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Intervista a Elio Matassi I filosofi e la politica/4
di Dario Gentili, Federico Lijoi

 

Nell’attuale panorama nazionale e internazionale trova che la filosofia sia chiamata a un rinnovato impegno politico?

La risposta è decisamente affermativa; dopo un lungo periodo in cui, in modo particolare nella cultura italiana, ci si è rifugiati nello specialismo settoriale, finalmente si assiste ad una svolta che vede impegnati intellettuali e ricercatori in un rinnovato rapporto con la politica. Sono convinto che tra lo specialismo e l’essere divenuti oggetti colti del culto mediatico vi sia una terza via per i filosofi e questa stia nell’elaborazione di un nuovo rapporto con il politico.

L’aspirazione universale della razionalità filosofica cosa perde e cosa guadagna quando, facendosi politica, entra a far parte del modo dell’agire determinato?

Ho al riguardo una prospettiva molto diversa da quella argomentata da Jacques Rancière ne Il disaccordo. Non credo né a una funzione regressiva della filosofia su quell’oggetto “scandaloso” che è il politico – in questo caso si tratterebbe di una funzione anestetica – né a una funzione meramente subalterna, puramente vicariale. Bisogna ritornare a ripensare un rapporto tra teoria e prassi che sia libero dalle pregiudiziali del passato, ma che possa riproporsi con rinnovata attualità.

Vi sono oggi a suo parere, specifiche tematiche a partire dalle quali la filosofia può avvicinare la politica?

Credo che la problematica ottimale per la filosofia sia quella della laicità, che è la struttura fondamentale dell’argomentazione filosofica e, nel contempo, la struttura essenziale del tessuto democratico. La laicità come filosofia  e come democrazia.

Attraverso differenti modalità la società civile manifesta in questo periodo storico una diffusa insofferenza dinanzi alle strutture tradizionali della politica. E’ solo l’espressione di un desiderio dissidente o il diffuso sentimento antipolitico costituisce la reale indicazione di un motivato malessere?

Il sentimento dell’antipolitica corrisponde ad una crisi della rappresentanza; la democrazia prima di essere rappresentativa è stata partecipativa (si veda la sua origine nel mondo greco). Per superare quel sentimento antipolitico è indispensabile tornare alle origini e colmare lo scarto che separa il rappresentativo dal partecipativo.

La crisi di partecipazione che affligge da decenni il nostro Paese può ritenersi solamente il risultato di un’insoddisfazione rispetto ai tempi ed ai modi della politica, colmabile cioè con un adeguato piano di riforma, o può considerarsi il sintomo di una più radicale crisi delle forme rappresentative della democrazia?

Bisogna recuperare il principio-associazione che è stato completamente emarginato da quello contrattuale; il vizio di fondo del contrattualismo è stato quello di assolutizzare il contratto, dimenticando che gli individui che lo stipulano sono già in qualche misura avvinti da un legame associativo. Riconoscere questo significa tornare ad avvicinare la società civile alla democrazia rappresentativa.

L’autorità religiosa interviene, di recente, sempre più spesso negli affari della politica istituzionale, laddove, soprattutto, è questione di stabilire il limite morale all’utilizzo di determinate tecnologie mediche (si vedano le numerose pronunce della CEI sulla legge 40). In che misura la razionalità filosofica può aiutare la politica nello sviluppo di un approccio laico alle questioni bioetiche? Cosa potrebbe fare, cioè, la filosofia per ristabilire la discussione politica al ruolo di concorrente preferibile alla religione?

Sono contrario, in linea di principio, ad una interpretazione ‘civile’ della religione che ne snatura la funzione. Sono invece favorevole ad un concetto di laicità inclusiva o postsecolare, che tenga conto del nuovo ruolo assunto dalle religioni nell’ultima parte del Novecento. Si tratta di una laicità inclusiva e non settaria che può offrire un grande ausilio per la soluzione delle grandi questioni bioetiche.

Se la laicità dello Stato vuole porsi come alternativa all’ingerenza politica delle istituzioni religiose, quale dovrà essere il suo contenuto positivo? Non rischia infatti di essere puramente formale quel concetto di laicità costruito solo come negazione del ruolo pubblico della religione? Non è infatti intendendo così la laicità che si rischia di creare un vuoto, piuttosto che di colmarlo, ed in tal modo di incoraggiare ancor più radicalmente l’impegno politico delle autorità religiose?

Credo che il concetto di laicità non sia puramente formale, ma fondandosi sulla produttività del conflitto, abbia anche un contenuto specifico che deve essere difeso. La laicità è un atteggiamento profondamente diverso dal fondamentalismo. Si può essere fondamentalisti essendo laici e fondamentalisti essendo credenti. La misura corretta della laicità sta nel ribadire il rispetto per la pluralità. La laicità è l’atteggiamento anti-identitario per eccellenza.

Che contributo può dare l’Università al mondo e alla coscienza politica?

Il contributo dell’Università, di un’Università completamente rifondata, può essere sicuramente molto elevato. Bisogna tornare allo spirito della grande conferenza tenuta da Joachim Ritter, Il compito delle scienze dello spirito nella moderna società industriale. Lungi dal risultare obsoleto, in questo compito sta invece anche il destino della contemporaneità.


PUBBLICATO IL : 27-12-2007


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