D. Per cominciare, le chiedo un suo bilancio della prima edizione del Festival
di Filosofia di Roma, in qualità di organizzatore, ma si tratta anche
di una domanda che rivolgo al filosofo capace di leggere “trasversalmente”
e “obliquamente” il fenomeno.
R. Premetto che il Festival è stato qualcosa d’imprevisto. Sono
stato “trascinato” in quest’avventura: un’avventura
e una fatica, in quanto questo prima Festival romano di Filosofia è stato
organizzato in tre mesi soltanto, avendo il sindaco Veltroni sciolto la riserva
appena dopo capodanno, quando ha avuto la garanzia degli sponsor. Abbiamo insomma
organizzato in tre mesi quello che abitualmente si organizza in un anno. Sono
stato contattato da un gruppo di giovani, in larga parte amici, che hanno fondato
un’associazione, “Multiversum”, chiedendomi di presiederla
ai fini dell’organizzazione di eventi per Roma legati alla filosofia.
Dopo varie titubanze, ho deciso di accettare. In seguito, l’Assessorato
alle Politiche culturali del Comune, a “Multiversum”, ha affiancato
nell’organizzazione “Micromega”, nella persona del suo Direttore
Paolo Flores D’Arcais. Abbiamo lavorato nella consapevolezza di avere
alle spalle il precedente importante del Festival di Filosofia di Modena e non
abbiamo mai fatto mistero che Modena fosse per noi un punto di riferimento.
I due Festival sono idealmente gemellati: io stesso sono stato a Modena fin
dalla sua prima edizione e il supervisore del Festival di Filosofia di Modena,
Remo Bodei, è stato uno dei nostri ospiti e uno dei nostri interlocutori
privilegiati. Come Modena, anche quello di Roma è un Festival a tema
e abbiamo scelto la parola chiave “Instabilità” per caratterizzare
questa prima edizione. “Instabilità” è in grado di
fornire una chiave di lettura del nostro presente densa da un punto di vista
concettuale, ma anche carica di straordinarie implicazioni dal punto di vista
del rapporto tra la filosofia e gli altri linguaggi. La scommessa è stata
rischiosa, ma a mio parere è stata vinta anche al di là delle
nostre aspettative. Non bisogna dimenticare che Roma è una città
grande e dispersiva, l’Auditorium è una sede straordinaria, ma
ancora poco sperimentata per iniziative di questo genere; era stato la sede
del Festival della Scienza, che ha avuto un discreto successo di pubblico, ma
di gran lunga inferiore al nostro. Inoltre, noi abbiamo puntato su un impiego
full-time dell’Auditorium, dalla mattina alla sera, con iniziative in
contemporanea, con una partecipazione sempre al limite se non oltre la capienza
degli spazi preposti: si è avuta un’eccellente risposta da parte
del pubblico e, soprattutto, la possibilità di trasformare questo splendido
spazio di Renzo Piano in una sorta di cittadella, di agorà,
funzionale alla comunicazione di temi, questioni, problemi che investono la
nostra attualità.
D. Vorrei riprendere e approfondire due degli aspetti evidenziati. Il confronto
amichevole con Modena: quali analogie e differenze hanno i due Festival sia
nell’organizzazione che negli obiettivi? E, per venire al secondo aspetto,
che lettura Lei fornisce di questo grande successo di pubblico, di una partecipazione
che si potrebbe definire “popolare” e come si misura la filosofia
con tale “popolarità”?
R. Come già accennavo in precedenza, l’analogia più evidente
con Modena è l’opzione tematica. Un’altra analogia consiste
nella riproposizione dei nomi dei filosofi già intervenuti spesso a Modena;
ma non può che essere così, dal momento che un Festival della
Filosofia deve puntare a fornire la fotografia delle diverse posizioni e dei
diversi modi di rispondere a determinati problemi nell’ambito della filosofia
italiana e non possiamo di certo inventarci interlocutori nuovi. Dunque, i nomi
su cui si sono strutturate le giornate del Festival sono quelli ben noti della
filosofia italiana e, in parte, internazionale. Abbiamo tuttavia cercato e cercheremo
ancor di più nei prossimi anni di promuovere giovani filosofi, che metteremo
già in circolo sulla scena filosofica, facendo loro moderare dei dibattiti.
