In occasione del Festival di filosofia a Roma è stato possibile
incontrare il prof. Achille Varzi, docente di logica e metafisica presso la
Columbia University di New York, che ha voluto rispondere ad alcune domande
concernenti il suo campo di ricerca.
D: Quale può essere oggi la Grundfrage, la domanda fondamentale
per la filosofia?
R: Quella che mi ha appena fatto lei… Dopo di che direi senz’altro
che una delle domande più impegnative riguarda la linea di demarcazione
tra questioni relative al mondo e questioni che vertono invece sulla nostra
rappresentazione del mondo. Ogni filosofo è tenuto a fare chiarezza e
a prendere posizione su questa demarcazione, le cui ramificazioni interessano
tutti i campi, dalla metafisica all’epistemologia all’etica. C’è
una bella differenza tra attribuire un fondamento oggettivo alle verità
e ai principi su cui si regge la nostra immagine del mondo (come vuole il filosofo
realista) e ritenere invece che l’unico fondamento risieda nella nostra
azione organizzatrice e negli schemi concettuali che la sottengono (come sostengono
in varia misura gli idealisti, gli strutturalisti, o i costruttivisti post-moderni).
D: Achille Varzi si classifica come realista?
R: Sono realista in quanto ritengo il mondo indipendente da noi, ma sottolineo
con forza che siamo noi a dare un senso alla realtà che ci circonda,
imponendole una struttura e delle leggi che riflettono inevitabilmente i nostri
interessi e la nostra conformazione cognitiva. Siamo noi, per esempio, a “ritagliare”
gli oggetti dell’esperienza quotidiana tracciandone i confini. Parliamo
di tavoli, città, persone come se fossero individui dotati di esistenza
e identità auto-nome, ma a ben vedere ci sono solo porzioni di mondo
che tavoleggiano, porzioni che mila-neggiano, porzioni che achillevarzeggiano,
e buona parte dei problemi della filosofia derivano dal fatto che i concetti
attraverso cui selezioniamo queste porzioni non hanno confini precisi. Oserei
dire che anche l’etica risente di questo stato di cose: i problemi evidenziati
dal dibattito sull’aborto o sull’eutanasia non dimostrano forse
che il nostro concetto di persona—il concet-to che abbiamo di noi stessi—ha
confini tutt’altro che chiari? Siamo tutti d’accordo sul fatto che
bisogna rispettare la vita di ogni individuo, ma non siamo d’accordo su
che cosa sia un individuo.
D: Più in particolare quali sono le domande fondamentali della metafisica
contemporanea?
R: Credo si possano indicare cinque direttrici di ricerca fondamentali. In
primo luogo vi è la questione relativa alla natura degli oggetti.
Sin dai tempi del primo empirismo ci si interroga su questo: se gli oggetti
siano sostanze, fasci di proprietà, porzioni di materia ritagliate con-venzionalmente
(come dicevo poc’anzi). Un’altra questione concerne le condizioni
di identità degli oggetti: a questa si associano i quesiti sulla
persistenza nel tempo e sullo statuto del tempo medesimo, con le recenti ipotesi
quadridimensionali che eliminano la durata e la tra-sformano in estensione.
Una terza domanda fondamentale credo riguardi l’elaborazione di una buona
teoria della causalità, da cui discende la possibilità
stessa di imputare la responsabilità e, quindi, i rapporti tra metafisica
ed etica. Dopo Hume, dopo le teorizzazioni recenti sui con-trofattuali, questo
problema è sempre vivo e primario: anche da bambino mi è capitato
di di-scutere con mio fratello riguardo a un pallone da lui calciato e da me
deviato, andato a finire contro un vetro. Certo il vetro non si sarebbe rotto
se io non avessi deviato la palla; ma nem-meno si sarebbe rotto se mio fratello
non l’avesse calciata. Quindi di chi era la colpa? Da que-sto consegue
la quarta domanda, relativa al determinismo: è sostenibile un
determinismo spi-noziano o simile, che annulli il libero arbitrio? L’ultima
domanda fondamentale è quella che definisce la sfera d’interesse
dell’ontologia, cioè stabilire che cosa esiste. Prima
ho parlato di porzioni di mondo, ma è evidente che bisogna essere più
precisi. Sicuramente esistono i tavo-li, le città, le persone. Ma che
dire del profumo di questo ciclamino, del colore di questa
mela, del suono di questo flauto? Li includeremmo nell’inventario
di ciò che esiste? Ci metteremmo l’incantevole melodia che stiamo
ascoltando in questo momento? Ci metteremmo l’Italia? La Juventus? La
Columbia University? E che dire dei baci, degli scandali, dei desideri, delle
bat-tute di spirito, delle pettinature? Che dire dei programmi software installati
sui nostri computer? Che genere di cose sono queste—esistono davvero o
sono solo dei modi di dire?
