La nozione di “indisponibilità” riferita a quello che viene
considerato un valore assoluto, ossia la vita biologica e spirituale, viene
comunemente usata nelle controversie bioetiche che investono le questioni della
nascita e della morte e della loro manipolabilità biologica, allo scopo
di opporre un impedimento radicale alle opportunità offerte dalle scoperte
della bioingegneria. Non si creda, così sostengono i difensori religiosi
o laici della “sacralità” della vita, che la vita stessa
possa essere resa disponibile ad interventi correttivi e spesso curativi del
processo naturale. Anche nel caso in cui questi interventi servano a ridurre
sofferenze inutili, tali da indurre chi cura e chi assiste un malato terminale,
ad esempio, a chiedere che venga ammessa la legittimità della eutanasia
passiva, la nozione di “indisponibilità” si erge a vietare
anche il solo pensiero che la datità naturale della vita morente, e i
suoi processi lunghi ed inutilmente dolorosi, possano essere modificati. La
sola circostanza che si possa parlare di sofferenze “inutili”, come
quelle di un malato terminale in coma irreversibile da anni, viene considerato
come un abile escamotage laico e razionalistico per sostituire alla
“indisponibilità” della vita umana in sé sacra nella
sua qualsiasi condizione naturale un diverso valore, quello della “dignità”
della persona, ad esempio. Questo valore viene visto come inferiore a quello
della vita presa nella sua elementare ed assoluta naturalità, esattamente
perché esso si presenta come il frutto del riconoscimento razionale ed
etico che promana dalla scelta pensata e voluta di non trattare mai l’uomo
come mezzo piuttosto che come fine.
Che l’uomo sia, kantianamente, fine e non mezzo, non è il frutto
di una qualche constatazione che accolga e riconosca un valore indisponibile
inteso come una datità obiettiva che non possiamo in alcun modo non riconoscere,
e che in quanto tale, ossia in quanto più forte della nostra forza di
riconoscimento e di decisione morale, domina questi ultimi svuotandoli di ogni
autonomia. Un valore “trovato”, come nel caso che stiamo facendo,
quello della vita presa nella sua cruda naturalità e in qualunque condizione
di inadeguatezza alla dignità di colui che vive, viene pensato e accolto
in tale sua datità, non nonostante il fatto che esso rischi di vulnerare
il principio per cui i valori si correlano noematicamente al valore della scelta
razionale - secondo lo schema centrale dell’etica husserliana - , ma proprio
perché esso colpisce a morte la nozione dell’autonomia. V’è
dunque una nozione di “indisponibilità” di un qualche valore
che poggia esattamente sull’obiettivo di rendere impensabile la nozione
della autonomia razionale delle scelte morali – ciò che in una
parola chiamiamo “libertà” e che contribuisce in modo determinante
alla edificazione della nostra “dignità” – e di sostituire
ad un’etica del volere razionalmente valori, un’etica dell’accettazione
del darsi di valori che ogni scelta razionale non può non accogliere,
vietando a se stessa di collocarsi al posto di questa oggettività assiologica.
Non è difficile mettere in questione la nozione di indisponibilità
fondata su una natura sacralizzata per scoprire che autenticamente non disponibili
sono i valori che promanano da una volontà razionale autonoma. Che, insomma,
sostanzialmente indisponibili, sono soltanto la libertà e la dignità
degli esseri umani. Può persino apparire paradossale, parlando della
libertà, sostenere che la libertà non cade nella nostra libera
scelta, che cioè noi non possiamo in alcun modo portarla sul mercato
dei valori per stabilire un eventuale trade off tra libertà
e dignità da una parte, e altri valori dall’altra. Anche quando
questo tentativo di mercanteggiamento viene compiuto, come accade in tutte le
forme del multiculturalismo sedicente progressista, in nome di una presunta
disponibilità a compromettersi con i valori (o definiti tali, senza chiedersi
se al nome corrisponda il contenuto semantico che diamo a ciò che appunto
è indisponibile), l’apparente nobiltà dell’operazione
incontra il suo limite in una impossibilità di carattere teoretico. Non
è infatti possibile dimostrare che quello che chiamiamo “valore”
possa in alcun modo sopportare la condizione di datità, di oggetto di
un rinvenimento e di un riconoscimento necessario, e sia perciò indisponibile,
come lo è invece ciò che trova la sua effettiva non disponibilità
nell’essere l’espressione stessa della libera volontà morale.
