[…]
«giusto di te tra me e me parlavo:
della gioia».
Mi prende sottobraccio.
«Non è vero che è rara, - mi correggo – c’è,
la si porta come una ferita
per le strade abbaglianti. E’
quest’ora di settembre in me repressa
per tutto un anno, è la volpe rubata che il ragazzo
celava sotto i panni e il fianco gli straziava,
un’arma che si reca con abuso, fuori
dal breve sogno di una vacanza.
Potrei
con questa uccidere, con la sola gioia…».
Ma dove sei, dove ti sei mai persa?
«E’ a questo che penso se qualcuno
mi parla di rivoluzione»
dico alla vetrina ritornata deserta.
(Vittorio Sereni)
Nel 1962 poco dopo la morte di Marilyn Monroe, Pasolini le dedica una poesia
che sarà poi cantata da Laura Betti su musica di Marcello Panni e che
tornerà l’anno successivo nel film La rabbia questa volta
recitata da Bassani. Ha l’andamento di uno stornello melanconico con un
refrain sul mondo, crudele, che deruba l’attrice della sua bellezza
insegnandogliela: «tu sorellina più piccola,/ quella bellezza
l’avevi addosso umilmente,/ e la tua anima di figlia di piccola gente,/
non ha mai saputo di averla,/ perché altrimenti non sarebbe stata bellezza».
Innocenza, povertà, una vita che non si regge su di un’immagine
ma è, come se potesse consumarsi nel semplice atto del suo accadere irriflesso.
Marilyn evoca a Pasolini il suo mondo: è un volto che ha la
stessa verità di quelli amati fra i mendicanti di colore, delle zingare,
delle figlie dei commercianti. Questa è la bellezza per Pasolini . Ma
Marilyn e il suo «pulviscolo d’oro» allora già
non esistevano più. Ridotta a merce e consumata, il poeta vede nel suo
suicidio una profezia: «sei tu la prima oltre le porte del mondo/
abbandonato al suo destino di morte». Pasolini non piange e per questo
non conosce liberazione, rimpiange e si dispera. Tutta la sua idea del bello
è affidata alla tonalità del rimpianto e non sa per questo né
del presente né del futuro, è già una cosa morta.
Ma qui la morte non è quella che si dice riferita ai mortali, a noi uomini
che seguiamo quel corso per cui si nasce, si diviene e si muore. Qui la morte
è qualcosa se possibile di più radicale, perché riguarda
ciò che non è mai nato. La Marilyn che nella poesia «corre
dietro ai fratelli più grandi» è il sogno di un sogno,
non ha mai avuto la sua realtà, è l’idealizzazione di qualcosa
che già da sempre viveva dentro il mondo stupido e feroce. Per questo
il suo dramma piuttosto era proprio quello di non esser mai stata innocente
come nessuna zingara e nessuna figlia di commerciante.
Questa poesia, raccolta nell’edizione completa fra le «Poesie
disperse», è esemplare nella misura in cui ci permette di
portare in primo piano una traccia caratteristica dell’opera di Pasolini
.
Questa traccia ha la forma di una aspirazione ad un mondo archetipico e perciò
mitico.
Se torniamo indietro nel tempo alla prima raccolta di poesie in lingua italiana,
«Le Ceneri di Gramsci», quello stesso concetto della bellezza
lo troviamo riferito, secondo una ascendenza pascoliniana, al garrito delle
rondini. Questa volta la bellezza in modo ancora più esplicito, è
soprattutto un sentimento del tempo che l’«umilissima»
voce dei volatili evoca, quello di un’Italia altrettanto umile (II,1-2),
preindustriale, agreste e friulana (I, 21-40). E’ questo un tempo «puramente
umano», «non è il tempo della storia, /questo»,
un tempo fossile monotono preistorico, che coincide quasi con l’eternità.
Nei versi finali questo incanto «non torna, e torna/ sempre sopra
il mondo che non ha rimpianti». Il suo esaurirsi nella storia, non
avviene però nel presente. Il suo tempo che è quello dell’Italia,
oscilla continuamente nell’ombra e nella luce tra una preistoria e una
storia in un’ alternanza drammatica.
Ma cosa intendiamo quando parliamo qui di un mondo mitico?
Una delle immagini più efficaci per intendere il significato di una concezione
mitica la troviamo in Ortega y Gasset. Il filosofo spagnolo interpreta l’agire
dell’uomo antico alla maniera di chi indietreggiando, come il torero,
prende lo slancio per inferire il colpo mortale. E Thomas Mann così rielabora
questa immagine: «nel passato egli cerca un esempio in cui rinchiudersi
come un palombaro nel suo scafandro onde, così deformato e nello stesso
tempo protetto, immergersi poi nel problema del presente» (‘Freud
e l’avvenire’, ed. it. in ‘Nobiltà dello spirito’,
Milano 1997, p.1397). E’ dunque un vivere che potrebbe definirsi arcaicizzante
salvo specificare subito che nasce dal bisogno di legittimare l’esistenza
e quindi la continuità nel tempo storico.
