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Intervista a Giuseppe Duso I filosofi e la politica/3
di Giorgio Fazio

 

Nell’attuale panorama nazionale ed internazionale molti fenomeni sembrano indicare una diffusa e crescente insofferenza nei confronti della politica, e d’altra parte una difficoltà strutturale di quest’ultima ad accordarsi a tempi ed esigenze mutate. Ci troviamo di fronte all’emergere di fenomeni antipolitici o bisogna leggere in essi il segnale di una crisi più strutturale?

Non si può negare un carattere contingente dei fenomeni in cui si manifesta oggi un’ insofferenza nei confronti della politica, dipendente anche dal particolare degrado della classe dirigente, quale si manifesta nelle stucchevoli e inutili diatribe che contrappongono destra e sinistra, e nel basso profilo intellettuale e spesso anche etico che caratterizza una buona parte del personale che ha compiti politici. Credo tuttavia che il problema sia più radicale. Mi pare cioè che tutto il cammino che dalle grandi rivoluzioni in poi ha cercato di togliere gli uomini dalla dipendenza  e di farne i protagonisti della vita politica – non sudditi, si dice, ma cittadini -  sia connotato, al di là degli indubbi risultati che ha conseguito, da una serie di contraddizioni concettuali che appaiono strutturali. Queste si possono riscontrare negli stessi concetti che stanno alla base delle nostre costituzioni e che danno luogo a procedure che, lungi dal favorire il rapporto tra i cittadini e l’esercizio del potere, sembrano, al contrario,  dare luogo ad uno iato tra questi che rischia di essere incolmabile.

Lei sta dicendo quindi che i problemi strutturali della politica nascono dai concetti con cui siamo soliti pensarla, dalle stesse categorie concettuali più assodate della modernità. Può spiegare meglio questa tesi?

Dai lavori e dalle riflessioni che con altri conduco da molto tempo - sulla nascita dei concetti moderni nell’ambito delle dottrine del contratto sociale e sull’affermazione che questi hanno avuto nella storia fino a determinare quella concezione egemone della politica che si manifesta nella democrazia - mi sembra emergere un risultato paradossale. Proprio quei concetti che dovrebbero non solo avvicinare il cittadino al potere, ma mostrare che il “potere è dei cittadini” - mi riferisco alla sovranità del popolo e alla rappresentanza politica - ebbene, proprio quei concetti creano una frattura. Anzi, proprio per il fatto che essi tendono a fare del cittadino il soggetto del potere, finiscono per renderlo totalmente subalterno e per azzerare la sua dimensione politica: se il potere infatti gli appartiene e, a causa del suo stesso fondamento, è già suo, egli non può esprimersi con una propria volontà politica di fronte ad esso. Tale logica si manifesta nelle elezioni, nelle quali non si esprimono volontà determinate, ma si autorizzano alcuni, attraverso la mediazione dei partiti, ad esprimere per tutti  l’unica volontà del popolo, che si fa legge. Proprio a causa del fatto che  “autorizza” e dunque fonda il potere dal basso, il cittadino non decide i contenuti del comando, che vengono dall’alto, e dunque gli sono estranei anche quando riguardano situazioni, processi e questioni di lavoro in cui i singoli cittadini sono implicati. Si tratta della famosa dialettica di “autore” e attore”, nata con Hobbes e affermatasi nelle costituzioni moderne, secondo la quale tutti sono “autori” di azioni che in realtà non compiono, in quanto sono demandate a quell’attore politico che le compirà in vece loro. Questa, schematicamente, mi sembra sia la difficoltà di fondo di ciò che si intende, a livello delle procedure costituzionali, per “legittimità democratica”. Se si può dire che ai nostri giorni questa mostra di vivere anche da un punto di vista epocale una crisi, assieme alla statualità, mi sembra che si debba per altro  riconoscere che è la sua stessa logica ad essere aporetica. Il diffondersi a tutti i livelli di quelle esigenze e di quei processi che si indicano spesso con il termine di governance, lungi dal fornire nuove forme di legittimazione, mi sembra sia un indicatore emblematico dell’incapacità del meccanismo rappresentativo, che è insieme di legittimazione e di costituzione del potere, di dare risposta da una parte al problema del concreto governo dei processi, e dall’altra all’esigenza di partecipazione di tutti i soggetti che in quei processi (siano questi giuridici, economici, di organizzazione del lavoro, culturali ecc.) sono implicati.

