abbiamo da assumere altro che permettere che il principio antropologico, nella irriducibile complessità che lo caratterizza, si compia e si attui sempre di più. Fine, quest’ultimo, che però non può essere ricavato al di là del difficile percorso di confronto tra le opzioni etiche ultime e i modelli di vita che si disputano nell’Oggi, per restituirne un quadro interpretativo di autenticità.
Come via al trascendimento etico della dinamica impazzita dell’attuale mondo tecnico-economico, che il kairòs del nostro tempo possa essere semplicemente quello di potere e dovere avere fede non in altri che nell’uomo stesso, e nell’uomo come abitatore del tempo, ritrovando in questa fede la nostra più autentica identità, è forse il vero interrogativo che lascia aperto il bel libro di Mazzarella.


PUBBLICATO IL : 25-11-2005


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