E’ ben noto a chi conosce la filosofia morale di Kant, che nella seconda
Critica la libertà viene definita come un “Factum”
della ragione, non ulteriormente bisognoso di un fondamento o di una deduzione
che ne esibisca la legittimità. E’ altresì noto che la libertà
è pensata come la “ragion d’essere” della volontà
morale, la quale, a sua volta, ne rappresenta la conoscibilità. Che vi
sia una volontà morale fornisce così una testimonianza della sostanza
in sé ontologicamente libera della volontà morale stessa. Nessuno
potrebbe ragionevolmente negare che il confronto, anzi il vero e proprio conflitto
tra le due morali, quella del valore trovato e quella del valore del volere,
e in parallelo a ciò, il conflitto non componibile tra due nozioni di
“indisponibilità” assiologica, discende direttamente dallo
scontro teorico tra due diverse e incompatibili nozione della “fattualità”
del valore. E’ opportuno riflettere su questo punto paradossale, che ci
mostra due incomponibili nozioni della morale riferirsi quanto meno ad una stessa
parola, o, se si vuole, ad una stessa immagine, quella appunto che ritiene di
poter ancorare alla saldezza “indisponibile” di un “fatto”
la granitica certezza della morale che vi si fonda. E’ appena il caso
di osservare – prima di procedere a dimostrare che in un caso e in un
solo caso, ma non nell’altro, la “fattualità” del valore
(quello della libertà-dignità) può essere ammesso a difesa
di quel che viene definito valore non contrattabile, non diveniente, non moltiplicabile
- che l’esito della nostra argomentazione assegna alla irrilevanza concettuale
segnalandone la pericolosa deriva relativistica, l’idea che ogni cultura
debba essere difesa e difendibile in tutti gli aspetti che la connotano
e che, di conseguenza, la fattualità della libertà kantiana valga
tanto quanto la fattualità di ogni contenuto culturale, di ogni atteggiamento,
persino di ogni scelta e decisione presenti in, e connotanti volta a volta in
modo diverso, quelle “culture” che sono appunto diverse in quanto
sono soltanto culture, modi del vivere.
E’ convinzione di ogni universalista, e dunque di ogni sostenitore della
indisponibilità al trade off da parte della libertà-dignità,
che la fattualità della morale che si affida al rispetto sacrale di ‘cose’
promananti dalla natura, usurpi il senso fondativo che la fattualità
della libertà-dignità assume in Kant. Mentre nel caso di Kant
il “fatto” della libertà si erge sulla impossibilità
che un fatto della natura venga elevato a valore morale, in questo secondo caso,
al contrario, si cancella ogni problema di fondazione razionale (prima che discorsiva)
del valore, facendo proprio della impossibilità della fondazione il motivo
in sé immotivabile di una “indisponibilità” destinata
a tradire quel che il nome stesso dice. Non un fatto, infatti, ma una molteplicità
di fatti, non una sola datità., ma tutte le datità che il ricorso
allo sguardo antropologico della cultura può offrire, costituiscono il
referente fattuale di questa forma di morale. Rendere indisponibili, nel senso
kantiano che qui difendiamo, libertà e dignità significa sottrarli
alla consumazione storicistica su cui ha richiamato l’attenzione Leo Strauss,
quando evocando il mito platonico della caverna nella Repubblica, ha
messo in rilievo l’eccedenza ultraontologica della nozione del “bene”,
che, secondo Platone, si colloca “al di là dell’essere”
ed è proprio per questo motivo non disponibile sul mercato morale, ma
anche resistente al divenire storico e alla pressione esercitata ‘in orizzontale’
da altri presunti valori che urgono per il riconoscimento della propria pari
validà assiologica, e dunque mirano allo spodestamento dell’indisponibile.
