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Intervista a Roberto Esposito I filosofi e la politica/1
di Giorgio Fazio

 

In modalità diverse, nell’attuale panorama nazionale e internazionale si manifesta una diffusa insofferenza di fronte alle strutture tradizionali della politica. Questo fenomeno è l’espressione di un generico sentimento antipolitico o del fatto che qualcosa non funziona più nelle forme della politica, così come sono state pensate fino adesso?

Penso che ci siano entrambi questi elementi. In questi fenomeni c’è sicuramente un elemento contingente: il rifiuto cioè di alcuni modelli di comportamento del ceto politico, se ci riferiamo all’Italia direi anche di alcuni caratteri istituzionali della politica. C’è però qualche cosa di più profondo, che arriva alle forme stesse, alle categorie fondanti della politica moderna che dimostrano di essere sempre più incapaci di dar conto delle dinamiche reali e attuali. Si pensi per esempio alla difficoltà di affrontare oggi la questione della globalizzazione con le vecchie categorie di rappresentanza, di stato sovrano e di diritti individuali. E’ anche questa discrasia, questo scollamento tra concetti, istituzioni e prassi, che determina le difficoltà a cui lei faceva riferimento.

Gran parte del Suo lavoro filosofico è stato finalizzato ad operare una revisione critica della concettualità politica moderna e del modo in cui questa concettualità continua ad orientare l’auto-rappresentazione che la politica ha di sé. Questi fenomeni storici richiamano il pensiero filosofico ad un compito specifico, come quello di farsi carico di un ruolo di riflessività, di orientamento, di critica?

La domanda in sostanza è quella del rapporto tra filosofia e politica. E’ innegabile come da un lato tra filosofia e politica ci sia un rapporto stretto: la filosofia, come si sa, nasce nella polis e ha da sempre intessuto un rapporto fondamentale con la politica. La filosofia traduce sempre elementi e dinamiche reali, interpreta la realtà, prefigura scenari possibili. Questo rapporto forte con la politica tuttavia non va inteso come un rapporto di identificazione con essa né tanto meno di subalternità. Una filosofia che ambisca ad avere senso, forza e dignità deve sempre assumere rispetto ai processi reali una chiave sì interpretativa, ma anche critica: non può cioè assumere il dato in quanto tale, deve riuscire a decostruire sia le dinamiche reali che ha di fronte sia i concetti che innervano queste dinamiche. Quindi torniamo alla questione precedente, nel senso che oggi il compito della filosofia è decostruire le categorie filosofico-politiche moderne e proporne delle altre.

Lei sta dicendo quindi che la filosofia non può, a meno di non perdere ciò che la caratterizza in quanto filosofia, tradursi immediatamente in prassi o richiamare un impegno politico diretto...

Io penso di no, naturalmente non tutti la pensano come me. Sta di fatto che quando nella storia recente o antica la filosofia ha voluto immediatamente essere prassi – penso al caso mitico di Platone che voleva come filosofo governare alcuni processi politici, oppure per fare un esempio molto più recente, l’impegno politico di Heidegger al tempo del nazismo – questo corto circuito è sempre esploso con effetti disastrosi e per la politica e per la filosofia. Naturalmente questo non significa consegnare la filosofia ad una dimensione necessariamente a-politica o anti-politica. Per questa ragione io ho usato nel passato l’espressione di impolitico per definire questa modalità critico-decostruttiva della filosofia rispetto a tutti gli assetti di potere anche concettuali, una modalità per esempio praticata da Nietzsche, anche se a volte in forme discutibili. Quello che conta per il lavoro proprio della filosofia è la capacità di decentrare e di capovolgere i nessi evidenti, di cercare passaggi inediti nel pensiero e nella realtà.

Provando ad entrare più nel merito dei fenomeni contemporanei al centro della discussione pubblica, con riferimento alla situazione italiana, colpisce in questo passaggio storico il nuovo protagonismo pubblico della religione, anche nella sua veste concretamente istituzionale. L’autorità religiosa interviene sempre più spesso negli affari politici dello Stato, e più in generale si richiama ad una funzione orientativa dell’agire politico, che si traduce direttamente in moniti, divieti, proposte. Anche in questo caso ci si può chiedere se la filosofia, per la forma di razionalità che dovrebbe custodire, è chiamata a giocare un ruolo nella sfera pubblica, per esempio quello di sostenere un approccio laico alle questioni contemporanee?

Io penso che l’intervento della Chiesa dal suo punto di vista, dal punto di vista cattolico cioè, è legittimo e inevitabile. Il cattolicesimo ha da sempre preteso di influire nella vita degli uomini, sarebbe impensabile per chi ci crede che la posizione della Chiesa rimanesse indifferente rispetto a ciò che accade tra gli uomini. Questo non lo si può neanche chiedere. D’altra parte lo stato deve avere la forza e la consapevolezza della propria autonomia, e deve sviluppare il proprio percorso decidendo autonomamente rispetto alle sue pratiche pubbliche. Tra questi due poli, quale deve essere il ruolo della filosofia? Francamente non penso che il ruolo della filosofia debba essere quello di fiancheggiare la Chiesa o lo Stato. La filosofia sta in un’altra sfera, che non la situa immediatamente in una posizione precisa o di tipo teologica o di tipo laicista. La filosofia deve elaborare concetti, come dice il filosofo Gilles Deleuze, il compito della filosofia è quello di creare concetti, non di difendere istituzioni esistenti.

Questa modalità filosofica di approccio alle questioni pubbliche si scontra con un dato che oggi, forse, è anche alla radice della nuova insorgenza della religione nella sfera pubblica: un approccio laico alle questioni, non sostenuto da un forte orizzonte di riferimenti valoriali, rischia di tradursi in formalismo o quanto meno di non reggere il passo di posizioni forti, che non a caso mostrano una grande capacità di presa e mobilitazione...

E’ il problema della verità io credo. La filosofia rimane esterna a come il discorso teologico, partendo da una verità rivelata, cerca di influenzare il mondo laico. Tuttavia deve poi scegliere tra due atteggiamenti: o partire dal presupposto dell’inesistenza di ogni tipo di verità, sposando conseguentemente una logica neutralista e relativista, secondo cui ogni tipo di discorso è legittimo e non esiste la possibilità di posporre o preporre un discorso ad un altro, oppure fare un discorso più complesso. La filosofia può assumere infatti anche l’idea che il rapporto con la verità è ancora vitale ma che la verità è in se stessa contraddittoria, cioè che essa non è esprimibile in dogmi, oppure in proposizioni assolute, non è esprimibile quindi né in chiave teologica né in chiave immediatamente scientifica, perché è qualche cosa di complesso che ha dentro di sé anime a volte anche in conflitto tra loro. Se la filosofia adotta questa concezione della verità come qualche cosa che in sé è eternamente contraddittorio, in qualche modo riesce a sfuggire alla dogmatica teologica, senza cadere preda del più assoluto relativismo.

Che contributo può dare l’università al mondo e alla conoscenza della politica attuale?

Per com’è costruita l’università oggi forse nessuno! Sto esagerando ovviamente, ma non tanto, nel senso che la logica universitaria accademica, essendo una logica di per sé iperspecialistica, tende ad impedire una riflessione critica generale, ostacolando la capacità di guardare alla realtà come un complesso di cose. Naturalmente il mio auspicio è che l’università non solamente cominci a risolvere i suoi problemi interni istituzionali, ma si avvicini al sapere con un’anima più critica e una capacità di combinare insieme linguaggi che attualmente, nell’organizzazione accademica, sono separati. 


PUBBLICATO IL : 05-11-2007


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