Lo scorso ottobre, presso l’Università del Sussex (Brighton, UK),
si è tenuto un convegno internazionale dall’impegnativo titolo
“New Directions in Cognitive Linguistics”. L’apertura affidata
a William Croft, la conclusione alla lezione magistrale di Ronald Langacker.
Durante i lavori è stata fondata la Società inglese di Linguistica
Cognitiva, http://cogling.org.uk/mambo/ (da aggiungersi a quella internazionale,
www.icla.com, fondata nel 1989 e legata al giornale Cognitive Linguistics, http://www.princeton.edu/~cogling/,
e ad altre ancora sorte a livello nazionale).
Insieme alla pubblicazione, di seguito, di tre interviste con William Croft,
Ronald Langacker e Patrizia Violi intorno ai temi dell’incontro, cogliamo
l’occasione per concederci qualche riflessione.
A dispetto della solidità teorica ed organizzativa esibita in questi
ultimi anni dalla linguistica cognitiva (prova ne sia, appunto, il succedersi
di convegni internazionali sul tema e il proliferare di associazioni ad essa
ispirate), poco più di una decina di anni fa Diego Marconi definiva la
semantica cognitiva, più che una teoria o un programma di ricerca, come
una «famiglia di teorie» o, ancor meglio, «un insieme di esigenze
e atteggiamenti critici» verso certi modi di occuparsi di semantica, tra
cui l’impostazione modellistica di impianto logico-formale e quella legata
alla riflessione più strettamente linguistica [in Santambrogio M. 1992,
(a cura di), Introduzione alla filosofia analitica del linguaggio,
Laterza, Roma-Bari].
Il carattere multiforme ed eterogeneo del campo rubricabile in senso lato come
Linguistica Cognitiva – d’ora in avanti LC – è sotto
certi aspetti rimasto invariato, giacché non si è assistito in
questi anni a un processo di uniformazione che riuscisse ad arginare la proliferazione
terminologica e teorica che ha caratterizzato la produzione degli autori inscrivibili
nell’alveo cognitivo – tra cui William Croft, Gilles Fauconnier,
Mark Johnson, George Lakoff, Ronald Langacker, Leonard Talmy. La mancanza di
un processo di uniformazione non ha impedito però che si affermasse una
data corrente – ben rappresentata in questo convegno – più
di altre, e precisamente quella sviluppatasi intorno all’opera di Ronald
Langacker, da considerarsi senza dubbio come uno dei padri e dei principali
teorici dell’approccio cognitivo in linguistica.
A partire dall’elaborazione della cosiddetta Space Grammar (1982),
per giungere poi ai due volumi che segnano la fondazione della Cognitive
Grammar – il primo edito nel 1987, il secondo nel 1991 –, l’autore
ha avuto il merito di sistematizzare e dare un proprio fondamentale contributo
ad atteggiamenti e tendenze che, dalla fine degli anni Settanta, cominciavano
a serpeggiare, ancora privi di veste ufficiale, negli ambienti vicini, seppur
già critici, alla scuola generativista chomskiana (e che avevano dato
vita alla Semantica Generativa).