Perché allora quella di Pasolini resta soltanto, come abbiamo detto,
un’aspirazione? La voce di Pasolini, intendiamo non soltanto la sua ‘voce
poetica’, anche quella propriamente fisica, che proveniva dal suo corpo
e che con esso pativa affetti e mutamenti, riusciva attraverso questa immagine
del passato ad alimentare quella tonalità emotiva definibile variamente
come speranza, positività e che sempre, comunque, nel corso progrediente
della storia doveva esser vissuta?
Pasolini era un comunista, questa definizione di sé la troviamo dovunque
nei suoi scritti senza alcun discrimine cronologico. Ma detto questo occorre
subito aggiungere che egli era al contempo critico inflessibile di quei concetti
di progresso e sviluppo sui quali l’ideologia comunista, affidando la
sua verità alla storia, si costruisce.
Pasolini era un comunista ma lo era in maniera contraddittoria e dunque, usando
una sua espressione, “scandalosa”. Lo scandalo nasceva non dall’intelligenza,
non da quel razionalismo che fu suo e capace di analizzare la realtà
del nostro paese senza infingimenti, in maniera persino spietata e, per questo,
accolto talvolta come una violenza. Lo scandalo nasceva dalla forza degli istinti,
dalle viscere e quindi dall’amore. Lo scandalo era nella verità
che per Pasolini la classe rivoluzionaria valeva come una categoria etica o
estetica ma non economica. «…è per me religione/ la sua
allegria, non la millenaria/ sua lotta: la natura, non la sua/ coscienza»
(Le Ceneri di Gramsci, IV, 9-12). Soltanto in questo modo può
esser capito il tono apocalittico delle sue analisi su quella nuova forma di
dittatura che è stata ed è l’Italia consumista a cominciare
dalla fine degli anni ’60. Questa infatti lo angosciava perché
aveva di fatto distrutto il sottoproletariato, distruggendone i valori ( e non
sottraendolo alla miseria). In questo modo non era più possibile contrapporre
al tempo della storia borghese quello mitico del popolo: «Le due storie
si sono dunque unite: ed è la prima volta che ciò succede nella
storia dell’uomo. Tale unificazione è avvenuta sotto il segno della
civiltà dei consumi: dello ‘sviluppo’» (‘Lettere
Luterane’, Torino 1976, p.11). Queste sono analisi che nella loro
struttura formale e argomentativa potrebbero tutte esser ricondotte a qualche
già acquisito discorso sociologico o antropologico, tutte mostrate come
la ripetizione di qualcosa di già detto ma pur tuttavia, così
procedendo, non si coglierebbe l’essenziale.
«Il consumismo consiste infatti in un vero e proprio cataclisma antropologico:
e io vivo, esistenzialmente tale cataclisma che almeno per ora è pura
degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel
mio corpo. Poiché la mia vita sociale e borghese si esaurisce, nel lavoro,
la mia vita sociale in genere dipende integralmente da ciò che è
la gente» (‘Scritti corsari’, Garzanti, 7ed.,
p.107). La distinzione che Pasolini qui pone fra la sua attività di intellettuale
e la sua vita sociale in genere è l’espressione di una lacerazione
di cui ne risentivano entrambi i termini che entravano in conflitto. L’intellettuale
come tale – Pasolini lo sapeva bene - è un borghese. Partecipa
dunque di quella classe che ha il potere e che è responsabile lungo tutto
il corso della storia moderna, dell’esistenza di dominanti e dominati.
In una lettera aperta ad Italo Calvino del ’74 (ibidem, p.52)
si può leggere allora: «io so bene, caro Calvino, come si svolge
la vita di un intellettuale. Lo so perché è in parte anche la
mia vita. Lettere, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici
e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente
perbene. Ma io come il Dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa
vita devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le
pareti dell’Italietta, e spingermi quindi in un altro mondo: il mondo
contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio». Questo mondo,
qui la ragione dello scandalo, se da un lato era amato, ed in maniera abbiamo
detto viscerale, profonda, commovente, disperata, dall’altro aveva oramai
perso qualsiasi potenzialità rivoluzionaria. Poteva soltanto esser l’oggetto
di un rimpianto o, magari, poteva esser cercato fuori dall’Italia, nei
paesi del Terzo Mondo dove il poeta riconosceva ancora lontani, seppur per poco,
i segni dello Sviluppo e dove spesso amava trascorrere lunghi periodi. Insomma
il punto è che in Pasolini, politica e letteratura vivevano un dissidio
inconciliabile. E’ come se l’uomo greco si fosse trovato nel breve
volger di anni, improvvisamente privo di quell’esistenza che il suo universo
mitologico avrebbe dovuto legittimare. Ma chi aveva ucciso gli antichi Dei?
