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Grammatiche della tecnica. Per una filosofia delle tecnoscienze Intervista a Bernard Stiegler
di Dario Cecchi

 

1) Siamo con Bernard Stiegler, filosofo francese, che si occupa da molti anni della questione della tecnica. Tra le sue opere maggiori, La technique et le temps [La tecnica e il tempo], opera che si articola in più volumi; credo, anzi, che i suoi libri ora escano recando un nuovo titolo per la "serie": De la misère symboliques [Della miseria simbolica]...

In realtà scrivo diverse "serie": continuo a lavorare su La technique et le temps, ma scrivo pure De la misère symbolique; e un'altra serie è Mécréance et discrédit [Miscredenza e discredito]. Scrivo "serie", in effetti.

2) Nel primo volume de La technique et le temps, La faute d'Epiméthée [La colpa di Epimeteo], lei richiama la differenza tra techne ed episteme, che risale alla filosofia greca, a Platone. Vorrei chiederle se questa differenza, la differenza tra techne ed episteme, abbia una qualche relazione con le moderne "tecnoscienze", se, cioè, le tecnoscienze sono un passaggio in un cui la differenza tra "tecnica" e "scienza" viene meno.

Prima di tutto bisogna dire che, effettivamente, una tale differenziazione tra techne ed episteme si è prodotta nella filosofia greca, quella platonica in particolare. Credo che Heidegger lo abbia detto molto chiaramente: in origine non c'è una differenza tra techne ed episteme. Il sapere è sapere in generale. Questa differenza, per l'appunto, apparirà in particolare con la filosofica di Platone, ma anche, a mio avviso, nel momento in cui la scrittura porta a compimento tutti i suoi effetti. La scrittura -che è una tecnica, una "mnemotecnica"- permette allo stesso tempo di strutturare un pensiero che possiamo definire "apodittico", dunque puramente teorico. Questo tipo di pensiero può operare un controllo del ragionamento, per sottometterlo al principio di non contraddizione. È una tecnica che può sviluppare anche la possibilità di fare paragoni, possibilità che comporta una cumulatività del sapere, la quale porta ad un pensiero dimostrativo, ispirato essenzialmente dalla geometria. E questo tipo di pensiero deve presupporre il sapere come sapere pratico, empirico, un sapere che sarà in sostanza definito come sapere tecnico, il saper-fare [savoir-faire].
Questa opposizione si costituisce nella misura in cui la scrittura si fa più sofisticata e permette l'apparire della geometria, di un ragionamento apodittico. E finalmente emerge la questione di quello che verrà poi chiamato il "trascendentale", quello che Kant definirà "sintetico a priori". Questo movimento porta già Platone a fondare un mondo delle idee, che deve stare su un altro piano rispetto al mondo empirico: mondo delle idee che poggia su quelle che chiamiamo le "idealità", in opposizione all'empiricità. Contemporaneamente i sofisti vanno sviluppando un sistema della scrittura come logica di controllo, che è già una tecnica di manipolazione dell'opinione -ne parlo a proposito della svolta meccanica della sensibilità, ne parlavo ieri a proposito della manipolazione nel cinema [S. si riferisce all'incontro su filosofia e cinema tenutosi all'Auditorium di Roma il 12 maggio 2006. NdC]-. È l'obiezione che Platone rivolgerà proprio ai sofisti, affermando che questi usano una tecnica per manipolare la coscienza ed il tempo della coscienza. Quando Socrate incontra Fedro, nell'omonimo dialogo, mentre quest'ultimo si appresta ad andare a ascoltare un sofista che terrà un discorso, portando a sua volta sotto braccio un discorso "registrato", Socrate gli contesta che non si tratta di autentica parola, ma di "registrazione", di manipolazione. Dunque la scrittura raddoppia, per così dire, rendendo possibile il ragionamento apodittico, ma anche la manipolazione sofistica: una pragmatica del linguaggio che si chiamerà "retorica".
