1. Vorrei innanzitutto chiederLe di riassumere brevemente
la tesi centrale del Suo intervento: la presenza di un nesso tra
presente e storicità, di un nesso fra eredità e
destino che si gioca nel presente. Cerchiamo di approfondire il
problema della temporalità sulla scorta delle seguenti
domande-guida: cosa significa pensare l’essere come accadimento?
Cosa significa pensare l’essere come un evento che non si
realizza?
Partiamo innanzitutto da questo dato di fatto: tutto Essere
e Tempo, ossia tutto il lavorio, la tessitura che Heidegger fa
della sua ricerca attraverso il grande lavoro delle lezioni accademiche,
delle conferenze, dei saggi (che soltanto successivamente sono
apparsi o confluiti nell’opera maggiore), possiede una segreta
forza di gravità, il tentativo ostinato, cioè, di
pensare l’essere non più nei termini di una presenza.
Pensare l’essere come una presenza significherebbe agli
occhi di Heidegger, non solo in questo momento ma nel corso di
tutta la sua ricerca, pensarlo ancora determinato in una oggettività
di tipo ontico-teoretico. Il suo tentativo è invece quello,
come mi sono sforzato di documentare nel mio intervento attraverso
il filo dell’Historisches e del Geschichtliches, di ripensare
l’essere come alcunché che accade. E forse anche
la dizione “qualcosa che accade” non è del
tutto esatta, perché non si tratta appunto di pensare alcunché
che accada, bensì il puro accadere. Questa mi sembra essere
la forza di gravità di Essere e Tempo, la sua tendenza
endogena, visto che tutte le strutture dell’opera mirano
ad articolare e a radicalizzare questo punto di vista. La Cura
stessa, l’essere-per-la-morte, l’estaticità
temporale dell’esistenza mirano a connotare il senso d’essere
dell’Esserci come qualche cosa che incessantemente si de-presentifica;
ma, d’altra parte, questo per Heidegger non significa assolutamente
sforzarsi di cercare il significato dell’Esserci in un oltre-mondo,
in una Utopia, in una escatologia. Questo è il punto che
nella mia relazione non ho avuto modo di affrontare e che Lei
giustamente mi ripropone perché è il focus finale
delle mie osservazioni.
Se, infatti, da una parte, per Heidegger, bisogna ripensare l’essere
in qualche modo “liberandolo” dalla presenza, non
soltanto dalla cosiddetta mera presenza sottomano, pensandolo
come alcunché che non può darsi in presenza, ma
in qualche modo deve sempre costruttivamente eccederla, dall’altra
parte, però, non c’è un altrove, un altro
luogo o un altro tempo rispetto alla presenza; anche il futuro
(e perciò la storia è così importante, in
quanto rappresenta il nesso tra il destino e l’eredità)
non è assolutamente da intendersi in chiave utopica o messianica,
in quanto il futuro non è un “non-ancora” che
si debba attendere ma è già in qualche modo sempre
accaduto come ritorno sulla fatticità. Non essendoci un
luogo o un tempo altro dal presente e non potendo l’essere
darsi in presenza, il rapporto tra la de-presentificazione e il
presente, cioè il rapporto tra questa possibilità
e il darsi nella presenza, rimane come segreta aporia, come nodo
irrisolto dal quale però non si può non passare.
Perciò a mio avviso il problema della storia è particolarmente
importante per comprendere il pensiero heideggeriano. Non a caso
ho insistito molto sulla storiografia e sulla distruzione, da
intendersi non semplicemente come una relativizzazione del presente,
visto che non si tratta appunto di cogliere un sovramondo o un
piano di valori intemporali rispetto al transeunte, al contingente,
al relativistico, ma di trovare nel presente lo scarto rispetto
al presente.
2. La possibilità di cui parla Heidegger, dunque,
non è da intendersi in senso modale, cioè come una
possibilità che manchi della realizzazione. Si tratta di
una possibilità che rimane, per così dire, in atto
come possibilità e che non passa mai all’atto nel
senso della realizzazione. Questa presenza di una certa attualità
nella potenza avvicinerebbe, secondo alcuni interpreti, Heidegger
ad Aristotele, il quale, come si sa, sostiene il primato dell’atto
rispetto alla potenza. Cosa ne pensa di questo accostamento?
Dobbiamo dire che in qualche modo uno scarto oggettivamente c’è.
