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Intervista a Francesco Saverio Trincia I filosofi e la politica/2
di Dario Gentili, Federico Lijoi

 

Nell’attuale panorama nazionale e internazionale crede che la filosofia sia chiamata a un rinnovato impegno politico?

Ognuna delle tradizionali declinazioni del cosiddetto “impegno”  politico della filosofia, da quello classicamente gramsciano, tipico della cultura marxista italiana, a quello marxista-esistenzialista di Sartre nella Francia degli anni Sessanta e Settanta, appare ormai priva di valore e risulta del tutto inutilizzabile. Questo stato di cose deve essere apprezzato come un evento che ha liberato la filosofia da legami letteralmente eteronomi e l’ha riconsegnata alle funzioni che sono autenticamente ed autonomamente le sue. Ciò non vuol dire che la filosofia non debba interrogarsi su quel che accade sulla scena storica e politica, ma che deve farlo per scoprire, o anche problematizzare, il senso di quel che la storia attuale volta per volta offre, in una direzione che non può essere quella prefissata dall’interesse politico, quale che sia il segno di quest’ultimo. La filosofia non sta al servizio di una politica ‘di progresso’ perché piuttosto si interroga sulla legittimità dell’uso a fini pratici, anche nobilmente pratici, di tale nozione. La questione del rapporto della filosofia con l’impegno politico deve, dunque, essere rovesciata. Ci si deve chiedere fino a che punto la politica si senta impegnata verso la filosofia, ossia fino a che punto, pur conservando la propria caratteristica di azione mirante alla conquista del potere pubblico in base a programmi, essa si nutra delle sollecitazioni e persino si serva del vocabolario, di quel modo del pensare tipicamente astratto e astorico cui si dà il nome di “filosofia”. In tale contesto, la filosofia  potrebbe giocare il ruolo, essenziale alla rinascita in chiave liberale e democratica del nostro paese, di sottrarre la vita pubblica alla sua iperpoliticizzazione, alla ipertrofia della ‘politique politicienne’,  restituendole il vitale rapporto di scambio con la società civile, luogo unico dove il pensiero filosofico appoggia il suo corpo mondano. In un senso del tutto diverso da quello delle varie ‘teorie dell’impegno’, il ruolo della filosofia appare dunque cruciale per la vita di un paese ormai logorato da una politica delegittimata ed autoreferenziale.

L’aspirazione universale della razionalità filosofica cosa perde e cosa guadagna quando, facendosi politica, entra a far parte del mondo dell’agire determinato?

La vocazione universalistica della filosofia è uno strumento concettuale insostituibile per garantire la coesistenza e l’incontro tra le differenti culture. L’universalità (anzitutto etica, ma non solo, perché altrettanto importante è la reciproca traducibilità degli “schemi concettuali”, per usare il linguaggio di Donald Davidson) è infatti  trascendentalmente rivolta al mondo, cui essa offre il più saldo ancoraggio a progetti politici che senza abbandonare la conflittualità consustanziale alle scelte politiche, non dimentichino che “socievolezza” e “insocievolezza” sono kantianamente connesse da un legame funzionale di reciprocità. Ne consegue che ogni apparentamento della filosofia alle opzioni politiche di un partito politico, per quanto queste ultime possano essere nobilmente intenzionate, conduce alla rovina la sua autonomia, insieme alla vitale distinzione delle sfere della vita pubblica e privata. L’edificazione, la costante salvaguardia e la strenua difesa dell’etica pubblica  diverrebbero impossibili.

Vi sono, a Suo parere, specifiche tematiche a partire dalle quali la filosofia può avvicinare la politica?

La filosofia ha il compito di fornire alla politica reale la definizione o le definizioni dell’agire politico storicamente succedutesi, affinché anche il più pratico e semplice, ma onesto e leale, dei politici, ricordi e al tempo stesso viva nella sua attività lo spessore della sedimentazione di esperienze e di teorie che comunque rivivono in ogni suo gesto. Un innesto di consapevolezza filosofica, sia pure non scolastica e non astratta, nella coscienza dei politici è urgente, e anche possibile. L’etica pubblica si fonda sulla moralità privata e quest’ultima non sorge senza una consapevolezza teorica anche minima.

Attraverso differenti modalità la società civile manifesta in questo periodo storico una diffusa insofferenza dinanzi alle strutture tradizionali della politica. E’ solo l’espressione di un desiderio dissidente o il diffuso sentimento antipolitico costituisce la reale indicazione di un motivato malessere?

Le manifestazioni antipolitiche o contropolitiche che si moltiplicano in Italia sono l’espressione genuina di un sentimento di malessere reale, che va ascoltato e a cui si deve fornire una risposta urgente. Essendo del tutto evidente la natura non antidemocratica delle manifestazioni antipolitiche che mettono sotto accusa ‘questa’ vita politica e istituzionale corrotta e decaduta e ‘questi’ politici, che letteralmente alimentano il proprio potere separato della propria stessa autodelegittimazione, esse sono espressione di una forte esigenza di rifondazione della democrazia, attraverso la restituzione alla sovranità popolare vulnerata dalla politica separata, del suo ruolo di fondamento di legittimità.