Il principale capo d’accusa, che si erige poi a tratto distintivo della
LC, consiste nella critica alla concezione autonomista del linguaggio, che accomuna
del resto generativismo e strutturalismo. L’affermazione della non-autonomia
del linguaggio e della centralità della semantica conduce i linguisti
cognitivi a un costante confronto con principi e fenomeni non prettamente linguistici,
bensì appartenenti in generale allo studio della mente e dei meccanismi
cognitivi. Con le parole dello stesso Langacker, connotate da una forte –
forse talvolta eccessiva – retorica rivoluzionaria, la Grammatica Cognitiva
conduce a un «radicale ri-orientamento concettuale» che, introducendo
nuovi concetti, termini e notazioni, modifica fortemente i modi tradizionali
di fare linguistica legati, fino a quel momento, o alla scuola strutturalista
o all’impostazione logicista-formale. Il fulcro dell’innovazione
risiederebbe soprattutto nel ripensamento della grammatica che, anziché
essere considerata, come di tradizione, un livello di rappresentazione autonomo,
formale ed arbitrario, viene assimilata ad un dispositivo simbolico, al pari
del lessico, in cui sarebbero condensati i modi convenzionali di «simbolizzazione
della struttura semantica» [Langacker 1987, Foundations of Cognitive
Grammar, vol. 1, Stanford University Press, Stanford, pp. 2-3]. Sulla stessa
scia, si rifiuta la distinzione di principio tra elementi lessicali, morfologici
e sintattici, considerati ora come disposti su un continuum di strutture
simboliche situate a differenti livelli di astrazione. Inoltre, la tematizzazione
della dimensione incorporata e non-autonoma del linguaggio conduce alla sostanziale
identificazione del significato con i processi di concettualizzazione, a loro
volta fondati sul livello percettivo: operazione, questa, che ha il compito
di mettere in luce «la nostra multiforme capacità di concepire
e ritrarre una situazione in modi diversi contemporaneamente» (Langacker).
Alla semantica viene così affidata la funzione di descrivere i modi di
cogliere e di formarsi delle rappresentazioni mentali e, in questo senso, la
grammatica cognitiva comincia a fare ampio e continuo uso di concetti presi
in prestito dalla psicologia cognitiva, in particolare dalla teoria dei prototipi.
Il contributo di William Croft allo sviluppo della LC è filtrato dal
suo particolare background formativo: tra i suoi maestri troviamo infatti
lo statunitense Joseph Greenberg, studioso di tipologia linguistica impegnato
nella ricerca di universali linguistici attraverso un sistematico confronto
tra diverse lingue, e l’inglese Alan Cruse, professore all’Università
di Manchester (dove lo stesso Croft ha trascorso diversi anni), ora sostenitore
della LC ma originariamente inscrivibile in una prospettiva di semantica strutturale,
come dimostra la sua dettagliata analisi della questione delle relazioni semantiche
[Cruse 1986, Lexical semantics, Cambridge University Press, Cambridge,
UK]. Croft ha saputo fare tesoro dei diversi punti di vista rappresentati dai
propri maestri, e si rivela per questo un linguista cognitivo particolarmente
originale e attento a temi di cui talvolta si sente la mancanza nell’impostazione
della LC: tra questi, la necessità di un punto di vista diacronico e
del confronto interlinguistico, tematizzati invece nella prospettiva tipologica.
Inoltre, come emerge dall’intervista, Croft rappresenta uno degli studiosi
che maggiormente sottolinea l’esigenza attuale, per l’approccio
cognitivo, di misurarsi con alcune delle caratteristiche del linguaggio –
quali la sua natura condivisa, sociale, culturale – di cui finora non
si è tenuto conto a sufficienza. Come fa giustamente osservare Violi,
sebbene si presenti in generale come una teoria del linguaggio nel suo uso,
la LC si è rivelata finora un apparato troppo schematico e troppo poco
attento alla dimensione pubblica e condivisa delle rappresentazioni linguistiche
per poter costituire, come vorrebbero i suoi sostenitori, un approccio onnicomprensivo
ai fenomeni linguistici. Gli schemi di costruzione semantica (construals)
elaborati nella grammatica cognitiva da Langacker (vedi il testo dell’intervista),
così come nella Construction Grammar da Croft, si collocano
ad un livello di astrazione troppo alto per riuscire a rendere conto del continuo
processo di costruzione locale e “contrattazione intersoggettiva”
dei significati. Processo che, da un lato, presuppone l’esistenza di un
livello minimo (o sottodeterminato) di rappresentazioni pubbliche, sedimentate
nelle lingue storico-naturali, e dall’altro, contemporaneamente, riesce
a spiegare l’uso talvolta idiosincratico e personale, pur sempre comprensibile,
dei simboli linguistici.
Il riconoscimento di un’indefinita – ma non infinita – polisemia
linguistica, poi, mette in discussione il confine tra semantica e pragmatica,
rendendo difficile stabilire un confine tra conoscenza dizionariale ed enciclopedica.