Da un certo punto di vista, e sulla scorta di alcune interpretazioni
speculative che sono state tentate, si potrebbe dire che il modo
in cui Heidegger interpreta Aristotele, proprio in virtù
di un innegabile primato della “possibilità”
rispetto alla “realtà”, segnerebbe la preminenza
della potenza sull’atto. Tuttavia, ad un livello storico-critico,
non si può non evidenziare una differenza. Comunque lo
si voglia curvare, il primato dell’atto rispetto alla potenza
in Aristotele è un dato che si impone; non così
in Heidegger, dove, al contrario, emerge questa fortissima idea
di una possibilità che permane, liberata naturalmente dal
suo significato modale, e rimane come il nascosto e irrisolvibile
accadere dell’essere, che è un accadere senza presenza:
un accadere che non soltanto non prelude ad una realizzazione,
ad un telos, in cui possa realizzarsi, ma che è esso stesso
il compimento, l’unica possibile realizzazione, un evento
senza fatto. In questo io vedo un filo rosso che accompagna e
che attraversa tutte le svolte (con ciò non intendo dire
che Heidegger abbia pensato sempre alla stessa maniera) e che
rivela come la filosofia heideggeriana presenti alcuni elementi
in qualche modo invarianti, che poi vengono ripensati in contesti
diversi, venendo poi magari maggiormente sottolineati. Di certo,
però, uno di questi elementi invarianti nel pensiero heideggeriano,
e che io tentavo ieri di seguire attraverso il concetto dell’accadere
e della storicità, è rappresentato proprio dall’idea
che la possibilità è qualcosa che si rifiuta al
reale e alla realizzazione. Ciò che, in pratica, rimane
impensabile, impossibile per Heidegger è che qualche cosa
che si realizza possa custodire in sé il possibile; paradossalmente,
per essere molto ‘ontici’ nella dizione, si potrebbe
dire che la domanda sull’essere prima o poi è destinata
a diventare in qualche modo alternativa alla domanda sull’ente:
quando chiedo dell’essere, non posso che in qualche modo
sospenderlo come possibilità irrealizzabile rispetto agli
enti, e quando chiedo degli enti, non posso che necessariamente
aver dimenticato la verità dell’essere. Quello che
così diventa impensabile e impossibile per Heidegger è
il chiasmo tra il senso o la verità dell’essere e
l’ente stesso; è come se l’ente non fosse più
capace di portare il segno dell’essere, come se diventasse
opaco, non riuscisse più a dire l’essere. Come si
sa, infatti, sebbene in Essere e Tempo ci sia un ente che viene
interrogato perché risponda alla domanda sul senso dell’essere,
questa risposta viene interrotta, diventa appunto (l’)impossibile.
3. Cerchiamo ora di interagire virtualmente con la tesi di
von Herrmann secondo la quale la metaontologia di cui Heidegger
parla nell’ultimo corso marburghese del 1928 sarebbe una
ontologia regionale. Proprio in quel corso Heidegger definisce
l’oggetto della metaontologia, cioè to theion (il
divino), come das Umgreifende und Überwältigende (l’onniabbracciante
e l’incombente), das Übermächtige (l’onnipotente).
Determinazioni che non sembrano riportare a nulla di regionale.
Mi pare che Lei non sia d’accordo con questa lettura di
von Herrmann…
Non è solo una questione tra me e von Herrmann ma è
una questione sulla quale sono state spese pagine e pagine di
commentari medievali e rinascimentali nella storia dell’aristotelismo
e in cui si è spesa tutta la filosofia araba e tutta la
filosofia latina. C’è appunto un nesso tra la prote
philosophia (ontologia fondamentale) e la theologike
episteme (metaontologia); ma come bisogna intendere questo
timiotaton genos, questo genere supremo? In fondo si tratta pur
sempre di un genere, sebbene certamente supremo. Giustamente Lei
dice, è il genere supremo e sembrerebbe strano che esso
rappresenti solo un genere fra gli altri; tuttavia, rispetto all’altro
oggetto della metafisica, che è lo on e on,
il katholou, e che accoglie tutto al suo interno, il
divino rimane solo un genere dell’essere. Dunque, prospetticamente,
per quanto possa sembrare strano visto che ci riferiamo al divino,
dobbiamo dire che si tratta di una ontologia regionale. Su questo
bisogna poi fare un passo indietro e rivolgerci a Suarez (Heidegger
si è occupato di questo pensatore nel corso del 1927, I
problemi fondamentali della fenomenologia, e in quello del 29-30,
Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine)
con il quale la considerazione di Dio diventa in qualche modo
un aspetto inferiore dell’ontologia. L’ontologia tratta
dell’ens ut sic, dell’ens in quantum ens, che è
una nozione mentale in qualche modo, una pura fictio noetica,
che ha i suoi inferiora e tra questi inferiora c’è
anche il concetto di Dio. Allora, teologicamente o fisicamente,
il concetto di Dio è naturalmente il concetto primo perché
Dio ha creato l’uomo che pensa, ma, noeticamente parlando,
il concetto di Dio è inferiore al concetto di ente, perché
noi dobbiamo avere prima il concetto di ente per poter pensare
Dio come un ente particolare. Da questo punto di vista, dunque,
si capisce in che modo von Herrmann poteva dire che l’articolazione
tra prote philosophia e theologike episteme, in qualche
modo, ma sottolineerei molto questo “in qualche modo”,
prefiguri l’articolazione tra ontologia fondamentale e metaontologia.