D: Ci si è spesso interrogati negli ultimi anni sul rapporto tra indeterminatezza
degli eventi, e questo di nuovo ci riporta alla connessione tra metafisica e
morale.
R: Oggi l’indeterminatezza è popolare. Mi è capitato più
volte di occuparmene, e la geografia offre molti spunti di riflessione in proposito.
E’ lecito chiedersi ad esempio dove inizi il mon-te Cervino, o dove siano
i confini di un mare. L’evento si mostra spesso indeterminato, come anche
l’identità personale genera sempre dei problemi di determinazione.
Il mondo stesso nel-la sua totalità si mostra indeterminato. Una domanda
che va posta è se questa indeterminatez-za sia ontologica, cioè
propria del mondo (de re) o se siano le nostre mappe a essere sfumate,
e quindi l’indeterminatezza sia un problema gnoseologico, e quindi solo
de dicto.
D: Jackson di recente ha scritto alcuni saggi sulla modalità di passare
dalle questioni metafisi-che a quelle etiche. Come si pone nei confronti di
questo rapporto?
R: Il passaggio è delicato. Se accettiamo una metafisica “deflazionista”
come quella che ho illustrato sopra, allora non vi è alcun passaggio
diretto tra i due ambiti di ricerca: in tal caso infatti i principi della morale
non fanno parte del mondo ma del nostro modo di rappresentar-celo.
D: Nella sua produzione occupa un posto rilevante la narrazione: l’affabulazione
filosofica ri-sulta quindi una modalità coinvolgente anche per i non
professionisti della materia, ammesso che tali ci si possa definire.
R: In Italia non vi è l’abitudine di narrare racconti filosofici,
mentre si è sviluppata questa atti-tudine nell’ambito della divulgazione
scientifica, specialmente per quanto riguarda la fisica. Il mio intento però
non è quello di divulgare ma proprio il narrare. Solo la narrazione è
infatti in grado di sopportare il paradosso, quindi è in grado di sfidare
il senso comune, cioè di andare oltre la doxa. Detta diversamente, in
filosofia non si tratta di semplificare le cose complesse bensì di mostrare
la sorprendente complessità che si nasconde tra le cose apparentemente
più semplici, e forse il modo migliore per farlo è proprio quello
di raccontare i piccoli incidenti filosofici nei quali possiamo imbatterci nella
vita di tutti i giorni.
D: Questo era ben chiaro nell’antichità e nella tradizione dialogica
che dal rinascimento è fio-rita, in particolare in alcuni filosofi e
teologi italiani.
R: Certamente, infatti ai grandi metafisici era chiaro che il tema va mostrato,
non descritto con pretese di completezza. Il mostrare è l’essenza
del narrare.
D: Da ultimo vorrei porre la questione dei prolegomeni e dell’accesso
alla filosofia.
R: per me l’essenza della filosofia risiede nelle domande che pone, prima
ancora che nelle ri-sposte. In ogni caso, mi sembra evidente che una risposta
non serve a nulla se non si com-prende la domanda a cui si riferisce. Ha presente
il film Guida Galattica per autostoppisti? Se l’oracolo ci dicesse
che la risposta alla Grundfrage è “Quarantasette”,
senza però dirci qual è la Grundfrage, ne sapremmo come
prima… Il problema appunto è quello di saper trovare la domanda
giusta da porre, e questo problema è lo stimolo che può attraversare
la storia non di una singola civiltà ma trasmigrare attraverso le ere
della storia umana.
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