Platone pone il problema fondamentale di Atene: la città si trova in una crisi molto grave. Quando leggiamo questo dialogo, pensiamo: è magnifico, il mito delle cicale ed il resto. Ma non è affatto così: è un periodo estremamente duro, di guerra, di guerra civile, una situazione minacciosa e complessa. Tale complessità passa attraverso la sofistica, attraverso una crisi del ruolo della scrittura nella città greca. Scrittura che -non ho sviluppato questo problema- è d'altra parte la base della legge, dunque della cittadinanza, della "politicità": è la condizione di possibilità dello spazio politico. Perciò, ora, per venire alla domanda -l'opposizione tra techne ed episteme, tra saper-fare pratico e sapere teorico-, a partire dalla fine del XVIII secolo (già prima, ma soprattutto nel XVIII secolo), c'è una rivalutazione della tecnica da parte degli Enciclopedisti -e parimenti da parte di Hume in Inghilterra-. Hume, ad esempio, sviluppa una filosofia della manifattura, una filosofia dell'economia, della produzione; tutta questa tradizione "pragmatista" inglese gioca un ruolo molto importante ed influenzerà grandemente i francesi.
È un fenomeno del tutto nuovo nuovo. Si sviluppa a partire dall'invenzione della stampa, che ha permesso una maggiore circolazione del sapere, la sua diffusione, la "repubblica delle lettere", ed un conseguente desiderio di emancipazione; come pure a partire dallo sviluppo della pratica delle mnemotecniche in relazione alla nascita della borghesia. Si tratta di un insieme storico, in cui non è possibile scegliere semplicemente uno, due o tre fattori: è un fenomeno estremamente complesso, che Max Weber -un autore che ricorre spesso nelle mie riflessioni in questo periodo- ha analizzato in profondità, mostrando che il capitalismo non significa semplicemente l'apparizione delle macchine, è anche, ad esempio, l'apparizione delle tecniche di contabilità a partire dal XVII, XVIII secolo -il XVIII in specie-, che la gestione dell'attività economica diviene inevitabilmente una gestione razionale, comincia a divenire razionale perché si sviluppa la contabilità. Ed è molto importante: è l'apparizione di quel che chiamiamo "borghesia". Il che comporta una accesa inventività tecnica, una grande fecondità scientifica, un insieme di fattori che farà, in particolare, apparire una figura come quella di James Watt, il quale riprende delle problematiche poste dalla filosofia moderna, come le aveva già impostate Cartesio: il progetto di una mathesis universalis, di una descrizione, di una matematizzazione completa della natura. Questo progetto si concretizzerà nel XVIII secolo con personaggi come James Watt.
James Watt è la prima figura di ingegnere moderno. La figura dell'ingegnere -la primissima figura d'ingegnere si era avuta in Italia, con Leonardo da Vinci, in un certo senso: comunemente Leonardo  è considerato il primo grande ingegnere; ma fu un tipo d'ingegnere che appartiene ancora ad un mondo nel quale da un lato c'è la produzione, dall'altro la contemplazione e queste due modalità sono completamente separate. C'è il mondo della "borghesia", di quelli che sono motivati dalla produzione dei beni di sussistenza, e quello di chi si interessa alle idealità, i "contemplativi": gli artisti, i religiosi, i filosofi, i matematici. Sono due mondi completamente separati, perché c'è ancora l'opposizione, che si è costituita in Grecia, tra il mondo della pratica ed il mondo della teoria. Allora, naturalmente, Leonardo da Vinci rappresenta la pratica -è un artista-, ma si tratta di una pratica essenzialmente rivolta "verso i cieli".
A partire dalla fine del XVIII secolo, questa opposizione viene meno. E James Watt è ingegnere in senso moderno: qualcuno che è insieme un teorico e un pratico, qualcuno che padroneggia [maîtrise] i processi d'invenzione e allo stesso tempo padroneggia [maîtrise] dei formalismi, dei concetti matematici, qualcuno che può sviluppare delle equazioni. Watt incontrerà un personaggio molto importante, non molto conosciuto: Boulton, un imprenditore inglese. Boulton è colui che è all'origine, a Londra, del "macchinismo" industriale. Suggerisce a James Watt che, se l'invenzione della macchina a vapore è qualcosa di positivo (perché è un bene vendere macchine a vapore alle manifatture tessili o alle miniere), ancora meglio sarebbe inventare qualcosa di nuovo, nuovi strumenti di produzione. Creeranno, perciò, una società che si specializzerà nello sviluppo del macchinismo industriale. È così che nasce un processo d'innovazione permanente, perché in quel momento la manifattura si trasforma in impresa capitalista, cioè in un'impresa che è costretta a innovare continuamente perché la scienza si è, di colpo, avvicinata alla tecnica e questa combinazione di scienza e tecnica porterà a quel che chiamiamo oggi la tecnologia e questa tecnologia inventa di continuo nuovi modi di produzione, sempre più rapidamente, e il mondo cambia di conseguenza, portando al cosiddetto mondo del macchinismo industriale. A partire da lì, l'economia diventerà il campo di battaglia dell'innovazione e la scienza sarà messa al servizio della tecno-scienza, cioè di una trasformazione del mondo.
