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Il filosofo che cura Alcune considerazioni sulla consulenza filosofica |
di Nicoletta Di Placido |
Se ci si accosta per la prima volta alla consulenza filosofica attraverso il libro di Lou Marinoff, l’impressione è di avere a che fare con una pratica nata per ovviare al disagio lavorativo che colpisce la maggior parte dei laureati in filosofia (evidentemente neppure gli Stati Uniti riescono a garantire un tranquillo post-lauream). A partire dal titolo – Platone è meglio del Prozac, cui fa seguito il recente Le pillole di Aristotele – il libro ha proprio tutte le caratteristiche di un’operazione commerciale: la superficialità delle argomentazioni va ben oltre la volontà di affrontare l’argomento in maniera divulgativa e, se si dà un’occhiata all’indice, si trova una sezione che Marinoff ha non casualmente chiamato Hit parade dei filosofi. In effetti negli Stati Uniti la consulenza filosofica ha assunto la particolare forma del counseling, che permette di creare un mercato ad hoc per la preparazione filosofica, destinata altrimenti a restare incanalata nei sempre più angusti corridoi delle accademie – a meno di non assumere l’aspetto di altre competenze, pensiamo per esempio all’ambito delle Risorse umane, dove negli ultimi anni si assiste a una sempre maggiore richiesta di laureati in filosofia. Il testo di Marinoff si inserisce in questa dinamica tutta americana, ma con un pregio che ci sembra opportuno far notare. L’autore assume dei toni seri e risoluti (peccato che il titolo del suo lavoro non rispecchi tale serietà) nella denuncia dello smodato uso di psicofarmaci che imperversa in America. «Ogni comportamento concepibile può trovare posto nel Manuale Diagnostico e Statistico (DSM) per esservi diagnosticato come sintomo di una presunta malattia mentale. Sebbene non sia dimostrato un nesso causale tra gran parte delle cosiddette malattie mentali elencate nel DSM e un’alterazione cerebrale, l’industria farmaceutica e gli psichiatri che ne descrivono i medicamenti sono impegnati nel compito di individuare quante più “malattie” mentali possibili. Perché? Per i soliti motivi: potere e profitto» (p. 34). Il problema è che Marinoff propone un tipo di alternativa che davvero difficilmente può scuotere le coscienze e risolverle all’abbandono dei farmaci. Il suo metodo PEACE, acronimo di Problema, Emozione, Analisi, Contemplazione ed Equilibrio, che sono le cinque fasi del procedimento del counseling, ci sembra stia a metà tra un atteggiamento contemplativo di tipo orientale e la filosofia occidentale, a partire dal dialogo socratico.
Criticato spesso dal resto della comunità mondiale dei consulenti filosofici, il testo di Marinoff e la sua idea di filosofia pratica assumono in effetti delle caratteristiche peculiari rispetto alla costellazione originaria di questa disciplina che, forse non a caso, vede la luce nel Vecchio Continente.
La consulenza filosofica nasce infatti in Germania nel 1981 a opera del filosofo Gerd Achenbach, che, nell’anno successivo, inaugura quella che oggi è la Internationale Gesellschaft für Philosophische Praxis (Società internazionale per la consulenza filosofica). Ciò che ha spinto Achenbach a fondare questa nuova disciplina è stata la convinzione di dover riscoprire il carattere essenzialmente pubblico che la filosofia aveva fin dalle sue origini, nell’antica Grecia, dove, «organizzata in confraternite e gruppi di amici, la filosofia era realizzata come una forma di pensiero, di vita e di rapporto comunitari, e ciò che si era potuto sviluppare come “scuola” guadagnò immagine e fascinazione non solo – e nemmeno principalmente – come progetto e riproduzione di una “dottrina”, ma come formazione di una comunità di vita riflessa»(G. Achenbach, Sulla sfida della consulenza filosofica alla filosofia accademica, in Id., La consulenza filosofica, Apogeo, Milano 2004,p. 136).