Oppure, immaginando che a questo punto risuoni quella nenia schilleriana dove
si piange la caducità della bellezza, che cosa aveva reso l’amore
verso quel mondo impossibile e perciò drammatico?
Ricordiamo come il poeta aveva visto dissolversi quel ‘pulviscolo
d’oro’ che era Marilyn Monroe: la bellezza rapita soggiace
alle vicende corrotte e corruttrici del tempo storico, la storia è «destino
di morte» (v.49). La Storia doveva esser per Pasolini qualcosa di
simile al fantasma del padre per Amleto, un presente da esorcizzare e poi, allo
stesso tempo, un passato da vendicare.
Nel 1973 Pasolini recensisce per ‘Il Tempo’ l’unico libro
di racconti di Sandro Penna: «Un po’ di febbre» (‘Scritti
corsari’, cit., p.143 sgg.). Il mondo evocato in queste piccole prose,
quello dell’Italia durante il periodo fascista, è fatto di città
con grandi viali, palazzoni popolari e poi subito distese dominate dal verde.
E ancora ragazzi dai vestiti rozzi e poveri ma dalla grande volontà di
vita e tutto, per un periodo storico così tetro, paradossalmente «illuminato
dalla grazia». Pasolini leggendo il libro e descrivendocelo lascia
libera la voce della sua commozione e del suo sconvolgimento: «il
verdetto è che ciò che si è amato ci è tolto per
sempre». Il piacere può allora sopravvivere soltanto nella
finzione letteraria, come una cosa morta e insieme eterna. Può persino
suggerire l’illusione che quello non era un mondo ma ‘il’
mondo e così il libro «Un po’ di febbre» si
trasforma in qualcos’altro «tanto che è difficile parlare
di ‘Un po’ di febbre’ come di un libro: esso è un brano
di tempo ritrovato». E’ singolare allora che un intellettuale
così consapevole del valore civile della letteratura non metta in questione,
recensendo il libro di Penna, la voluta omissione del fascismo ossia di quel
fenomeno che in quanto totalitario pervase la storia di quegli anni: «Penna
ha ignorato la stupidità e la ferocia del fascismo: non l’ha considerata
esistente». Questa omissione viene invece intesa nei termini di una
condanna «assoluta, implacabile, senza appello».
Ma perché dunque Pasolini, pur essendo un poeta civile, poteva intenderla
in questa maniera? Se la poesia civile ha il suo compimento nella critica dell’esistente,
non inteso in termini assoluti, ma quello specifico della realtà storica
in cui il letterato vive, dove trovare il valore della critica in una operazione
letteraria come quella compiuta allora da Sandro Penna?
Il punto è che per Pasolini la realtà storica del fascismo fu
essenzialmente indifferente alla coscienza degli individui, un involucro incapace
di mutare il mondo rurale nei suoi valori e di dissolverne quel tempo irraggiungibile
dalla storia borghese. Il fascismo era quindi del tutto trascurabile rispetto
all’ideale realtà della poesia civile. In questo senso ‘letteratura
civile’ assume un significato nuovo, non è l’espressione
di un impegno politico volto a educare e a far maturare (magari turbando ma
comunque sempre con un ideale pedagogico) i cittadini, né l’esaltazione
di un gruppo o una classe per il suo valore all’interno della cittadinanza.
Letteratura o poesia civile è l’affermazione di ciò che
è degno, di ciò che esprime la dignità dell’uomo
e questa dignità oscilla continuamente fra preistoria e storia, comunque
non rientra nel tempo dello Sviluppo. Significa essenzialmente povertà
e umiltà (etimologicamente: «fedele alla terra»). La critica
politica è soltanto indiretta, presuppone la consapevolezza da parte
del lettore di ciò da cui quel frammento di realtà ‘illuminato
dalla grazia’ si distacca. Ecco perché rispetto al fascismo
Penna può esser considerato persino crudele: «non ha pietà
per ciò che minimamente non è investito dalla grazia della ‘realtà’,
figurarsi per ciò che ne è fuori o contro». Sono parole
rispetto alle quali al lettore è richiesto di sostare e di valutarle
rispetto al loro giusto peso.
Il sentimento poetico, la matrice della poesia di Pasolini rimandano direttamente
alla critica che egli fece dell’Italia degli anni ’70, al riconoscimento
dell’inutilità di distinzioni quali quelle fra fascismo ed antifascismo,
alla rabbia degli ‘scritti corsari’ degli ultimi anni della sua
vita, al furore icastico del film Salò. Quest’ultima opera
può esser assunta come un contrario simmetrico di ‘Un po’
di febbre’ secondo quanto abbiamo finora detto. Così come
Penna aveva potuto ignorare il fascismo e per questo spingere la critica fino
alla dissoluzione del suo oggetto offrendoci quel mondo attraverso l’idillio,
allo stesso modo in Salò non è la realtà del fascismo
che si rappresenta, ma appunto la sua irrealtà.