Fino al XVIII secolo, la scienza aveva per finalità di descrivere quel che è; e quel che è, è secondo la volontà del Dio creatore. La scienza era cristiana; cristiana o platonica. La scienza era "antologica": descriveva quel che è; i fisici indicavano cosa fossero la fisica o il vivente. A partire dal XIX secolo, la scienza non descrive più quel che è, la scienza trasforma quel che è: il che vuol dire che non è una scienza dell'essere, ma del divenire. Diventa un'attività industriale, un'attività economica, una funzione dell'impiego e dell'investimento capitalistici e della trasformazione del mondo. La scienza, dunque, cambia completamente di funzione. E credo che ciò, nella nostra epoca, costituisca un problema. All'inizio apparve, con il macchinismo, il progresso. E questo progresso, che è un progresso tecnico ma anche sociale, politico, un progresso nel settore della sanità -il XIX secolo è il secolo del progresso-, porta evidentemente i socialisti a dire che la tecnica è portatrice di progresso, ma a condizione di sbarazzarsi dei capitalisti. Ma mai i socialisti hanno contestato che la tecnica sia portatrice di progresso; già i rivoluzionari del 1789 in Francia o i filosofi dei Lumi affermarono che la tecnica portava l'emancipazione sociale. I socialisti francesi, tedeschi, Marx hanno criticato un certo uso della tecnica: la tecnica è male impiegata dai capitalisti, ma è portatrice di progresso. Il capitalismo dirà al contrario che la visione socialista è regressiva, il progresso sta dalla parte del liberalismo, della libera impresa ed il benessere è legato allo sviluppo del capitalismo. Ford, per esempio, dirà che l'impresa capitalista produce il benessere degli operai, perché significa l'innalzamento del livello di vita. Per quasi due secoli, questo discorso sul progresso è stato dominante (ci sono ovviamente delle sfumature in questo processo).
Baudelaire, per esempio, è un "moderno anti-moderno": produce una poesia moderna che denuncia la modernità, in un certo modo, e che vede già nel progresso qualcosa di regressivo. Anche il dadaismo tenta di mettere in discussione questa fiducia nel progresso. Si tratta di qualcosa di molto complicato, ma fondamentalmente possiamo dire che i secoli XIX e XX sono secoli nei quali la tecno-scienza è stata vissuta socialmente come età del progresso. Ora, nel XXI secolo, viviamo un periodo in cui la scienza e la tecno-scienza sono vissute non come progressio, progresso, ma come regressione. E credo che tutto questo dispositivo della tecno-scienza ha sviluppato anche quello di cui parlavo ora al convegno [Il Convegno su Forma e immagine tenutosi il 13 maggio presso la Facoltà di Filosofia dell'Università "La Sapienza" di Roma. NdC]: un'economia "libidinale". Il progresso ha prodotto la sovrapproduzione e, per assorbire questa sovrapproduzione, bisognava controllare la libido degli individui, per consumare le eccedenze di produzione. Questo sfruttamento tecnologico dell'economia libidinale ha finito per distruggere la stessa economia libidinale e questo fenomeno è vissuto come regressione. Ho parlato [al convegno] della "telecrazia" berlusconiana, ma è un fenomeno che si trova ovunque: c'è una telecrazia di Bush; c'è una telecrazia francese, che è stata messa in opera da Mitterrand, che ha fatto venire Berlusconi in Francia per creare una catena di televisioni. E ora è vissuto come crollo della sublimazione: il crollo, detto altrimenti, della scienza, perché la scienza è prodotta dalla sublimazione; il crollo di ogni ambizione intellettuale, spirituale. Quel che Paul Valéry chiamava già nel '39 l'abbassamento del valore "spirito", sarebbe a dire qualcosa come il crollo del progetto di civiltà dell'Occidente stesso. Dunque noi viviamo questa situazione.