Se, seguendo la traccia di kantismo che lo stesso Leo Strauss autorizza a far
penetrare nel suo platonismo, interpretiamo la collocazione ultraontologica
della idea del bene come un elemento che introduce in essa la ‘forza di
resistenza’ al tempo del mondo che le deriva dall’assorbimento della
originaria fattualità del volere libero, ci troviamo di fronte a ciò
che oggi continua a fungere da base di ogni possibile apologia dell’universalismo
e della trascendenza assiologica. Quel che la modernità della ragione
kantiana aggiunge a Platone, e che rende effettiva l’indisponibilità
della libertà, è la circostanza, su cui ho richiamato l’attenzione,
che la nozione che definiamo come bene “trascendente” si lega ad
essa nella tipica forma che il vocabolario filosofico definisce piuttosto “trascendentale”,
distinguendola dalla prima. Il radicamento trascendentale della indisponibilità
del bene platonicamente concepito come solo trascendente comporta l’idea
che il valore della libertà sia una condizione di possibilità
della pensabilità, prima ancora che della attuabilità, della ragione
pratica morale. Il riferimento a quel che accade al soggetto che pensa
la nozione di moralità e che mira ad agire secondo un modello, una massima,
una legge morale, rende inevitabile il riferimento alla concezione che il valore
della libertà sia indisponibile in quanto trascendentale. Solo così
quel che accade di pensare e di fare trova una sua legittimazione, risulta cioè
fondato e non semplicemente affermato.
Può apparire paradossale, ma non lo è, la circostanza che la
indisponibilità trascendentale del valore della libertà, che abbandona
in questo modo la sua mera connotazione di bene trascendente, collocato “al
di là dell’essere”, in qualche modo sia funzionale alla collocazione
mondana degli esseri umani e venga introdotta non perché gli esseri umani
trovino nell’“alzare gli occhi al cielo” una fonte di consolazione
e di speranza altrimenti destinate a restare mute (come riteneva il Freud critico
della illusione religiosa), quanto piuttosto perché tale indisponibilità
costituisce il solo modo di dar conto razionalmente del peculiare essere
del loro stesso fare, decidere, volere. Questo essere ultraontologico e
ultraintellettuale (e quindi piuttosto “razionale” e pratico in
senso kantiano) deve essere legittimato come lo è l’essere dell’intelletto
speculativo, ma nella forma specifica della “ragione pura pratica”.
Analogamente a quel che vale per l’intelletto speculativo, il valore morale
non può essere oggetto di una riduzione psicologistica o culturalistica.
Riferirne la genesi alla storia, che è genesi di tutto, e dunque anche
di ciò che vi si colloca ma non le appartiene nel suo significato “ideale”,
significa programmaticamente rinunciare a fare il lavoro del filosofo morale,
per farsi sociologi, antropologi, osservatori della molteplicità infinita
del reale. Procedere in questo modo, rendendo disponibili i valori che costitutivamente
non lo sono, significa rinunciare a fornire al mondo storico del fare dell’agire,
del patire – al mondo da cui si leva l’esigenza del trascendentale
indisponibile, il suo unico motivo di speranza. Questa speranza viene anzitutto
sottratta alla politica, che ha, essa sì, il compito di comporre le varietà
morali delle culture dei gruppi umani e le insopprimibili scelte della propria
individuale via alla felicità che ognuno compie, in modo da trovare un
valore giuridico, una legge, in cui come su un terreno di inevitabile compromesso,
ogni gruppo e ogni individuo trovi riparo e difesa della propria insopprimibile
libertà. Quale mai storica materia di una legislazione liberale capace
di affrontare anche la sfida multiculturalistica resterebbe a disposizione,
se ciò su cui politica e diritto si fondano per intervenire a regolamentare
la convivenza tra gli esseri umani, ossia la trascendentale materia ‘indisponibile’
della libertà, fosse programmaticamente cancellata o anche soltanto marginalizzata?
Chi conosca la riflessione di Isaiah Berlin sul concetto di libertà sa
bene che secondo Berlin una coesistenza tra valori comporta la realizzazione
di un compromesso politico, del quale si deve sapere che non può avvenire
a somma zero di sofferenza e di rinuncia, come se i valori fossero strutturalmente
compatibili e nulla dovesse essere ceduto dell’uno quando accede al riconoscimento
dell’altro (libertà ed eguaglianza sono, come noto , l’esempio
tipico). Ma risulterà altresì chiaro al lettore attento che anche
per l’empirista Berlin, il quale non conosce e non utilizza il concetto
del trascendentale e neanche considera platonicamente la libertà come
un bene trascendente, la libertà resta non disponibile a compromessi.