Se da un lato, scrive Lepschy [1994, Semantica, in G.L. Beccaria (a
cura di), Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica,
Einaudi, Torino, p. 657] «la psicoanalisi ci insegna che dire una cosa
volendone un’altra è una condizione normale, e non eccezionale,
nel nostro comportamento linguistico», dall’altro questa ammissione
finisce per creare notevoli problemi nella definizione della semantica come
lo studio del significato come codificato nel sistema linguistico. Se da un
lato il collasso del dizionario sull’enciclopedia, e della semantica sulla
pragmatica, apre a una dimensione esperienziale del senso non regolata da condizioni
necessarie e sufficienti, dall’altro rischia, se non debitamente arginata,
di rendere intrattabile la natura del significato delle parole, che richiamerebbero
all’infinito la totalità degli elementi linguistici di un sistema,
come prospettato nell’olismo quineano. Inoltre, l’opzione enciclopedica,
in quanto culturalmente regolata, va esplorata cercando di far emergere una
seppur mutevole struttura, di volta in volta codificata in domini, spazi mentali
o frames.
Un prezioso contributo alla comprensione dell’orientamento cognitivo
in linguistica e all’ampliamento della prospettiva teorica in cui situare
questo fenomeno, in particolare nella direzione di un confronto con l’approccio
semiotico, ci è stato dato dal colloquio con Patrizia Violi, studiosa
di formazione semiotica che, avvicinandosi da esterna all’“impresa
cognitiva”, ha potuto coglierne, oltre ad alcuni spunti promettenti, qualche
limite teorico. L’autrice si fa portavoce dell’esigenza, responsabile
del suo avvicinamento alla LC, di rinsaldare il legame, minacciato dall’anti-psicologismo
strutturalista, tra i domini percettivo, corporeo e propriocettivo e i processi
della significazione. In questo senso la LC, attenta alla dimensione “incorporata”
del linguaggio, fornisce adeguati strumenti teorici, quali gli schemi d’immagine
elaborati da Lakoff e Johnson [1980, Metafora e vita quotidiana, Bompiani,
Milano] o le dimensioni della costruzione semantica di Langacker, che sfruttano
l’analogia tra percezione e linguaggio facendo esplicito riferimento ai
principi fondanti la psicologia della Gestalt. Non a caso, gli ambiti di applicazione
privilegiati dalla LC sono i processi di categorizzazione e i casi di linguaggio
figurato (metafora, metonimia, etc.). È quindi fondamentalmente l’insoddisfazione
verso il trattamento strutturalista intralinguistico del significato ad aver
spinto Violi verso la prospettiva cognitiva post-chomskiana che, ponendo il
significato – o il contenuto, in quanto opposto alla forma – al
centro della riflessione linguistica, finisce per abbattere la distinzione tra
conoscenza dizionariale ed enciclopedica, proponendo una teoria di ispirazione
empirista dell’acquisizione, formazione ed evoluzione dei significati.
D’altra parte, Violi concede ampio spazio alla problematizzazione, principalmente
legata alla mancata distinzione tra significati e concetti e all’insufficiente
messa in evidenza del carattere culturalmente e socialmente regolato del sistema
linguistico. Insistendo infatti sul profondo – e indubbio – legame
tra cognizione e linguaggio, i linguisti cognitivi rischiano di perdere di vista
le caratteristiche specifiche dei processi linguistici, come i fenomeni
di lessicalizzazione, rispetto ai meccanismi alla base di processi cognitivi
in genere, come la formazione dei concetti. Per comprendere a pieno l’elaborazione
del rapporto tra sistema concettuale e linguistico nell’approccio cognitivo,
tuttavia, è opportuno tenere conto dell’intricata parentela che
lo lega alla scuola chomskiana. Al di là del carattere innegabilmente
innovativo della linguistica chomskiana, nella considerazione del linguaggio
come facoltà autonoma dal resto delle capacità cognitive,
Chomsky si associa alla precedente impostazione strutturalista. Inoltre, se
da un lato, opponendosi al comportamentismo, adotta una posizione “psicologista”,
intendendo occuparsi della competenza linguistica del parlante, dall’altro
si intuisce, già dalla tradizione filosofica in cui egli stesso si inserisce
(il razionalismo cartesiano), il potenziale “separatismo” che contraddistingue
la sua filosofia del linguaggio. Separazione non solo tra linguaggio e cognizione
ma anche tra sintassi e semantica, a tutto vantaggio dei primi termini delle
coppie.