Condotta fuori dall’ambito puramente teorico delle Accademie, la filosofia sarebbe in grado di ridurre quella distanza dalla vita reale prodotta dalla perdita – o meglio dall’abbandono – del suo aspetto pratico. Guidato dalla convinzione che «la forma concreta della filosofia è il filosofo e questi, in quanto istituzione della filosofia in un singolo caso, è la consulenza filosofica» (G. Achenbach, La filosofia da tavolo. Ovvero, chi è il filosofo, in cit., p. 29), Achenbach ha aperto il primo studio al mondo di pratica (o consulenza) filosofica. Nonostante le critiche, arrivate soprattutto dall’ambiente accademico e da quello psicanalitico – ma successivamente anche da alcuni “colleghi” – l’iniziativa ha riscosso un successo non indifferente, tale da estendere la pratica filosofica anche oltre i confini della Germania, seppure, come nel caso di Marinoff e della scuola americana, con revisioni e riadattamenti.
Per capire i motivi di un tale successo è necessario chiedersi che cosa sia in grado di offrire la consulenza filosofica, soprattutto rispetto a quelle discipline che già si occupano dei disagi esistenziali – oltre chiaramente delle psicopatologie – come la psicoterapia e, in particolare, la psicoanalisi. Più direttamente, che tipo di aiuto si può ricevere da un esperto di filosofia? Prima di tentare di rispondere a questa domanda, bisogna chiarire che la consulenza filosofica non vuole essere una sostituzione alla psicoterapia; essa ne rappresenta invece un’alternativa rivolta a persone le quali, pur essendo sane – cioè non affette da psicopatologie – sono «torturate dal dolore o da problemi, le quali non riescono a far fronte alla loro stessa vita o che credono di essere rimaste in qualche modo “bloccate”; hanno domande a cui non sanno dar risposta o di cui non riescono a liberarsi; persone che attraversano la monotonia della vita di ogni giorno e provano la vaga sensazione di non essere realmente chiamate in causa – ad esempio quando si accorgono che quello che esse sono di fatto è qualcosa di diverso da quello che potrebbero essere» (G. Achenbach, Una breve risposta alla domanda: «Che cos’è la Pratica Filosofica?», in Phronesis, www.phronesis.info/rivista/ph_0_I_03.pdf).
La Philosophische Praxis nasce dunque come aiuto, come ausilio per affrontare le problematiche esistenziali. Non è ancora chiaro tuttavia in che modo questa si possa definire alternativa alle psicoterapie. Nel corso delle interviste, Achenbach ha più volte tematizzato una cooperazione tra le due discipline. Per illustrare questo rapporto di cooperazione e concorrenza ha proposto quattro tesi volte a delineare la relazione che storicamente si è instaurata tra filosofia e psicoterapia: la prima tesi afferma che «la relazione tra la filosofia tradizionale e la psicoterapia era basata sulla divisione del lavoro; una relazione non dialettica» (G. Achenbach, Filosofia, consulenza filosofica e psicoterapia, in cit., p. 117). Seguendo le linee argomentative dell’autore, la non dialetticità sembra derivare dalla mancanza di una vera cooperazione, mancanza a sua volta costituita da una divisione del lavoro che ha visto, conseguenza di una arrogante e presunta sovranità della filosofia, assegnare a quest’ultima la risoluzione di problemi insolubili per la psicoterapia, in seguito rivelatisi tali anche per la filosofia stessa (seconda tesi). Portando avanti un singolare «stile metaforico e libero» (p. 121) che vorrebbe spiegare il rapporto tra le due scienze attraverso contratti commerciali tra aziende, prodotti, garanzie d’acquisto e fabbisogno, l’argomentazione di Achenbach è tesa a mostrare come la richiesta di soluzioni che le scienze – l’autore fa riferimento anche alla medicina – rivolgono alla filosofia sia una pretesa che inchioda quest’ultima a un disconoscimento che la “rispedisce nei suoi confini”, dove «essa si ferma a pre-pensare per esempio a quelle cosiddette “prime domande”, per le quali la scienza con i suoi mezzi non è sufficiente» (p. 124). Chiusa nella gabbia della “disciplina accademica”, la filosofia perde la sua peculiarità, che non consiste nel procurare soluzioni e assolutezza, ma, al contrario, è la messa in discussione di ogni risposta apodittica. Questo fallimento che la filosofia a detta di Achenbach subisce, questa impossibilità di tenere testa alla richiesta di fornire verità, apre tuttavia alla possibilità – necessità per il fondatore della Philosophische Praxis – di una nuova prospettiva e di un nuovo ruolo della filosofia, anzi, del recupero della dimensione originaria schiacciata dall’arroganza di certe scuole di pensiero (l’autore si riferisce principalmente al periodo medievale, cfr. cit. p.137 ss.), che hanno dato forma alla filosofia tradizionale: la terza tesi afferma infatti che «l’insolubilità delle tradizionali pretese “filosofiche” è lo smacco della filosofia tradizionale, ma è allo stesso tempo anche la base della consulenza filosofica» (cit., p. 118). Una pratica filosofica che sia in grado di essere ausilio alla vita si basa dunque sull’abbandono delle ambizioni filosofiche tradizionali volte alla produzione di verità. Tale abbandono riporterebbe la filosofia vicina ai problemi della vita umana; la riporterebbe, dunque, lì dove è nata.