Che questi si facciano, che soprattutto la storia del marxismo sia la storia
di un tentativo tragico, se e fino a quando compiuto in buona fede, di dare
per scontato l’accordo tra un di meno di libertà e un di più
di eguaglianza, è indubbio. Resta tuttavia ben chiaro che la distinzione
tra libertà “negativa” e libertà “positiva”
su cui ruota l’argomentazione di Berlin, e la netta ripulsa dell’equiparazione
assiologica tra le due, come se si trattasse di due equivalenti modelli dell’essere
liberi e il primo non costituisse la base indisponibile del secondo, dimostra
bene che Berlin ha in mente la libertà sans phrase che nella
tradizione kantiana viene definita trascendentale e che anche per lui la non
moltiplicabilità della nozione di libertà, insieme al rifiuto
di assegnare alla libertà sans phrase la prospettiva di una
accrescimento progressivo, allude alla indisponibilità della libertà
come valore assoluto.
Che il compromesso tra valori sia storicamente possibile si può ammettere
solo a patto di lasciare la ratio stessa del compromesso fuori di quest’ultimo
e di salvaguardare la funzione di criterio del compromesso che pure storicamente
si realizza e del quale deve essere volta a volta verificato, grazie alla indisponibilità
del criterio, fin dove possa giungere senza distruggere la materia stessa di
cui è fatto, la libertà sans phrase che accetta di compromettersi,
di dialogare con il suo ‘altro’. Anche qui: può apparire
paradossale, ma lo scivolamento nella metafisica accade in effetti a coloro
che pretendono di non cessare di declinare valori, ma al tempo stesso considerano
la datità storica, la fattualità dei fatti culturali, di pari
validità e di identica essenza rispetto alla fattualità dell’indisponibile.
Quest’ultimo non appare ai loro occhi come quel che è: ossia, come
ciò che soltanto consente di riconoscere che si dà nel mondo una
differenza di culture e di comportamenti che attendono di essere compresi, valutati,
composti in un ordine. La fattualità delle differenze culturali è
affermata sulla base della specifica movenza metafisica dell’atteggiamento
empiristico che ritiene ovvio che una fattualità di differenze si dia,
così come ritiene ovvio che essa sia sotto i nostri occhi, visibile e
a disposizione. Non è così. E’ piuttosto dall’alto
di una comunque necessaria assegnazione di senso che i “fatti” culturali
sono effettivamente tali. Ma riconoscere questo, significa rompere con la metafisica
empiristica e riconoscere che è prerogativa dell’universalismo
della ragione morale la capacità di contrassegnare questi fatti con un
senso di valore. Sono fatti perché riconosciuti come portatori di un
certo senso e perché un elemento essenziale della Sinngebung
etica consiste nell’avvicinare fatti sensati e valori indisponibili allo
scopo di trovare ciò che Edmund Husserl ha chiamato il volta per volta
“ottimo”.