La LC, non a caso, parte proprio dalla critica alla concezione autonomista del
linguaggio, sforzandosi di ricondurlo a una dimensione ancorata alla percezione
e alla realtà, tematizzando le sue radici biologiche, insistendo sui
suoi aspetti motivati. In questo senso va interpretato il tentativo di Langacker,
e di tanti altri, di riportare la grammatica a una dimensione motivata: questa
operazione nasce da una sua considerazione come un dispositivo altamente schematico
ancorato a fenomeni senso-motori, che si oppone alla sua interpretazione tradizionale
come un sistema formale ed arbitrario. L’affermazione della non-autonomia
del linguaggio va di pari passo con la considerazione della semantica come teoria
della comprensione, cui viene affidato il compito di esplorare i processi di
comprensione reale, formulando ipotesi psicologicamente plausibili riguardo
alla formazione delle rappresentazioni mentali. Scalzando le ipotesi di stampo
strutturalista che si appellano a forze arbitrariste nel render conto dell’articolazione
linguistica, le semantiche cognitive insistono sul tema della motivazione linguistica,
mutuata dai domini percettivo e cognitivo. In generale, il rapporto tra sistema
concettuale e semantico-lessicale, tra categorizzazione concettuale e linguistica,
è orientato verso una netta priorità dei primi rispetto ai secondi
termini. Se alcuni vedevano nello strutturalismo il rischio di una tendenza
verso forme di relativismo linguistico – talvolta interpretate come mal
celato determinismo –, i recenti orientamenti cognitivi finiscono per
perdere di vista, con la proposizione di un sostanziale appiattimento del piano
lessicale su quello concettuale, le caratteristiche proprie di un’analisi
semantica e lessicale, dotata di meccanismi e forze specifiche, che la distinguono
da un mero studio delle forme dell’organizzazione concettuale e della
rappresentazione delle conoscenze. In tal modo, ciò che si rischia di
mettere in discussione è lo stesso statuto epistemologico della linguistica.
È questo uno dei punti più controversi del panorama delineato
dagli studi cognitivi post-chomskiani in linguistica. Nonostante sostengano
una concezione empirista dell’acquisizione del linguaggio e della formazione
dei concetti, opposta al modularismo e all’innatismo chomskiani, con l’adesione
a una semantica concettualista i linguisti cognitivi pongono l’accento
sulla comunanza e somiglianza dei processi che caratterizzano la categorizzazione
percettiva, concettuale, linguistica. Costantemente alla ricerca di elementi
universali riflessi nel linguaggio e radicati nella somiglianza dei modi di
fare esperienza, la LC finisce per disconoscere il ruolo che ciascuna lingua
storico-naturale – e non il linguaggio in genere – gioca nell’organizzazione
e nella costruzione dell’esperienza. Per quanto si riconosca nella lingua
un sistema plastico e plasmabile dotato di significati indefinitamente estensibili
declinati nei diversi idioletti, sarebbe poco plausibile non attribuirle un
ruolo importante nel prodursi e nell’organizzarsi della conoscenza. In
ciò consiste il prezzo della rinuncia a quel livello semantico specifico
– del senso – privilegiato invece sia nella semantica strutturale
che nell’approccio semiotico. Il radicamento biologico e percettivo delle
strutture alla base del linguaggio e delle lingue non dovrebbe investire il
livello di rappresentazione semantico-lessicale per il quale possono e devono
essere riconosciuti alcuni meccanismi specifici, che si appellano al principio
anti-teleologico dell’arbitrarietà saussuriana all’opera
nei fenomeni linguistici. È opportuno riconoscere, in breve, che la motivazione
eletta a principio esplicativo dei domini percettivo e concettuale, enfatizzata
ad esempio dallo studio di Berlin e Kay sul campo dei colori [1969, Basic
color terms, University of California Press, Berkeley], debba subire un
forte ridimensionamento quando si è alle prese con fenomeni propriamente
linguistici. Se così non fosse, si ricadrebbe nella considerazione della
lingua come una nomenclatura, aspramente criticata da Saussure nelle celebri
pagine del Cours.