3) Come abbiamo avuto modo di ascoltare, il suo pensiero sulla tecnica ha anche un versante politico. Lei parla, naturalmente, di economia o di capitalismo "libidinali", per descrivere questo passaggio del sensibile nel meccanico.. Perciò vorrei chiederle se, quando parla di "dispositivi", sente vicina alla sua riflessione quella di Foucault e in generale il pensiero della "biopolitica".

Sì, certo. Sono molto sensibile a Foucault, specialmente al suo ultimo periodo. Sono molto più sensibile a Foucault oggi che dieci o venti anni fa. Sono attento a Foucault e all'interpretazione di Foucault che da' Deleuze. Voglio dire che lavoro molto, negli ultimi anni, sui concetti di "società disciplinare" e di "società di controllo". Per me, Foucault è stato il primo filosofo, a parte Simondon, ad aver veramente tentato di pensare la "tecnicità" del sociale. Parla del sociale come di una tecnologia: impiega il termine "tecnologia sociale". Descrive quelle che chiama "società disciplinari" a partire dalla questione, per esempio, del fucile: afferma, prima di tutto, che farà una descrizione di come un apparecchio [appareil] disciplinare appaia, prendendo ispirazione da Marx e da tutto quello che Marx ha scritto analizzando il ruolo della macchina nella tecnica di fabbrica: l'apparizione del proletariato ecc. Afferma, più in generale, che descriverà la società attraverso l'ospedale, la caserma, la scuola e l'esercito. Ed è notevole che conduca questa analisi attraverso la questione del fucile.
A partire dal momento in cui è apparso il fucile in guerra, nelle condizioni della guerra, c'è stato bisogno di formare i soldati all'uso del fucile, perché il fucile è molto pericoloso: si possono uccidere i propri compagni con un fucile; bisogna sapersene servire. Bisogna dunque instaurare una disciplina, a partire dal fucile, molto più rigida che con l'arco, la balestra o con la spada. E dunque si è dovuto professionalizzare l'esercito e fare dell'esercito un sistema di disciplina molto più rigoroso. Per Foucault, dunque, è il fucile che ha "inventato" la società disciplinare in questo modo. E aggiunge qualcosa. Mi riferisco ad un testo che ho scoperto tardi: un piccolo testo scritto prima di morire, in cui sviluppa l'idea che quel che chiama la "scrittura di sé", la "cura di sé" -le sue ultime opere sono consacrate a questo, attraverso l'analisi dello stoicismo, dell'epicureismo ecc.- è legata ad una "tecnicità" di sé. Dice che per sviluppare una pratica di sé, una cura di sé, bisogna avere una "tecnica di sé". E questa tecnica è quel che chiama hypomnematon, cioè la capacità di controllare l'attività del proprio flusso di coscienza attraverso la scrittura, sia attraverso gli scambi epistolari (pensiamo all'analisi delle lettere tra Seneca e Lucilio), sia tenendo un diario, sia attraverso delle letture sistematiche. È molto interessante: è un piccolo testo, poco conosciuto, che s'intitola La scrittura di sé. Da qui, Foucault s'impegna in un'analisi di quello che definisce "individuazione psichica", sarebbe a dire il "vivente psichico", tenendo però insieme a questa l'individuazione collettiva: i processi demografici, di lavoro o di riproduzione. Tutto ciò porta alla sua definizione di "biopolitica". Sviluppa tutta una teoria tecnologica del sociale in cui, grosso modo, il sociale è pensato come la vita tecnologicamente amministrata, tecnologicamente controllata.