Detto questo, in una battuta, io credo che al di là di
un programma sistematico, Heidegger non abbia poi sviluppato e
attuato questa metaontologia. Mi sembra forse un po’ debole
l’argomentazione di von Herrmann secondo la quale nel frattempo
urgevano nuove istanze teoretiche legate ai Beiträge zur
Philosophie (Vom Ereignis); la ragione potrebbe essere, piuttosto,
che questo ritorno dalla fondazione ontologico-esistenziale alla
ontica metafisica finisce per stridere con la radicalità
dell’istanza di de-presentificazione tipica della ontologia
fondamentale e, come mi permettevo di richiamare nella mia domanda
a von Herrmann, il punto non è tanto che si ritorni dalla
fondazione ontologico-fondamentale all’ontica metafisica,
ma che si tratti di una continua oscillazione dall’essere
all’ente. Dunque, anche quando si va all’ente bisogna
subito allontanarsene di nuovo e de-presentificarlo, perché
se si continua a considerarlo come ente diviene subito l’oggetto
delle scienze positive.
4. Sempre nell’ultimo corso marburghese del 1928, Heidegger
paragona la scienza dell’essere e la scienza del divino
alla diade di esistenza ed essere-gettato. Quest’ultimo
concetto di Geworfenheit riporta al tratto più finito del
Dasein, quello per cui l’Esserci non si è portato
da se stesso nella comprensione dell’essere. A questa finitezza
Heidegger sovrappone il concetto teologico dell’esser-creato….
Innanzitutto è interessante questo: anche il problema
dell’essere-creato viene interpretato da Heidegger come
un problema tipico di un’ontologia regionale. Accusiamo
questo colpo nell’impostazione del problema. Il problema
della derivazione, della provenienza dell’essere non è
più una questione che pertenga al senso dell’essere
in generale; da un certo punto di vista esso si dà in maniera
assolutamente autoreferenziale. In questo senso, mi viene in mente
che non tanto il rapporto tra potenza e atto, ma proprio il concetto
aristotelico di physis è in questo caso normativo. Che
cosa sono i physei onta? Sono quegli enti che hanno in sé
il principio del movimento. Heidegger ne parla en passant nel
corso del 1924 su Aristotele (Die Grundbegriffe der aristotelischen
Philosophie). Pur non soffermandosi molto su questo tema, mi sembra
di non tradire la sua intenzione se unisco la intenzionalità
ontologica heideggeriana di questi anni a quella idea fondamentale
della physis, dei physei onta. L’idea consiste proprio in
questa radicale autoimmanenza del principio, in questa totale
presenza endogena del principio del movimento, di modo che l’esser-creato
diventi un problema di ontologia regionale, cioè dell’eventuale
considerazione del rapporto tra l’ente primo e gli enti
creati (che sono in qualche modo già un secondo livello
rispetto al pensiero dell’essere in generale). D’altra
parte sappiamo bene che anche in anni successivi a Essere e Tempo,
Heidegger ha sempre detto che noi non possiamo originariamente
pensare gli elementi fondamentali di qualsiasi teologia se non
ripensiamo preventivamente il senso originario dell’essere
stesso. Anche qui, però, noto il problema. Così
come prima dicevo che il punto è di pensare un accadimento
che non si può mai dare in presenza: qui la vera posta
in gioco secondo me viene concentrata da Heidegger sul concetto
di “dato”. Cosa significa che qualcosa è “dato”?
Anche nella nostra lingua, il termine “dato” è
innanzitutto il participio passato di un verbo. “Qualcosa
è dato”, noi normalmente lo intendiamo come un prodotto
finale, come qualcosa che è qui presente a disposizione,
sottomano. Ma nella parola stessa vibra una provenienza: qualcosa
è dato perché proviene, mi è stato dato.
Heidegger sa bene tutto questo, ma il suo tentativo è di
pensare questo “dato” senza un donatore e senza un
donato, di pensare questo dato come una pura donazione senza un
terminus a quo e senza un terminus ad quem, perché in entrambi
casi la donazione ricadrebbe in due poli ontici, e quindi per
lui accadrebbe un corto-circuito e si azzererebbe l’enigma,
la profondità e il mistero dell’essere.