A supportare quest’affermazione all’apparenza paradossale, vale
ricordare il commento che di quel film diede Primo Levi in un’intervista
del 1986: «mi è sembrato un rigurgito, l’opera di un
uomo disperato, infatti Pisolini era disperato. E io non amo la disperazione.
Mi pare che la disperazione paralizzi. Credo che sia un film che ha nuociuto,
questo…non mi ricordo neanche più il titolo esatto. Credo di aver
rimosso. Non era così, non è vero che fosse così. Questa
ferocia totale non è esistita. C’era un’ampia zona grigia
. Anzi era quasi integrale. Allora eravamo quasi tutti grigi» (‘Conversazioni
e interviste 1963-1987’, Torino 1997, p.251).
Perché Salò è fatto soltanto da oggetti dal colore
accecante (vedi la descrizione di certe tazzine stile Bauhaus adoperate per
il film: «non potevo guardarle senza provare una fitta al cuore, seguita
da un profondo malessere», ‘Lettere Luterane’,
p.43), che sembrano quasi voler condensare nell’aspetto la violenza e
la barbarie? Perché non ci sono grigi?
Se Pasolini fosse riuscito a darci un ritratto di quella realtà cui Levi
accenna non avrebbe più retto la distinzione – così come
era stata da lui posta – fra vecchio e nuovo fascismo. La violenza si
dovrebbe dire semiotica di tutto ciò che entra come presenza in Salò
sta lì a indicarci che il fascismo non fu in grado di intaccare quella
dignità e bellezza degli uomini che lui amava e che lo Sviluppo, nel
suo giudizio, avrebbe distrutto.
Le considerazioni sin qui svolte sembrerebbero preludere ad un esito unico,
a riconoscere come soverchianti nell’esperienza artistica di Pasolini
le tonalità cupe del rimpianto e della disperazione, sostenute con l’animo
come di un martire e per questo racchiuse nella esemplarità del vissuto
più personale ed intimo. Di fronte ad esse ci si è di solito posti
trasformando Pasolini in un paradossale santo laico, facendo della sua tragica
esistenza l’oggetto di un atteggiamento pietoso, che lui avrebbe giudicato
‘tollerante’, e per questo ipocrita e fondamentalmente volto alla
rimozione.
Qui a tal proposito, si vorrebbe arricchire l’immagine del poeta con un
ultimo carattere, rispetto al quale – così si ritiene – non
soltanto quella risulterebbe maggiormente compiuta, ma noi allo stesso tempo
ne ricaveremmo l’idea di un modo d’essere che al di là di
ogni rivoluzione di classe, con più forza e forse sofferenza potrebbe
guidarci in quella che Montale dice essere la fatica del quotidiano rinascere
sempre uguali.
Nell’agosto del ’75 su ‘Il Mondo’, Pasolini si occupa
di una vicenda di cronaca riguardante una guardia di pubblica sicurezza e immagina
la possibilità di trarne il soggetto per un film (‘Lettere
Luterane’, pp.99 sgg.). La storia è quella di un giovane poliziotto
uccisosi dopo che il detenuto che gli era stato affidato era fuggito approfittando
della sua fiducia. Tale poliziotto era un ragazzo educato nella famiglia del
Sud dalla quale proveniva, al valore dell’ «obbedienza». Obbedienza
è fedeltà alle leggi – quelle che per scelta ci si dà
o quelle cui si sceglie di sottomettersi - ed intransigenza verso se stessi,
capacità di stringere un patto sulla base dei sentimenti, responsabilità
e coraggio, non altruismo ma rispetto, libertà che si compie nel difendere
una forma non disobbedienza. Tutto questo non importa se sia stato poi come
rubato, cristallizzato, mistificato dalla cultura clerico-fascista o, piuttosto,
importa nella misura in cui contro una obbedienza retorica è possibile
ancora commuoversi «ed ammirare la ‘forma’ dell’obbedienza»
(ibidem, p.106).
Questo era per Pasolini non una mitologia, ma il significato più profondo
che si può dare alla parola cultura: «perché la cultura
– in senso specifico o, meglio, classista – è un possesso:
e niente necessita di una più accanita e matta energia che il desiderio
di possesso» (ibidem, p. 86). Per essa c’è
bisogno di una vitalità – non importa quanto oscura o lacerata
– ma purchè sia accanita, fino a cercare il possesso di ciò
che può rendere chi si incammina per questa strada una sua felice occasione.
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