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Verso una linguistica cognitiva intersoggettiva Intervista a William Croft
di Giulia Piredda

 

p>Cominciamo con una domanda introduttiva: che cosa si intende per Linguistica Cognitiva?

A mio avviso la linguistica cognitiva è un movimento storico che rappresenta una sfida sia per la semantica vero-condizionale che per la linguistica generativa. Questa interpretazione deriva dal fatto che mi sono formato negli Stati Uniti nel corso degli anni Settanta e Ottanta. Sicuramente molte delle idee ora confluite nella linguistica cognitiva esistevano già prima dei primi lavori di Fillmore, Talmy, Lakoff, Langacker ed altri. Mi sembra però che sia soltanto a partire dagli anni Settanta che il movimento ha cominciato a prendere piede e ad espandersi.


Lei ha dato inizio al convegno di Brighton sulle ultime evoluzioni della Linguistica Cognitiva con una relazione centrata su una tesi programmatica ben precisa: la Linguistica Cognitiva ha bisogno di sviluppare strumenti teorici che permettano di integrare la dimensione sociale e intersoggettiva nello studio del linguaggio. Potrebbe riassumere brevemente la Sua posizione?

Per dirla in breve, con le parole di Chris Sinha [Professore di Psicologia del Linguaggio all’Università di Portsmouth e presente al convegno], la linguistica cognitiva ha bisogno di “uscire dai confini della testa”. La principale funzione del linguaggio è la comunicazione al servizio dell’interazione sociale, e la linguistica cognitiva deve tener conto di questo fatto. Perciò, io proverei a riformulare i principi base della linguistica cognitiva in questo modo, come ho sostenuto nel mio intervento a Brighton:

- le strutture e i processi grammaticali nella mente sono casi non solo di abilità cognitive generali (come percezione, memoria e categorizzazione), ma anche di abilità cognitive sociali (tra cui azione condivisa, coordinazione e convenzione);
- la grammatica non è solo simbolica (nel senso di mero accoppiamento di forma e significato), ma rimanda effettivamente a un triangolo composto da una forma, un significato e una comunità linguistica in cui quel particolare accoppiamento di forma e significato sia considerato convenzionale;
- il significato non solo è enciclopedico (quindi basato sull’intera nostra conoscenza del mondo) ma è anche condiviso dagli interlocutori (conoscenza condivisa, credenze e atteggiamenti basati su pratiche comuni);
- il significato non si risolve nella concettualizzazione (attenzione, confronto, prospettiva e Gestalt) perché la concettualizzazione è sempre al servizio della comunicazione, che a sua volta serve a fondare l’interazione sociale.

L’adozione di questa prospettiva provoca un ampliamento degli orizzonti della linguistica cognitiva, rendendola sempre di più una teoria, o almeno una parte di teoria, che investe il linguaggio nel suo complesso.


Non crede che sia un rischio cui va incontro qualsiasi teoria che si propone come cognitiva quello di concentrarsi in prima battuta sui caratteri individuali e di dover in un secondo momento “recuperare” la dimensione intersoggettiva e sociale come costitutiva della stessa individualità e, naturalmente, del linguaggio? Mi ricorda le evoluzioni degli ultimi decenni in scienza cognitiva…

Su questo sono assolutamente d’accordo. Il salto verso una prospettiva che includa la dimensione sociale rappresenta la risposta a un’esigenza intellettuale generale sviluppatasi negli ultimi decenni del secolo scorso e che mi auguro possa proseguire in quello attuale.


Il Suo percorso di studi, a partire dalla figura di uno dei Suoi maestri, Joseph Greenberg, denota uno spiccato interesse per la varietà delle lingue e il confronto interlinguistico. Come si concilia l’impostazione tradizionale legata alla ricerca tipologica con l’accettazione del paradigma della Linguistica Cognitiva? Quali sono le principali differenze, se ve ne sono, tra i due approcci?

Se si adotta un punto di vista interlinguistico, l’analisi della grammatica deve essere riformulata come la codificazione di una funzione (significato) in una forma. Il punto di partenza è perciò sempre la prospettiva simbolica, e le spiegazioni che emergono da un tale approccio sono basate sul concetto di funzione. La linguistica cognitiva offre un modello dettagliato della struttura semantica, che può rivelarsi utile in sede di spiegazione tipologica. La prospettiva tipologica, d’altro canto, rende conto della variazione linguistica, e del fatto che un’analisi cognitiva di un fenomeno linguistico in inglese o in spagnolo non può essere considerata universale – e dunque la realizzazione di un processo cognitivo basilare – fin quando non si compiano incursioni interlinguistiche alla ricerca di universali radicati nella cognizione.

I linguisti cognitivi, a partire da Langacker e Fillmore, adottano una concezione concettualista del significato, con ciò prendendo le distanze da un lato dalla tradizione strutturalista del significato come valore e dall’altro dal referenzialismo che caratterizza le impostazioni logico-filosofiche. Quali sono i vantaggi di una tale impostazione? Non crede che l’identificazione dei significati con le rappresentazioni concettuali faccia perdere di vista alcune caratteristiche appartenenti propriamente al livello linguistico-lessicale non direttamente riscontrabili nel sistema concettuale?

Il vantaggio principale della posizione concettualista consiste nel cogliere aspetti del significato linguistico che vengono invece mancati sia dalle teorie strutturaliste che dalle impostazioni vero-condizionali. In effetti, però, credo anch’io che sussista il rischio di perdere il legame tra la mente e l’esperienza esterna. Il rapporto tra mente e realtà è piuttosto complesso e non può essere ridotto né al modello realista per cui l’esperienza esterna determinerebbe il significato linguistico né al semplicistico modello di relativismo estremo secondo cui sarebbe la struttura linguistica a determinare la nostra concezione del mondo. Si tratta chiaramente di una relazione che opera in entrambi i sensi.


Nel lavoro di molti linguisti cognitivi ci si concentra su un punto di vista esclusivamente sincronico: non crede sia necessario, per una teoria il più possibile completa del linguaggio, integrare l’indagine sincronica con osservazioni e studi diacronici? Quali sono gli strumenti che la Linguistica Cognitiva potrebbe offrire in questo senso?

Ritengo assolutamente necessaria l’adozione di un punto di vista diacronico. Il vero problema sta nel TIPO di prospettiva sincronica generalmente adottata, e con ciò non mi riferisco solo alla grammatica generativa, allo strutturalismo o alle semantiche vero-condizionali. La prospettiva sincronica generalmente adottata è di tipo statico, benché la realtà sincronica sia invece pervasa da una forte variabilità nel comportamento linguistico. Tale variabilità è riscontrabile dal più semplice evento comunicativo fino ad arrivare alle sostanziali differenze tra le lingue storico-naturali (vale a dire le diverse convenzioni adottate dalle comunità linguistiche). Solo una volta riconosciuto ed accettato il ruolo fondamentale della variabilità nell’analisi sincronica, l’aggiunta di una dimensione diacronica potrà costituire un passaggio naturale: inoltre, è il tipo di variabilità stessa a cambiare per diverse ragioni nel corso del tempo, e questo è ciò che chiamiamo mutamento linguistico.


(traduzione dall’inglese a cura di Giulia Piredda)


PUBBLICATO IL : 15-07-2006


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