La crisi di partecipazione che affligge da decenni il nostro paese può ritenersi solamente il risultato di un’insoddisfazione dinanzi ai tempi e ai modi della politica, colmabile, cioè, con un adeguato piano di riforme, o può considerarsi il sintomo di una più radicale crisi della modalità rappresentativa della democrazia?

La modalità rappresentativa della democrazia esige una verifica costante dei propri modi di funzionamento. E’ ben noto fin da Tocqueville (ma si potrebbe risalire anche all’analisi della degenerazione delle forme politiche di Aristotele) che la democrazia può trovare entro se stessa i suoi peggiori nemici, anzi che essa può, mantenendo intatta la formalità delle procedure, diventare la peggiore nemica di se stessa. Su questo rischio si deve costantemente vigilare, utilizzando di nuovo lo strumento classicamente filosofico della distinzione. La forma istituzionale  democratica non coincide con e non si esaurisce nella classe politica che la fa funzionare e che può farla funzionare – è quello che sta accadendo in Italia – contro se stessa, ossia contro il popolo sovrano, e a proprio vantaggio.

L’autorità religiosa interviene, di recente, sempre più spesso negli affari della politica istituzionale, là dove, soprattutto, è questione di stabilire il limite morale all’utilizzo di determinate tecnologie mediche (si vedano le numerose pronunce della CEI sulla legge 40). In che misura la razionalità filosofica può aiutare la politica nello sviluppo di un approccio laico alle questioni bioetiche? Cosa potrebbe fare, cioè, la filosofia per riabilitare la discussione politica al ruolo di concorrente preferibile alla religione?  

La religione non può essere, in uno stato laico, una concorrente della filosofia. Essa è infatti una delle espressioni fra le tante della complessa vita della società civile, la cui ricchezza e vitalità si accresce con l’accrescersi delle sue voci, delle sue opinioni, tra le quali quelle delle varie fedi religiose. Un filosofia attenta a difendere la laicità dello stato come mezzo per difendere anche la propria voce tra quelle che parlano nella società civile prenderà atto che nelle questioni bioetiche leggi dello stato rigorose ma aperte, liberali e fiduciose nella serietà morale con cui ogni singola coscienza decide, legittimano e autorizzano opzioni anche estreme, e che le scelte concrete di parte religiosa divergono dalle scelte laiche. Poiché tuttavia entrambe sono ispirate a valori assoluti, che in quanto tali, in quanto cioè assoluti, divergono nei modi dell’assolutezza ma convergono nell’assolutezza, il laico che sceglie diversamente dal religioso e viceversa, si riconosceranno come entrambi attori morali di pari dignità.

Se la laicità dello stato vuole porsi come alternativa all’ingerenza politica delle istituzioni religiose, quale dovrà essere il suo contenuto positivo? Non rischia di essere infatti meramente formale quel concetto di laicità costruito solo come negazione del ruolo pubblico della religione? Non è, infatti, intendendo così la laicità che si rischia di creare un vuoto piuttosto che di colmarlo, e in tal modo di incoraggiare ancora più radicalmente l’impegno politico delle autorità religiose?  

Il presunto ‘vuoto’ della laicità è esattamente ciò che consente di ottenere l’obiettivo di bloccare l’ingerenza politica delle istituzioni religiose, distruttiva della laicità dello stato e della convivenza civile. Ciò accade perché, se bene osservato con gli strumenti che la filosofia offre, quel presunto ‘vuoto’ si presenta come una solida pienezza di universalità comprensiva, ossia come quel positivo , per quanto e forse proprio perchè formale, valore di tutti i valori che offre anche alle istituzioni religiose, e su un piano di piena eguaglianza, il rispetto pubblico dei propri valori cognitivi ed etici, nonché religiosi in senso stretto. Laicità, infatti, non significa indifferenza. La filosofia conosce bene la differenza tra la natura ‘privativa’ di quest’ultima e la positività di un universale formale. Chi ha letto la ‘Critica della ragion pratica’ sa che ‘formale’ e ‘vuoto’ non coincidono affatto, come ripete stancamente la tradizione hegeliana e neomarxista.

Che contributo può dare l’università al mondo e alla coscienza politica?

L’università opera (a vantaggio della crescita della coscienza politica) solo in maniera del tutto indiretta. La coscienza politica  e civile si forma ovunque, in ogni momento della vita pubblica e persino della vita privata dei cittadini. Essa in ogni caso non ‘si impara’ all’università. Quel che soltanto si può apprendere in una università seria è quel rigore della ricerca e dello studio, quella creatività del ricercare, quella autonomia intellettuale, e quella probità dello studioso, che contribuiscono a formare la coscienza civile peculiare dei cittadini che si occupano di ricerca. Quest’ultima coopera nel tener viva l’opinione pubblica, sempre componendosi con le coscienze civili di cittadini che operano negli altri ambiti della vita sociale e che non sono né superiori né inferiori alla coscienza civile dei ricercatori scientifici.


PUBBLICATO IL : 04-11-2007


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