Da dove ripartire quindi, in seguito ad una diagnosi così radicale?

Io credo sia necessario ripartire dalla comprensione delle contraddizioni e della opzione di fondo, del “valore”, che provoca quelle contraddizioni. Questo valore, da un punto di vista teorico,  consiste nella funzione  fondante che viene attribuita all’individuo nei confronti della società (ambedue questi termini indicano mere astrazioni del pensiero) e nel ruolo che ha, nel dispositivo moderno della politica, il concetto di libertà. Si badi bene: non è qui in  questione la libertà in quanto tale (che è per altro tutta da pensare),  ma quel concetto di libertà che consiste nell’indipendenza della volontà, secondo cui ognuno può agire a proprio arbitrio purché non impedisca l’uguale libertà dell’altro. Non è difficile mostrare, seguendo la costruzione del giusnaturalismo moderno, come sia questo concetto di libertà a produrre quello di sovranità. Se questo è vero, allora, per superare la sovranità bisogna anche superare quell’assolutizzazione dell’individuo e della sua libertà che è posta alla base del modo moderno di pensare la politica. Ciò è possibile se si concepisce diversamente l’obbligazione politica e il senso e le modalità del  comando politico. Quest’ultimo cioè dovrebbe essere pensato - ma non si può in breve spazio darne ragione - non nel senso del concetto moderno di potere politico, ma in quello della nozione di governo, intesa in un senso forte e legato allo stesso etimo del termine. Ne risulterebbe allora non tanto un modello che risolverebbe le difficoltà a cui si è sopra accennato, ma piuttosto una direzione da intraprendere. In questa  emergerebbero come strutturali, una serie di categorie che sono solitamente rubricate mediante la parola di “democrazia”, ma che non  trovano realizzazione nel modo in cui si intende la democrazia come forma costituzionale sulla base dei due principi della sovranità del popolo e della rappresentanza. Mi riferisco alla necessità di comprendere la pluralità, di intendere in una dimensione politica l’emergere di nuovi soggetti che rivendicano diritti e  differenze non riconosciute, di considerare come guida categorie come quelle di solidarietà, responsabilitàpartecipazione, intese non tanto come  imperativi etici per un fine di moralizzazione della politica, ma come l’esito di un modo “costituzionalmente” diverso di pensare la realtà politica.

Eppure gli equilibri politici creatisi su scala nazionale nel Novecento hanno saputo garantire meccanismi, per quanto imperfetti, di inclusione sociale, di estensione dei diritti di cittadinanza, e di partecipazione politica. Come tutelare e promuovere queste istanze su scala non più nazionale, di fronte all’avanzare dei processi sempre più pervasivi di globalizzazione economica?

Mi pare che sia necessario a questo proposito comprendere le esigenze che spesso si manifestano nelle richieste e nelle lotte per i diritti, cambiando però lo statuto della loro pensabilità. Togliendo cioè quell’aspetto individualistico e di neutralizzazione che mi pare insito nel concetto dei diritti degli individui (che non hanno limiti nella loro estensione) e superando anche quel nesso indissolubile con il potere che fin dalla sua nascita - teoricamente nel giusnaturalismo e storicamente nelle costituzioni – lega la tematica dei diritti alla costituzione di un potere immane quale è quello politico (che detiene appunto il monopolio della forza). Nei trattati di diritto naturale è infatti il punto di partenza costituito dai diritti dell’individuo – in primis uguaglianza e libertà – a portare, come si è detto, mediante una ferrea logica, alla costruzione del concetto di sovranità. Anche nella dichiarazione dei diritti dell’uomo posta in testa alla costituzione (si pensi alla Francia della rivoluzione), vi è un nesso di necessità tra i diritti e la costituzione di quel potere statale che deve garantirli (ciò è da ricordare anche quando si vuole pensare la politica a livello mondiale sulla base della teoria dei diritti). Un superamento di tale logica si potrebbe forse dare se, al posto dei diritti dell’individuo, si riconoscesse la centralità e innegabilità della relazione con l’altro, del rapporto, per la stessa costituzione della soggettività. Si provi a pensare a una tale funzione costitutiva dei rapporti e si vedrà che muta radicalmente il modo di pensare la politica; si presenta un compito di reciproco riconoscimento e di accordo a tutti i livelli, da quello locale a quello mondiale.