È straordinariamente importante. Devo dire che per lungo tempo ho trascurato questa dimensione del pensiero di Foucault ed ora comincio a esserne profondamente interessato. Ma me ne sono interessato passando per Deleuze e per il discorso di Deleuze sulle società di controllo. Tuttavia non sono completamente d'accordo con Deleuze e con la sua interpretazione di Foucault, perché credo che Deleuze diminuisca lo spazio della tecnica nella riflessione di Foucault: c'è un problematico testo di Deleuze dedicato a Foucault, che s'intitola De l'archive au diagramme, in cui contraddice quel che Foucault dice sul fucile. Se si legge Foucault -dice Deleuze- si ha l'impressione che il fucile sia all'origine dell'intero processo descritto, ma non è affatto così. Questo accade perché Deleuze è bergsoniano: per lui la tecnica è spazializzazione della durata, geometrizzazione dello slancio vitale. Deleuze resta fondamentalmente bergsoniano, trascendentalista. Personalmente trovo che il limite di Bergson sia che non comprende quel che chiamo la "ritenzione terziaria", cioè la tecnica. E ciò nonostante ci siano dei grandi testi di Bergson sulla tecnica; fondamentali. Ma c'è qualcosa che resta metafisico in Bergson, e anche in Deleuze. Quest'ultimo ha sviluppato, malgrado i suoi problemi, assai tardi nella sua opera una riflessione sulle società di controllo.
Accade intorno al 1980: molto tardi perciò. È un periodo in cui ritiene che Guattari e lui siano marxisti e si mette a riaffermare l'importanza di Marx. Porta avanti, improvvisamente, un discorso estremamente politico: non di resistenza o di denuncia dell'alienazione, perché ha sempre contestato il discorso dell'alienazione; bensì un discorso sul capitalismo come controllo, come dispositivo di controllo del vivente e della psiche. Ed è molto interessante, perché è un Deleuze non molto conosciuto, l'ultimo Deleuze, che chiama a una lotta, ad un combattimento politico. Contro un divenire del capitalismo, il quale porta a pensare che ora sia il momento di lottare, che è il capitalismo delle società di controllo. Credo che Deleuze (nel giro di qualche anno morirà) non abbia molto sviluppato questa teoria; ma credo che sia il Deleuze sensibile a quella che Gilbert Simondon chiama la "perdita d'individuazione". E che io interpreto come il porre in opera un processo di distruzione -la chiamo distruzione del desiderio- da parte delle tecnologie di controllo. Per me il desiderio è la base della tecnicizzazione del vivente attraverso la quale si trasforma propriamente in desiderio, in quanto è ciò attraverso cui si costituisce la singolarità del processo d'individuazione psichica e collettiva. Il vivente umano è il vivente che si afferma come singolarità: se parlassimo un linguaggio leggermente scientifico, diremmo che un nuovo processo di entropia produce altra entropia, cioè un numero enorme di diversificazioni. E quel che permette questa negantropia è la tecnica, nella misura in cui permette l'arte o la cura di sé. Ma è anche ciò che permette il controllo, cioè il calcolo, la distruzione della singolarità. Penso che l'ultimo Deleuze sia estremamente attento tale questione, in particolare rispetto alla televisione. Ho tenuto una conferenza all'Ecole Normale, a Parigi, sul dialogo tra Gilles Deleuze e Serge Daney su televisione, cinema ed il passaggio dal cinema alla televisione -e quel che il cinema può fare della televisione-, in cui Deleuze afferma che la principale tecnologia di controllo è proprio la televisione. Questo è interessante in Deleuze: per lui bisogna tentare d'inventare un'arte del controllo, sarebbe a dire che bisogna tentare d'inventare una pratica delle tecnologie di controllo che produca di nuovo singolarità. È il lavoro in cui mi sto impegnando in questo momento, quel che tento di fare al Centre Georges Pompidou.