Veniamo alla differenza tra Roma e Modena. Il Festival di Modena coinvolge le
piazze e i luoghi principali delle città di Modena, Sassuolo e Carpi
e, quindi, trattandosi di realtà cittadine relativamente piccole, vi
partecipa l’intera cittadinanza, senza esclusioni. Per la piazza principale
di Modena può passarci chiunque e chiunque può fermarsi ad ascoltare
la conferenza e il dibattito dei filosofi di turno. La filosofia in piazza è
improponibile a Roma; si potrebbe ipotizzarlo per il futuro, ma per quest’edizione
del Festival era impossibile. E comunque qualsiasi sia la piazza romana prescelta
non si potrebbe mai coinvolgere l’intera cittadinanza. Abbiamo pertanto
optato per una sede anche notevolmente capiente, ma dove bisognava recarsi appositamente
per assistere al dibattito filosofico. Nonostante ciò, la risposta di
pubblico è stata di gran lunga superiore alle previsioni. Edoardo Boncinelli
diceva di essere molto elettrizzato da questa larga partecipazione, ma, nel
suo toscano un po’ sardonico, aggiungeva anche: “ma non capisco
perché ci vengono!”. Boncinelli ha ragione nel sostenere che è
inutile cercare un principio di ragion sufficiente, una causa di quanto è
avvenuto. Probabilmente le motivazioni che spingono molti a partecipare sono
tra loro diverse e, tuttavia, ritengo che, per voler trovare una spiegazione,
una tale partecipazione può esser fatta risalire all’accresciuta
rilevanza che la filosofia è venuta assumendo nella nostra società
e, più in generale, molti si rivolgono alla filosofia perché non
hanno risposte da parte di altre istanze: vi è una sorta di desertificazione
della sfera pubblica, dovuta al ritrarsi della politica, e, di conseguenza,
la filosofia diventa la destinataria di una serie di appelli, d’interrogazioni.
Torna pertanto la questione della funzione pubblica della filosofia, da non
intendere però nel senso delle filosofie politiche normative, cioè
come ricettario che deve essere approntato da qualche consigliere del principe
di turno, per scoprire magari che lo stesso principe politico è nudo.
Credo invece che questa funzione pubblica si manifesti nella capacità
di affrontare coralmente, in un ampio confronto tra esperienze diverse, alcuni
nodi del nostro presente. Mi sembra rivesta grande importanza una filosofia
in grado di promuovere e delineare una sfera pubblica di tipo nuovo.
D. Diceva di una filosofia che prova a uscire da dinamiche di autoreferenzialità
e, aprendosi non solo metaforicamente allo spazio della polis, prova a promuovere
una sfera pubblica, che sconta il venir meno di una funzione aggregatrice svolta
in passato dalla politica.
In questa operazione, quali sono i limiti oltre i quali la filosofia non può
andare per non perdere il proprio statuto e la propria fisionomia? E, rovesciando
la prospettiva, non è possibile vedere in operazioni di questo tipo anche
l’espressione dell’indebolimento del luogo tradizionalmente deputato
alla trasmissione e alla produzione di sapere filosofico, cioè l’università
pubblica?
R. Innanzitutto vorrei sottolineare un punto: non è vero che lo spazio
originario della filosofia sia quello dell’accademia. Se volgiamo lo sguardo
al contesto in cui è nata la filosofia ci rendiamo conto che il suo spazio
originario era quello della polis: la filosofia non nasce nell’accademia,
nasce nello spazio della città, si chiude nell’accademia perché
subisce un’emarginazione e una sconfitta, dopo il processo e la condanna
a morte di Socrate. Come afferma molto chiaramente Hannah Arendt, anche se innegabilmente
si organizza nell’accademia, la vocazione della filosofia non è
quella dell’accademia.
Ciò detto, è importante comprendere come l’intento degli
organizzatori non fosse quello di proiettare all’esterno, con il festival,
lo spettro di posizioni presenti nelle università pubbliche, che avrebbe
significato poi concretamente dar vita ad una sorta di istituzionalizzazione
del rapporto tra le università romane e il festival. Il festival doveva
conservare una sua propria autonomia: se si fosse proceduto nel senso di una
lottizzazione tra le varie tendenze presenti nelle università romane,
lo dico in maniera anche drastica, probabilmente non sarebbe andato così
bene, prima di tutto in termini di successo di pubblico.
Nel festival di filosofia tenutosi a Roma si sono confrontate tendenze filosofiche
diversissime: da posizioni filosofiche ispirate a Nietzsche, ad Heidegger, all’ermeneutica,
a posizioni analitiche ed epistemologiche, da posizioni interessate a sviluppare
un’ontologia curvata in senso analitico, passando per posizioni prettamente
scientifiche, fino ad arrivare a tendenze estetizzanti e teologizzanti. In questo
senso si potrebbe dire che abbiamo avuto la capacità di portare a rappresentazione
l’intera gamma delle espressioni filosofiche contemporanee. È importante,
tuttavia, evidenziare che non abbiamo voluto seguire alcun criterio di rappresentanza
di qualche scolastica. I filosofi che hanno preso parte al festival si sono
confrontati piuttosto in rapporto al tema e in rapporto al tema hanno prodotto
discorsi nuovi, esibito nuove implicazioni: per molti versi, anzi, delle implicazioni
sorprendenti.
Sebbene i due organizzatori, Paolo Flores e io, proveniamo da due università
romane, da “La Sapienza” e da “Roma Tre”, e sebbene
ci fossero professori di tutte e tre le università romane, abbiamo puntato
ad offrire una panoramica delle posizioni filosofiche contemporanee, scegliendo
gli interlocutori indipendentemente dal loro ruolo accademico e dalla loro appartenenza
di scuola. Fra l’altro va sottolineato in questo contesto, che il festival
ha anche avuto una folta rappresentanza straniera: un altro elemento ancora
di forte discontinuità rispetto alle edizioni di Modena.