Il problema di una “pluralità irrappresentabile” sembra assumere nelle attuali società “post-secolari” un connotato molto più dirompente ed inquietante, della carica emancipativa associata inizialmente all’espressione. C’è chi negli istituti e nelle procedure dello Stato di diritto vuole affidare una funzione semplicemente ancillare e suppletiva, denunciandone l’intrinseca mancanza di fondamenti valoriali - come l’attuale gerarchia della Chiesa cattolica; e chi d’altra parte ne rivendica un’estranietà radicale, come il fondamentalismo islamico. Da dove ripartire per ripensare la laicità come terreno comune di appartenenza politica tra diversità, una volta sottoposto ad una critica radicale il paradigma del costituzionalismo moderno?

Le istanze che mettono in crisi la rappresentanza restano prive di effetto politico se non portano a pensare la rappresentanza in modo diverso, che oltrepassi le aporie del concetto moderno di rappresentanza quale si esprime nelle odierne procedure elettorali. Se la pluralità è pensata come “irrappresentabile”, si rischia di confermare il nostro permanere nella morsa costituita dal nesso di sovranità e rappresentanza. Questo è il pericolo che si corre se si declina il concetto di singolo come irriducibile al rapporto formale di obbligazione politica, o il tema filosofico dell’eccedenza di ciò che non è obiettivabile e riducibile ad oggetto del nostro sapere positivo  - problema certo strutturale nella filosofia ed emergente anche nella politica - nella forma dell’indeterminazione della pluralità a cui di volta in volta ci si riferisce. Solo incrociando la rappresentanza con la determinazione delle differenze (certo sempre in movimento e mai fissate una volta per tutte) è possibile pensare queste ultime nel loro significato politico. Mi pare che questo valga per quelle che di solito si indicano come differenze nella società civile,  così come per le differenze delle religioni e delle culture, che ormai emergono non solo nella scena mondiale, ma anche  all’interno di quelle realtà che sono gli Stati. La comune appartenenza dei diversi si deve pensare non mediante la riproposizione di quel senso della laicità che  sta alla base della razionalità formale che denota i concetti moderni della politica; cioè una laicità che fa tutt’uno con la neutralizzazione delle diverse idee della giustizia e della diversità delle fedi e delle culture, le quali vengono così ad assumere lo statuto di mere  opinioni cui spetta un  carattere privato. Mi pare che il problema sia quello di trovare nella diversità  che si manifesta nella pluralità dei rapporti sociali e in quella delle fedi e delle culture, le ragioni dell’accettazione dell’altro e della vita in comune. Si impone cioè un compito di “comprensione”, nel senso etimologico del termine, delle differenze a livello costituzionale. Senza ritrovamento di un  “comune” condiviso non ci può essere pluralità. Certo questo è un compito difficile e rischioso, che non è garantito da quella connessione immediata di diritto e forza che ha prodotto lo Stato e lo stato di diritto. Inoltre a questo fine appare insufficiente e fuorviante la concezione di una immediata e spontanea concordanza tra gli uomini, in un semplice spazio di cooperazione,  che qualcuno chiamerebbe orizzontale, ma appare necessario un modo diverso di intendere il comando inevitabile nella società, un modo che si può declinare nella direzione del “governo della pluralità” o delle differenze.

Di fronte ai problemi affrontati finora, la filosofia è chiamata ad un rinnovato compito di critica e di riorientamento della prassi, addirittura a riscoprire una rinnovata vocazione all’“impegno” politico? E fino a dove si può spingere in questa direzione senza perdere ciò che la caratterizza specificamente come sapere?