4) Lei parla di tecnologia del vivente e questo fa pensare ad una posizione non nuova al pensiero estetico occidentale, cioè che l'arte – ma potremmo dire anche la tecnica: per i greci arte e tecnica si dicevano con lo stesso termine, techne – dev'essere natura e, allo stesso tempo, la natura dev'essere una specie di arte. Penso, ad esempio, alla Critica della facoltà di giudizio di Kant, in cui la prima parte è dedicata al bello e all'arte e la seconda agli essere organizzati, alla vita. Lei ha parlato qui, a Roma, durante il Festival di Filosofia e durante un convegno sull'immagine: vorrei chiederle se l'immagine e l'arte in generale giochino un qualche ruolo e se possano essere portatrici di  una qualche speranza.

Allora, non solo questa speranza c'è, ma non abbiamo scelta: è la sola via d'uscita, la sola possibilità; non possiamo fare altrimenti ad ogni modo. Non ragiono in termini di ottimismo o pessimismo, perché, come Nietzsche, penso che il problema non sia di essere ottimisti ma di essere "gioiosi", che è molto differente. L'ottimismo è cristiano. La gioia è più complessa, pur essendoci una gioia cristiana, perché ovviamente il cristianesimo è un discorso sulla gioia. Ma ritengo anche che non abbiamo altra soluzione che investire sulla tecnologia almeno la nostra vita noetica. Per me, il noetico ed il tecnologico sono la stessa cosa, ma, come ho detto durante il mio intervento [al convegno], il noetico può sempre regredire. Noi siamo degli esseri desideranti e, nella misura in cui lo siamo, siamo degli esseri che devono elevarsi.
Kant porta avanti un discorso magnifico sulla questione dell'elevazione, la chiama "insocievole socievolezza"; ed è quello che io chiamo "selvatichezza [sauvagerie] dello spirito". Si deve essere insocievoli -io sono stato un detenuto, un "asociale", ma credo che ci sia qualcosa di fondamentalmente indomabile nello spirito-; tuttavia si deve essere quantomeno addomesticati e sublimati per produrre della spiritualità. Questa selvatichezza [sauvagerie] può cadere nella barbarie, può cadere nella pulsione: quando Kant sviluppa questa riflessione sull'insocievole socievolezza, parla dell'elevazione nell'emulazione, evoca la foresta dove gli alberi salgono verso la luce perché sono in concorrenza gli uni con gli altri. Crede all'elevazione; ed anch'io. Ma, dopo Kant, abbiamo scoperto la pulsione, l'istinto di morte, la pulsione di distruzione; è nata la psicanalisi ed è emersa la questione di quel che chiamiamo "inconscio", con la possibilità della regressione.