Il fatto che si possa attribuire contenuto semantico alle strutture grammaticali
di una lingua, e che quindi esse possano essere soggette a un’interpretazione
in termini funzionali, non implica di per sé l’annullamento della
distinzione tra lessico e grammatica, così come l’esistenza di
universali percettivi – mostrati da Berlin e Kay nel dominio dei colori
– non conduce, com’è evidente, all’omologazione dei
sistemi lessicali. Non sempre l’evoluzione delle lingue storico-naturali
rispecchia un principio logico razionale, e questo, sebbene sia osservato
nella LC, non è all’interno di essa sufficientemente spiegato.
Riconducendo infatti la diversità e la specificità delle strutture
semantiche ai diversi modi di concettualizzare, cogliere, verbalizzare le medesime
situazioni a seconda del punto di vista (declinato nei diversi construals),
si continua a rimanere nella convinzione che tutti i fenomeni linguistici siano
riconducibili a motivazioni profonde, cosa che non sempre rispecchia la realtà,
come mostra lo studio dei mutamenti semantici. Anche nell’evoluzione linguistica,
così come nell’evoluzione biologica, si deve lasciare un certo
spazio al caso, senza con ciò temere di perdere presa sui fatti linguistici,
se non si vuole finire per postulare un principio teleologico in grado di governare
la totalità dei fenomeni.
Nel tentativo di sfuggire a qualsiasi forma di relativismo, i linguisti cognitivi
sembrano negare qualsiasi ruolo della lingua nell’organizzazione della
nostra visione del mondo. Ciò che in tal modo si rischia di non afferrare
è dunque il ruolo storico e sociale della lingua come luogo di sedimentazione
degli usi e delle conoscenze di una comunità. Come scrive Cardona [2001,
I sei lati del mondo, Laterza, Roma-Bari]:
«…molte tracce di quel che pensiamo e comunemente sappiamo filtrano
in quel che diciamo, si depositano, si sedimentano in momenti e occasioni diverse.
Per noi che le usiamo le parole sono ciottoli tutti uguali, e tali devono sembrarci;
ma se ci soffermiamo ad osservarli, ciascuno ci mostra la sua storia, la sua
composizione, le sostanze che vi si sono dentro fossilizzate» (p. 2).
Tutto ciò, nell’approccio cognitivo, lascia il posto allo studio
di meccanismi così astratti da poter essere considerati universali e
indipendenti da fattori culturali. Come altre teorie di ispirazione cognitivista,
la LC parte dall’indagine di un individuo “stilizzato” per
poi accorgersi solo in un secondo momento della natura intrinsecamente e primariamente
sociale, condivisa, intersoggettiva, culturalmente specifica della lingua e
della conoscenza, da cui lo studio dell’individuo non può prescindere.
Allo stesso modo, enfatizzando un approccio naturalistico e descrittivo, la
LC manca di sottolineare l’aspetto normativo del linguaggio, regolato
appunto dall’uso e dalla convenzione, sempre mutevoli ma nondimeno esistenti.
Una maggiore attenzione alla distinzione tra il livello concettuale e semantico-lessicale
e all’asse normativo-culturale e intersoggettivo della dialettica che
domina le lingue storico-naturali donerebbe all’approccio cognitivo una
visione senza dubbio più perspicua ed acuta sui fenomeni linguistici.
Infatti, proprio «nella perpetua, mutevole dialettica tra la variazione
e la diversità dei modi culturali e le costrizioni che ad essi oppone
l’immutabile condizione umana sta [o dovrebbe stare, n.d.A.] uno dei principali
motivi di interesse e di fascino per l’osservatore, antropologo o linguista»
[ivi, p. 3].
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