Credo che il ruolo della filosofia politica sia proprio quello di problematizzare ciò che appare ovvio e di pensare la realtà al di là dello schermo costituito dalla teoria e dalla ideologia. Un tale lavoro può servire non a dare  chiavi di soluzione sul che fare, ma forse linee di orientamento. Devo dire che è difficile oggi trovare uno spazio in cui sia possibile un tale lavoro di critica e di comprensione: non lo è certo quello politico o partitico, ma nemmeno quello dei media o delle aggregazioni culturali più o meno impegnate, come quelle che danno luogo ai dibattiti di note riviste di politica e di cultura.  Ho cercato recentemente di delineare la pratica di una tale filosofia politica. Schematicamente si può dire che questa consista nell’interrogare quei concetti e quei valori che usiamo - tutti noi e i soggetti politicamente impegnati - immediatamente come valori che ci permettono la lotta politica e che, prima di tutto ci rassicurano di essere “dalla parte giusta”. Se non si intraprende questa avventura filosofica si rimane a pensare con il paraocchi costituito da quei concetti che sono diventati doxa condivisa  e non ci si accorge che i veri problemi sono quelli che emergono  nel momento in cui  si ha consapevolezza delle aporie che caratterizzano i presupposti stessi su cui si dà oggi il terreno della contesa politica. Né destra né sinistra hanno percezione di queste aporie. Il problema non consiste in chi è più democratico, ma nelle  difficoltà che sono proprie  dei concetti della democrazia e che stanno alla base delle costituzioni e delle procedure costituzionali. Ma se in ciò consiste il lavoro filosofico in relazione alla politica, difficile appare intendere quale rapporto un tale lavoro filosofico  abbia con la prassi e con l’impegno politico, una volta che sia chiaro che questo lavoro filosofico è ben altro da quello della costruzione di teorie e di modelli, e che si manifesta come il compito di pensare la realtà. Di pensarla, non di registrarla o fotografarla, e dunque di capire quello che è il suo meglio, e dunque anche quello che è il nostro meglio, come ha detto Alessandro Biral, che ha dato un contributo straordinariamente  rilevante alla filosofia politica contemporanea - in una conferenza, da poco pubblicata postuma, nella quale pensa la politica in modo che appare assai dissonante dal coro che ci contorna. Contro il nesso di teoria e prassi, che è diventato nell’epoca moderna un topos comune,  mi pare che il problema sia quello del rapporto tra la forza logica della critica filosofica e il rischio proprio della  scelta e della proposta che è connaturato alla prassi. Non si tratta di dedurre dalla teoria una giusta politica,  ma non si può nemmeno pensare alla semplice estraneità tra filosofia e prassi. Si tratta forse di trovare di volta in volta proposte che, pur avendo un carattere arrischiato, sono tuttavia in qualche modo orientate dalla comprensione filosofica.

Che contributo può dare in questo senso l’università come luogo di produzione, di conservazione, di trasmissione di saperi nonché di possibile formazione critica?

Certo, da quanto si è detto, l’Università, proprio in quanto istituzione dedita alla ricerca e alla trasmissione del sapere, e in quanto sottratta all’immediato impegno politico, dovrebbe e potrebbe essere –  in qualche raro caso per fortuna lo è – il luogo per una formazione critica, che appare sempre più necessaria e urgente. Purtroppo, se si ha conoscenza dello stato in cui l’università si trova in quanto dominata da una logica “accademica”  che rischia continuamente di azzerare un reale impegno riguardante la ricerca e la formazione, non c’è da essere molto ottimisti. Da una parte, per i meccanismi sopra ricordati, non c’è possibilità di intervento da parte di chi concretamente lavora nell’università sulle scelte che su di essa si esercitano: in base al meccanismo del potere legittimo sopra indicato, queste vengono dall’alto di una classe politica eletta mediante i partiti sulla base di impegni del tutto generici e di solito non onorati, impegni che servono ad organizzare un consenso predeterminato al concreto dell’azione politica. Dunque non c’è partecipazione alle scelte politiche. D’altra parte, l’autonomia dell’università, che sarebbe preziosa in un quadro federalistico di responsabilizzazione dei soggetti politici, è giocata nella direzione della sottrazione di responsabilità del corpo docente nei confronti del complesso della società e nella indipendenza di un comportamento  che, al di là degli scandali che spesso emergono, funziona, si può dire strutturalmente, secondo esigenze e scopi che  sono altri da quelli  della ricerca e della formazione. Se si conoscono i meccanismi universitari, si provi a riflettere su quanto sia casuale l’incontro tra le reali esigenze della ricerca e della didattica, con i livelli di eccellenza che in questi due campi si esprimono e si possono esprimere, e la prassi concreta dei concorsi di assunzione e di promozione del personale, e dunque di riproduzione della classe accademica. E questo anche quando si sbandierano livelli di eccellenza. Il problema non è tanto quello di un comportamento corporativo, ma della perdita del senso e della dignità del proprio essere e del proprio ruolo e della mancanza di quella responsabilità politica – intesa questa come categoria non morale ma “costituzionale” - in cui l’autonomia dovrebbe essere pensata. In una situazione del genere quella pratica della filosofia che è necessaria al compito da lei indicato rischia di essere spesso difficilmente rintracciabile.


PUBBLICATO IL : 27-12-2007


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