La tecnica può anche mettersi al servizio dell'elevazione: lo vediamo in chiese come San Pietro, a Roma (e non è la chiesa che preferisco), o in fenomeni storici come l'Impero romano e c'è elevazione anche nello stile di una città come Chicago. Sono espressioni della magnificenza dello spirito umano. Ma la tecnica può servire altrettanto Auschwitz, il fascismo, Berlusconi, può essere al servizio di tutto questo, di Bush e forse domani di Sarkozy in Francia. Perciò la questione è come vivere in questo ambiente tecnico a favore dell'elevazione e contro la regressione: si tratta dell'alternativa aperta dalla tecnica. È evidente che qui l'arte, più in generale la vita dello spirito, si fa carico della responsabilità di tutto questo. Lei faceva riferimento a Kant. Kant è importante dal momento che pone la questione dell'organico, dell'organizzazione e dunque dell'organo: è quel che ho definito ora, nell'intervento, "organologia generale", che è già dischiusa dalla questione kantiana della terza Critica e del rapporto tra vita e tecnica, che Kant imposta, ad esempio, con la metafora dell'orologio.
Ma il problema è che Kant non vede, malgrado ciò, che la tecnica è irriducibile alla considerazione razionale: questo si vede molto bene in un testo di Kant che si chiama Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, in cui parla dell'artigliere che spara una cannonata in maniera empirica: quando giudichiamo, diciamo che ha appreso a sparare in questo modo, per tentativi, ma non ha in testa le equazioni della fisica necessarie alla balistica, che gli permetterebbero di calcolare il punto dove andrà a colpire con la cannonata. E Kant dice che la tecnica ha una dimensione empirica: l'artigliere non padroneggia [maîtrise] la balistica, ma potrebbe padroneggiarla [maîtriser]: la tecnica è completamente descrivibile a partire dalla scienza e analizzabile grazie alla razionalità, il che vuol dire che il discorso di Kant è un discorso sul padroneggiamento [maîtrise]; resta una metafisica del soggetto padrone [maître] e possessore della natura, che lo si voglia o no, anche se, come abbiamo detto con Pietro [Montani] durante la discussione [all'Auditorium], c'è una prima versione della Critica della ragion pura, un'esitazione con l'immaginazione trascendentale, e a partire da qui Deleuze ha affermato che il soggetto kantiano è già un soggetto tragico, un soggetto incrinato, non è già più un soggetto metafisico. È vero, ma nel 1787 c'è la seconda edizione della Critica, che elimina questa dimensione. Kant ha intravisto la questione, ma è indietreggiato.
Detto altrimenti, per rispondere alla domanda, effettivamente è per caso che una questione del sublime si presenta in questo contesto, perché, evidentemente, Kant ha intravisto la questione del tragico, dell'incalcolabile, dell'incommensurabile, ma è indietraggiato perché gli mancava una considerazione della tecnica che si emancipasse completamente dalla sua determinazione platonica e metafisica. Dunque ritengo che il momento kantiano sia capitale per le ragioni da lei ricordate, ma, allo stesso tempo, dev'essere assolutamente criticato, perché non permette di ricercare un'organologia generale, non permette cioè di pensare, per dirla nei termini di Simondon, l'individuazione psichica e sociale a partire dall'individuazione tecnica: questo è impensabile in Kant.