Per concludere, ritengo che il problema vero sia comprendere come la filosofia
abbia molto da guadagnare da scambi con lo spazio pubblico come quelli dei festival
di filosofia: occasioni come queste offrono la possibilità alla filosofia
di definire meglio tutta una serie di problemi ad essa interni. Certo, i festival
non sono convegni scientifici; ciò non vuol dire tuttavia che essi non
siano capaci di far tesoro dei risultati cui è pervenuta la riflessione
filosofica e la ricerca scientifica, aprendo al contempo il sapere specialistico
al positivo influsso di stimoli esterni. La filosofia deve avere solo il coraggio
di mettere in campo i risultati della propria riflessione, di metterli sul tappeto
per far vedere quali sono le loro ricadute concrete per la società e
la sfera pubblica democratica.
D. Lei ha sempre fatto propria un’idea di filosofia come filosofia
del tempo, del proprio tempo: nel duplice significato di filosofia in grado
di portare a consapevolezza le istanze che agitano al fondo il presente e, grazie
alla distanza dalla mera attualità, in grado nello stesso tempo di operare
nei confronti del presente fratture di criticità.
Questa impostazione sembra riconoscersi nell’impostazione complessiva
che ha orientato il festival e soprattutto nel tema-filo conduttore scelto:
instabilità. Tema che sembra fotografare fedelmente quanto si sperimenta
attualmente. Eppure, ha permesso questo tema e il modo in cui è stato
affrontato di sviluppare a pieno il secondo versante, quello della criticità
nei confronti dell’attualità? Non si è dato troppo poco
spazio, per esempio, in relazione alla centralità e all’urgenza
che attualmente hanno, a questioni strettamente economiche o a un tema come
quello della giustizia globale?
R. La giustizia globale è un’espressione che rischia di prestarsi
ad usi di moda e a un utilizzo assai vago da un punto di vista filosofico. Bisognerebbe
prima capire cosa si intende quando ci si appella ad un tema come quello della
giustizia globale. Giustizia globale secondo chi? Secondo Rawls o secondo Benjamin,
per esempio? Che cosa intendiamo noi con una espressione di questo genere, che
può essere tranquillamente fatta propria anche da Bush?
In ogni caso, sebbene all’interno del festival abbiamo avuto uno spettro
di posizioni estremamente vario, credo si possa riconoscere che siano stati
affrontati alcuni temi del presente in maniera molto radicale: basti pensare
alla tavola rotonda sulla politica che ha messo insieme filosofi come Severino
con giornalisti del calibro di Scalfari, o alla tavola rotonda tenutasi nella
giornata conclusiva sulla globalizzazione, che ha visto tra gli altri protagonisti
il filosofo Homi Bhabha, che propone una lettura della globalizzazione e della
ridislocazione dei poteri in corso estremamente radicale e innovativa, soprattutto
se paragonata a molti dibattiti che vengono sviluppati attualmente in Italia
e in Europa.
In linea generale, sono dell’opinione che la criticità non si manifesti
nella capacità di elaborare equivalenti filosofici di qualche riformismo,
né di promuovere ricette programmatiche per l’avvenire: la criticità
si manifesta piuttosto nella capacità di proporre tematiche veramente
nuove, riuscendo ad accostarsi al proprio presente facendo emergere di quest’ultimo
i lati dinamici che sono veramente aperti alla trasformazione. Non è
compito di un festival della filosofia, né più in generale della
filosofia tout court, offrire piani di governo del mondo, se non altro
perché un quadro di governo del mondo, se fosse già disponibile
teoricamente, con ogni probabilità sarebbe molto sommario e scarsamente
critico: le filosofie che hanno indicato meglio le soluzioni ai mali del mondo
sono state le filosofie che ci hanno aiutato a guardare in faccia, senza veli,
a quanto accade. È molto più efficace, quindi, andare a sviscerare
una serie di nodi nel nostro presente dai quali possiamo effettivamente ricavare
una critica.
In questo senso l’instabilità, come tema centrale della filosofia
e dell’epistemologia contemporanea, era una questione che si prestava
perfettamente all’apertura di un tale rapporto critico con la contemporaneità.
A partire dal presupposto che noi viviamo in strutture fisiologicamente instabili
e che ci dobbiamo muovere necessariamente all’interno di queste dimensioni,
il problema critico che il festival implicitamente poneva era quello di risalire
alle radici dell’instabilità del presente, provando a chiedere
se la soluzione che noi possiamo tentare di elaborare ai problemi del nostro
tempo debba necessariamente tagliare alla radice i fattori di instabilità
o utilizzarli viceversa come dei fattori essenziali per il cambiamento: l’instabilità
probabilmente è qualcosa che va assolutamente mantenuta e con cui dobbiamo
imparare – ci piaccia o no – a fare i conti.
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