Non suoni paradossale, di nuovo, il dire che la via dell’universalismo
del valore non disponibile qui tracciata o solo ricordata, non sembra essere
il frutto di una opzione tra le altre. Che si possa scegliere tra diverse opzioni
morali, tra modi anche molto divergenti tra loro di affrontare la sfida posta
al nostro universalismo dalla presenza di differenze culturali che si avvicinano
a noi e ci sfidano, è fuori discussione. Mi chiedo tuttavia se quel che
a noi, eredi della tradizione filosofica occidentale e per questo motivo impossibilitati
a sottrarci all’orizzonte di senso che ha costituito la nostra identità,
sia possibile fare qualcosa di molto diverso dall’esercizio della modulazione
del grado dell ‘universalismo che ‘parla’ comunque attraverso
di noi. Ogni volta che tentiamo, spinti dalla esigenza di evitare i conflitti
sanguinosi che ci minacciano, o dal desiderio di riaffermare che la nostra identità
è universalistica esattamente perché il nostro sguardo
morale è orientato e diretto sugli altri, di discutere anche nella maniera
più severa quelli che ci appaiono i rischi di accecamento che la luce
dell’universale riteniamo faccia incombere su di noi; ogni volta che,
per dirla in breve, perdiamo la nozione esatta della ‘umiltà’
e della disponibilità verso il mondo di cui è contesto la indisponibilità
verso il valore della libertà che comunque pratichiamo, sempre ci troviamo
a tentare la via impervia della legittimazione di una graduazione del livello
di assolutezza dell’universale. Sempre, tentiamo di risolvere con un qualche
compromesso sulla radicalità dell’indisponibile, quello che per
questa via non appare risolvibile e che ci consegna il risultato debole e frustrante
di privarci degli strumenti concettuali che ci costituiscono. Alla ricerca del
compromesso sull’indisponibile, ossia del compromesso che punta a sbocconcellare
l’indisponibile per smussare le sue punte e renderlo accettabile a chi
dichiara di non conoscerlo, dovrebbe essere sostituta piuttosto la ricerca del
compromesso che l’indisponibile morale può chiedere alla politica
e alle più varie contingenze mondane. Un qualche compromesso verso le
culture estranee all’universalismo può e deve essere realizzato.
L’accostamento e il confronto possono e devono essere perseguiti. Ma ciò
può accadere solo a patto che quello che chiamiamo “indisponibile”
resti tale e non si trasformi da criterio del dialogo in un polo del dialogo,
divenuto disponibile a ridefinirsi nella sua struttura essenziale. Che ciò
possa essere ammesso può crederlo soltanto chi non veda che il valore
indisponibile della libertà è “criterio” del dialogo
solo perché costituisce l’ambito stesso in cui il dialogo ha luogo.
Può suonare sgradevole alla immediata sensibilità (o angoscia?)
multiculturalistica, ma è difficile non vedere che la questione sta in
questi termini.
E’ su questi presupposti teorici che può essere trovato un punto
di contatto non banale e non superficiale con le questioni connesse alla pratica
della cosiddetta “consulenza filosofica”. Dato che quest’ultima
non è in alcun modo assimilabile alla pratica di una psicologia del profondo,
sono in essa coinvolti problemi di libertà e di dignità delle
persone che chiedono un aiuto alla consulenza filosofica. Mentre nella pratica
psicoanalitica è in gioco in termini etici il rispetto delle regole ‘tecniche’
del rapporto tra transfert e controtransfert (un rapporto di tipo affettivo
per il quale libertà e dignità valgono solo come forme di garanzia
prudenziale del realizzarsi del libero gioco dell’affettività),
nel caso della consulenza filosofica si presenta uno scenario diverso. Nessuno
potrebbe affermare di decidere di sottoporsi ad una analisi per motivi etici,
guidato da motivazioni etiche. Il curarsi non avviene per motivi etici. La liberazione
dalla sofferenza non equivale affatto alla libertà che costituisce la
premessa e l’esito di una azione etica. Nel caso della consulenza filosofica,
invece, il rispetto etico della libertà e della dignità individuale
appare essenziale. E’ in gioco qui, sia nelle motivazioni che nelle risultanze
di una pratica definita “filosofica”, piuttosto una dimensione etica
che non una dimensione affettiva – in particolare qualora “affettiva”
sia la connotazione che assegniamo alla vicenda psichica intersoggettiva che
accade, essendo solo in parte liberamente voluta e decisa. In questo caso si
incontrano due soggettività libere e consapevoli: perciò la garanzia
della loro individuale libertà e dignità è costitutiva
della prassi della consulenza filosofica. Ciò è a tal punto vero,
che sembra possibile servirsi del carattere specifico della consulenza filosofica
per definire per differenza il carattere del tutto diverso della pratica psicoanalitica
nella quale la libertà etica non è una premessa del rapporto,
ma soltanto un suo eventuale risultato – un risultato che non può
nascondere ai nostri occhi il carattere della ‘secondarietà’
rispetto allo scopo principale della psicoanalisi.
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Il saggio è gia stato pubblicato in “I saperi sull’umano il saper umano la consulenza filosofica” a cura di Vanna Gessa Kurotschka, pubblicato sul sito dell’ Università di Cagliari, il testo è protetto da licenza creativecommons .
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