Arrivato a questo punto, Achenbach può finalmente entrare nel merito del rapporto che sussiste tra le due discipline. Il trattamento che la psicoterapia – delusa dalla mancanza di risposte sulle domande fondamentali – ha riservato alla filosofia, confinandola nella sua gabbia teorica, è il medesimo che affiora nella pratica psicoterapeutica: il paziente oppresso dall’inspiegabilità di alcuni avvenimenti viene «scansato» (p.125) e percepisce «quella forma di presunzione scientifica (soprattutto in relazione a quelle domande che sono state classicamente presentate dalla filosofia e che toccano l’individuo in modo esperibile e tangibile) come repulsione e disgusto verso colui che, appunto, non può risolvere queste questioni, ma che altrettanto poco vuole accantonarle rapidamente» (p. 126). Ecco dunque uno scarto che la Philosophische Praxis ha attuato nei confronti della psicoterapia, e, va da sé, data la sua forma pratica, anche rispetto alla filosofia accademica. Al paziente che si rivolge al filosofo viene offerta la possibilità di non accantonare le domande da cui egli è assillato solo per la loro insolubilità; al contrario, concentrare l’attenzione e il dialogo proprio intorno a ciò che sembra non poter essere superato instaura un circolo virtuoso dal quale il paziente trae aiuto e beneficio. L’aspetto che ci sembra interessante è questa necessità di riconoscimento che Achenbach pone al centro della dinamica paziente-consulente: «ciò che deve valere come verità, vale solo in quanto viene riconosciuta ed è vera per me solo nel momento in cui è la mia verità» (p. 126). La consulenza filosofica vuole rendere possibile l’espressione e i bisogni del singolo a prescindere dalla richiesta di senso che questa pone in essere. È su questo punto che, ci sembra, Achenbach affronti la consulenza filosofica finalmente da un punto di vista filosofico, argomentando la sua tesi con l’ausilio di Hegel. Se da un lato il riferimento non sorprende, considerando i suoi studi hegeliani, dall’altro è singolare che si chiami in causa l’autore «dell’ultimo sistema filosofico di grossa taglia» (p. 119), proprio per sostenere la necessità di una pratica filosofica che vada oltre la sistematicità del pensiero.
La ragione soggettiva hegeliana, dice Achenbach, «ha bisogno dell’altro per mettersi alla prova in dialogo con lui» (p.127), per divenire “universalità concreta”; la sua autorealizzazione passa attraverso l’altro. Il sofferente che si rivolge al filosofo trasforma questa dinamica fenomenologica in «bisogno reale»: il riconoscimento diviene vitale per il singolo, tanto più se questo ha a che fare con sentimenti di dolore che non può spiegarsi. La figura del consulente assume allora una funzione di mediazione, «poiché il compito di questa persona è comunicare la propria esperienza come ciò che è cercato dall’altro, che non viene però trovato, ma che nemmeno si può accettare di non cercarlo, come se cioè ci si accontentasse senza di esso» (p. 127). Attraverso il riconoscimento nel dialogo con il consulente, al paziente si apre la strada per l’autorealizzazione. In un’altra intervista, alla domanda se soltanto il filosofo sia in grado di attuare questa chiarificazione, Achenbach si riferisce nuovamente a Hegel: «ciascuno ha sì una coscienza – che Hegel chiamerebbe immediata – ma essa è senza alternative, senza varianti. Si rimane bloccati nel proprio modo di pensare, ci si sente intrappolati nei propri pensieri e non si trova una via d’uscita. Nel momento in cui si chiarifica tutto questo, allora la coscienza fa un passo avanti e si amplia. E tale chiarificazione non viene dall’esperienza di vita, che è al contrario troppo ristretta, ma dalla filosofia» (R. Soldani, Intervista con Gerd Achenbach, in “Phronesis”, II 2004, n. 2). Messe a confronto, sembra che queste argomentazioni non tengano conto di un aspetto fondamentale: la ragione soggettiva hegeliana, così come la coscienza immediata, non sono astratte da quell’assoluto che Achenbach tenta di eludere attraverso la consulenza filosofica. Le figure della Fenomenologia dello Spirito, e questo