5. Pensare l’essere come una pura donazione senza un
terminus a quo e senza un terminus ad quem richiama la celebre
definizione dell’Esserci che Heidegger effettua in Essere
e Tempo: nullo fondamento di una nullità. In questa struttura
negativa della costituzione d’essere dell’Esserci
mi pare rientri anche il concetto di libertà…
La cosa è molto complessa. Io mi sono occupato di questo
problema in un libro sulla interpretazione che Heidegger ha dato
di Schelling, intitolato Libertà dell’uomo e necessità
dell’essere. Heidegger interpreta Schelling. Heidegger parte
da un’idea in qualche modo assolutamente cristiana della
libertà (si pensi alla frase dal vangelo di Giovanni, die
Wahrheit wird euch frei machen). Quando nell’Essenza della
verità (Vom Wesen der Wahrheit), dice che l’essenza
della verità è la libertà e che la libertà
è il lasciar-essere l’ente, stacca la libertà
dal mero esercizio della volontà e intende la libertà
come ricettività, come accoglienza. Da subito Heidegger
afferma che la libertà non è una capacità,
un possesso dell’uomo, ma al contrario l’uomo ne è
posseduto. Nel cristianesimo, da cui Heidegger eredita questo
pensiero, vi è, infatti, l’idea che la libertà
è ricezione o adesione a qualche cosa di altro da me, cioè
non è innanzitutto una mia decisione, ma è riconoscimento
dell’essere (questa è la vera libertà e gli
animali non hanno questa libertà perché semplicemente
reagiscono all’essere, meccanicamente).
Ma nel momento in cui Heidegger de-personifica la libertà,
non lasciando che si tratti più di una facoltà individuale,
ma del neutro Esserci, della neutra decisione gettata, della pura
finitezza, ci troviamo in una situazione postcristiana. E allora
a questo punto l’“altro” nel cui riconoscimento
si deve giocare la libertà non può essere un “altro”
che mi raggiunga. Non a caso nella frase che Heidegger cita da
Agostino, «Libertas vera est (Christo) servire», il
«Christo» deve essere messo tra parentesi. Ed è
una aporia che crea dei problemi perché quella frase di
Agostino non sarebbe stata possibile mettendo tra parentesi il
«Christo». Agostino fa quella scoperta perché
c’era quella parola; crea gnoseologicamente dei problemi
poter estrapolare quella frase mettendo tra parentesi il motivo
della scoperta.
6. La libertà, dunque, non è un possesso dell’uomo
ma è piuttosto l’uomo ad essere posseduto da questa
libertà. Questa prospettiva è chiaramente presente
anche in Essere e Tempo. Tutte quelle visioni della Kehre che
vedono in Essere e Tempo un’opera fortemente volontaristica,
in cui l’Esserci cioè possiede effettivamente la
libertà piuttosto che esserne posseduto, e nella restante
produzione heideggeriana la perdita di questa libertà da
parte dell’Esserci, dove traggono allora la loro credibilità?
Certe letture sono state dettate in gran parte da spunti ideologici;
molte di queste sono anche legate ad una certa reazione neoilluminista,
ad una certa reazione rispetto alla grande polemica seguita all’affaire
del rettorato del 1933, per cui si aveva buon gioco nel dire che
il Dasein è l’individuo totalmente depotenziato di
una sua capacità decisionale, totalmente schiacciato. Io
credo che a distanza di tempo le cose non stiano così,
anzi che da un certo punto di vista quelle siano le cose forse
più interessanti di Essere e Tempo, cioè il fatto
che in qualche modo l’uomo deve fare i conti con la carne
viva della sua fatticità, come qualcosa che venga prima
di qualsiasi atto di volontà. La tradizione da cui Heidegger
prende tutto questo è ovviamente la tradizione del peccato
originale; ben prima di qualsiasi auto-determinazione volontaristica
c’è la presa d’atto di una insuperabile fragilità.
Ma sta di fatto che Heidegger fa rispetto a tutto questo un passo
avanti. C’è qui una strana eterogenesi dei fini e
a me sembra che si possa rovesciare questa critica: lungi dall’essere
un depotenziamento della volontà, forse è una vertiginosa
affermazione della volontà, anche se sub contrario. Perché
lì dove la finitezza non è più segno o traccia
del rapporto con altro da sé, e diventa absoluta, sciolta,
allora non come autopotenza ma come impotenza, l’Esserci
diventa assolutamente autoreferenziale. |