5) Lei è stato invitato al Festival per parlare del rapporto tra pensiero e cinema, filosofia e cinema: vorremmo perciò sapere la sua impressione sul dibattito filosofico italiano.

Prima di tutto, ho scoperto, o meglio intravisto, la figura di Emilio Garroni, che non conoscevo affatto (credo che non sia tradotto in francese): ho scoperto così un pensiero che m'interessa enormemente; mi sono accorto che ha influenzato tutti gli oratori presenti alla serata. Durante l'incontro, ho tentato di sostenere che il cinema è impensabile a partire da quel che chiamo "anarchia-cinema" e che, perciò, il pensiero è una forma di cinema. Di conseguenza, ero molto interessato ieri alle varie proposte filosofiche, per quanto fossi a volte stupito dalla distinzione di Umberto Curi tra cinema "serio" e cinema di distrazione. Per me è una distinzione inesistente: per me, per esempio, la Critica della ragion pura è estremamente divertente e certi romanzi considerati divertenti mi annoiano profondamente. La noia pertanto non è nell'opera, la noia è nel rapporto con il fruitore. Di contro, ero estremamente interessato alla discussione che ha riaperto il problema della ricezione della Scuola di Francoforte. E poi a quello che diceva Pietro Montani a proposito di Kant: la sua interpretazione di Kunst, di cui sostiene che bisognerebbe tradurlo con "tecnica": è una possibilità in effetti -non ci avevo mai pensato-. Effettivamente potremmo dire che l'immaginazione è una "tecnica racchiusa nelle profondità dell'anima"; è molto interessante. È forse una traduzione un po' estrema, perché credo comunque che Kunst si traduca con "arte": c'è una parola per "tecnica" in tedesco, a differenza del greco in cui techne e "arte" hanno lo stesso termine. In tedesco ci sono due termini. Ma sono d'accordo con la sua interpretazione, soprattutto rispetto al portare avanti la questione della schematismo, interpretandolo a partire dalla terza Critica: lo trovavo estremamente interessante e dunque per me è stato un dibattitto che mi ha veramente aperto delle prospettive; purtroppo ero limitato dal fatto di non conoscere l'opera di Garroni, perciò la mia comprensione era parziale.

Dunque bisognerà tradurre l'opera di Garroni in francese! Grazie molte, Professor Stiegler.

Grazie a lei.

[Nota al testo. L'intervista si è svolta il 13 maggio 2006, nel giardino di Villa Mirafiori, sede della Facoltà di Filosofia dell'Università "La Sapienza" di Roma, dove si stava tenendo il convegno Forma e immagine, cui Bernard Stiegler ha partecipato. Il testo dell'intervista, nei limiti dell'argomento abbastanza colloquiale, non presenta particolari difficoltà. Si è tentato di riportare i testi citati da Stiegler all'edizione italiana, là dove questa esiste; altrimenti ho proposto una traduzione dei titoli citati tra parentesi quadre. Ho lasciato intradotti i termini greci (resi attraverso traslitterazione, senza appesantimenti come l'indicazione di vocale lunga) e tedeschi, per non falsare una discussione in cui questi risultano volutamente citati in lingua originale. Due parole hanno creato qualche problema nella traduzione: si tratta di savoir-faire e di tutte le parole che derivano dalla parola maître. Per savoir-faire ho deciso di tradurre semplicemente "saper-fare", in cui spero che il trattino dia l'idea che in francese questa espressione costituisce quasi un sostantivo: lasciarlo direttamente in francese avrebbe evocato eccessivamente il savoir-faire inteso come modo di fare elegante (qualcosa di simile alla "sprezzatura" di castiglioniana memoria). Più difficile è stato tradurre il verbo maîtriser o il sostantivo maîtrise. Maître in francese è il signore, il padrone, ma anche il maestro (di un'arte). Parallelamente, master ha ancora in parte, in un paese retto da monarchia come la Gran Bretagna, il valore di appellattivo di cortesia nei confronti di persona di rango. Ho deciso per una soluzione che mettesse in primo piano il significato di maestra tecnica, senza perdere del tutto quello di dominio: ho tradotto perciò rispettivamente maîtriser con "padroneggiare" e maîtrise con "padronanza" o "padroneggiamento". Ammetto di essermi arreso di fronte al termine sauvagerie: è stato reso con il desueto "selvatichezza"; d'altra parte mi sembrava l'unico modo di mantenere la differenza tra "selvatico" e "barbaro", differenza antica di cui Stiegler si serve. In ogni caso i termini francesi originali sono indicati tra parentesi quadre]


PUBBLICATO IL : 19-02-2007


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