non sfugge a un filosofo accademico, fanno parte di un processo il cui movimento ha una meta, che è lo spirito, l’assoluto (non è questo il luogo per affrontare una discussione sulle problematiche della filosofia hegeliana, ma, supportati da un certo tipo di critica, potremmo accennare al fatto che l’autorealizzazione del singolo, della figura fenomenologica, sia allo stesso tempo fine e mezzo per il raggiungimento del sapere assoluto). La chiarificazione che la filosofia sarebbe in grado di apportare, questa capacità di fare ordine, non coincide con ciò che lo stesso Achenbach aveva affermato circa la necessità che la filosofia non fornisca risposte: «con il sapere che consiglia, che viene comunicato a chi è confuso, la domanda viene invece incassata e colui che chiede ne viene espropriato. In questo modo si può essere d’aiuto solo a colui che aiuta» (p. 126). Parlare dell’ipotetico paziente come di una coscienza immediata equivale non soltanto al “sapere che consiglia”, ma a uno sguardo che è oltre la modalità del dialogo: concedendoci la licenza di forzare l’interpretazione, potremmo immaginarci il consulente filosofico come una sorta di per noi hegeliano che fa attuare al paziente il passaggio dal proprio modo di pensare a una maggiore consapevolezza del pensiero e dell’azione che sta compiendo.
Un ulteriore problema si pone affrontando la questione del metodo della consulenza filosofica; quali mezzi e quali caratteristiche assume il dialogo tra consulente e consultante per riuscire ad alleviare le sofferenze? Il detto di Novalis che Achenbach riporta come chiave di lettura per una corretta visione della consulenza filosofica afferma che «la filosofia è dovunque o in nessun luogo e che con un leggero sforzo ci si orienta su qualcosa ovunque e si può trovare ciò che si cerca» (in cit, p. 128). Ma in che cosa consiste questo “leggero sforzo”? Attraverso quale percorso è possibile capire la giusta direzione dei nostri pensieri? La quarta e ultima tesi achenbachiana tematizza un rinnovato rapporto con la psicoterapia: tale rapporto «non è più organizzato in base alla divisione del lavoro, ma è un rapporto di cooperazione e concorrenza. È una relazione dialettica» (p. 118). Una volta superata la concezione della filosofia come disciplina delle “attitudini chiave” – concezione che, a nostro avviso, è stata profondamente messa in crisi già da gran parte delle filosofie del Novecento – la filosofia non soltanto si avvicina alla psicoterapia, ma si salva dal rischio di essere usata come mezzo, utilizzo che, afferma Achenbach, è presente in tutte le terapie, anche se velato e, talvolta, negato. Decaduta infatti l’abituale convinzione che questa si occupi di fornire certezze e convinzioni, la «filosofia in statu nascendi» (p. 132), come Achenbach parafrasando Jung ha definito la Philosophische Praxis, è in grado di scendere nei bassifondi dove risiede il «patire ciò che è normale» (p. 130). La domanda che Achenbach rivolge agli psichiatri e agli psicoterapeuti è in che modo questi bassifondi si possano esplorare senza divenirne schiavi, «schiavi, come molte di quelle persone che voi curate nelle cliniche psichiatriche» (p. 130). La nostra domanda si ferma al passaggio precedente: come arrivare ai bassifondi, ai punti oscuri e spesso inesplorati di un individuo, attraverso la consulenza filosofica? Contrariamente alla psicoterapia, la pratica filosofica non giunge alla formazione e al consolidamento di teorie che poi si trasformano in applicazione: «sarebbe da definire filosofica un’esperienza che abbiamo potuto salvare dall’affondare nella routine» (p. 130). Per chiarire quest’idea, che a oggi è la più dibattuta nell’ambiente della pratica filosofica e non solo, chiediamo ausilio a Neri Pollastri, primo in Italia ad aver aperto uno studio di consulenza filosofica. Nel saggio ‘Teoria Pratica’ e palle da biliardo. La consulenza filosofica come mappatura dell’esistenza, l’autore illustra i motivi per i quali la consulenza filosofica non abbia ancora ricevuto la legittimazione di alcuna teoria applicabile: «la consulenza, sebbene filosofica, ha a tema le questioni personali degli individui che la richiedono – i cosiddetti “consultanti” – e per questo si occuperebbe di particolari e non, come solitamente fa la filosofia, di universali, che sono poi gli elementi che compongono le teorie» (p. 85). Ora, ribadendo che il secolo scorso ha visto la filosofia impegnata a decostruire proprio queste forme universali del sapere, la questione resta comunque irrisolta: come viene garantito al consultante che quel percorso sia giusto per lui e per ridisegnare la mappatura della sua esistenza? Dopo un’accurata analisi, condotta attraverso l’analogia con il gioco del biliardo, Pollastri pone l’accento sul fine della consulenza filosofica. Far stare meglio il consultante e fornirgli un aiuto è sì un aspetto, ma non l’obiettivo primario: «La risposta – come tutte le risposte “assolutamente” vere – è tanto semplice quanto ovvia: il filosofo può aiutare solo a filosofare. Questo è dunque il solo e unico obiettivo della consulenza filosofica: fare filosofia, ma farlo non già nel modo in cui la si fa nel mondo della ricerca accademica, sui libri, bensì in consulenza, con gli individui, non già avendo a che fare con i problemi “grandi” ed astratti, ma con quelli quotidiani ed assai concreti» (p. 87). Col che ci sembra proprio che non si sia data risposta alla domanda sul “come”, ma quantomeno possiamo capire che cosa fa la consulenza filosofica: fa filosofia, porta le astrazioni dei massimi sistemi – quelle su cui, ci piaccia o meno, un filosofo si è formato apprendendole dai libri – dentro gli studi dei consulenti professionisti trasformandole in concretezza attraverso il confronto con i problemi quotidiani, piccoli ma reali, della gente. E lo fa con il dialogo e l’ascolto, dando la possibilità al consultante, grazie a una serrata analisi critica delle sue argomentazioni, di «rileggere i fatti della sua vita con queste nuove chiavi di lettura. E poi vedere l’effetto che ciò ha su di lui, per il suo essere al mondo. Pronti, all’occorrenza, a proseguire, o anche ricominciare da capo» (p. 87).
La teoria pratica dunque, lungi dall’essere un ossimoro, non può stabilire una teoria universale proprio per questo suo avere a che fare con il particolare, con i problemi dei singoli individui. Tuttavia sottopone questi a un’analisi critica – che, ci sembra di capire, solo il filosofo può intraprendere – e sta a vedere quale reazione innesca nel consultante. Attraverso il dialogo la teoria diventa pratica perché inaugura un movimento delle idee del consultante (e anche del consulente che, da filosofo, sottopone a discussione le proprie posizioni) teso a rimuoverne l’inadeguatezza e la fissità (p. 88). La mappa che si disegna attraverso il dialogo, e che dovrebbe aiutare il paziente a orientarsi in questa sua rinnovata visione del mondo, è unica come uniche sono le problematiche dei singoli individui.
Ci sembra allora che si possa rinvenire nel dialogo l’unico elemento certo della consulenza filosofica. Elemento che ci riporta direttamente a un detto di Socrate, divenuto il manifesto trasversale (comune a tutte le scuole di pensiero nate dalla Philosophische Praxis) di questo rinnovato modo di fare filosofia: «la vita non sottoposta a esame non vale la pena di essere vissuta». Un esame che «non lavora con i metodi, ma sui metodi» (G. Achenbach, Breve risposta alla domanda: che cos’è la consulenza filsofica, in cit., p. 13), cercando ogni volta la strada giusta per alleviare le sofferenze e i disagi di chi, spesso deluso da altri percorsi, si rivolge alla filosofia.
Un’ultima considerazione: la nostra formazione proviene da quella filosofia accademica che – se è pur vero che deve uscire dall’ambito puramente teorico delle università – potrebbe portarci a intraprendere la strada dei consulenti filosofici. Ebbene, ci dovremmo immaginare davvero molti anni di riflessione e di pratica prima di poter pensare di scendere nei bassifondi delle vite altrui.
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PUBBLICATO IL : 05-04-2006
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