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Intervista a Mario Reale I filosofi e la politica/5
di Giorgio Fazio

 

Molti fenomeni nell’attuale passaggio storico segnalano una difficoltà ed una crisi delle forme e degli istituti della politica, tanto più evidenti quanto più si associa la politica all’orizzonte della democrazia, vedendovi anzi la dimensione in cui questa soltanto, da insieme di procedure e di forme, può farsi ambito dinamico e conflittuale di mediazione tra bisogni, culture, passioni, valori. Prima di analizzare quali sono i problemi e le linee di crisi della politica oggi, proviamo a partire da una domanda più complessiva: che rapporto intercorre tra politica e democrazia?

La relazione tra la “politica” e la sfera propriamente democratica è in realtà complessa, anche se i due ambiti vengono spesso sovrapposti, come se il primo coincidesse interamente con il secondo. In generale, la democrazia è un’importante variante della storia, non viceversa, mentre la stessa democrazia ha conosciuto, in rapporto alla storia, tempi e fasi, che non possono essere sublimate, come talora teoricamente accade, in una sorta di grande narrazione metastorica della democrazia. La storia ha conosciuto molti modi di agire politico, di varia qualità, che ancora attraversano le forme democratiche: dalla terribile e sempre più insensata permanenza della guerra, a una risorsa di saperi e pratiche che ancora possono alimentare la saggezza politica, ai parziali modelli forniti da talune teorie o esperienze esemplari. Devo purtroppo limitarmi a un solo esempio, relativo alla politica estera: l’incidenza legittimante della democrazia si mostra qui, in modi alquanto generici, nella elezione preventiva e nella valutazione a fine mandato, mentre nell’esercizio proprio della funzione governante si è a volte fortunati persino se s’incontra una vecchia e predemocratica saggezza politica, un antico sapere circa la buona convivenza. Si potrebbe anzi dire che vi è una strutturale tensione tra democrazia e politica (in forme istituzionali e diffuse) e che il problema consiste nella capacità della democrazia di venir conquistando per sé, fin dove è possibile, un’alta e incisiva qualità politica. Non si tratta di contrarre il mondo nella democrazia, ma di  riuscire a esercitare le forme di una possibile e non certo assoluta “sovranità”. Nel caso della “mondiale” guerra irachena, è evidente che vi sono responsabilità, a discendere, della complessiva organizzazione delle Nazioni Unite, delle forme giuridico-istituzionali che autorizzano la guerra, della qualità politica di governanti, della impermeabilità di società civile mondiale e istituzioni, della formazione di volontà politica, e così via. Forse, se si stringono benignamente tutti questi fili la democrazia può compiere passi avanti nella conquista di qualità politica.
 Il rapporto di democrazia e politica può essere visto, indirettamente, anche riguardo alle complesse strutture della società. E’ un dibattito ormai annoso quello di determinare il luogo della politica, cioè se essa abbia mai costituito, costituisca o possa costituire il “vertice” o il “centro” della società. In ogni caso, se la democrazia ambisce a questo ruolo, deve cominciare o continuare a conquistarselo. Di fatto, le varie forme della democrazia moderna, intendo all’incirca quella dell’ultimo secolo e mezzo, hanno trovato dinanzi e a fianco a sé poteri consistenti, strutturati e costituiti, essi stessi divenienti e dotati, come oramai sappiamo, di capacità “politica” più o meno indiretta. L’esempio più agevole da fare riguarda il capitalismo, che, con la presenza di classi in senso moderno, storicamente precede la democrazia, e che ingaggia con essa un conflitto per la decisione di ultima istanza e per un’equilibrata, moderna e inaggirabile convivenza di economico e politico. Entro una prospettiva sistemica e funzionalista, la democrazia occupa uno spazio realisticamente davvero troppo modesto, ma ci dice da quanti lati e con quanta durezza le forme economico-sociali la eccedano o la contrastino. E anche se la cosa viene vista con gli occhi di Habermas, non meno evidente riesce la  scarsa permeabilità, nonostante il diritto, dei sistemi.
 Certo, un grande “lavorio” democratico si è venuto svolgendo, per modificare, correggere e compensare la durezza di questo quadro: si pensi solo al welfare state europeo, da rimodellare costantemente, in senso non burocratico, ma da difendere con ogni energia perché costituisce una delle poche radure “reali” di estensione della democrazia, indissociabile ormai dalla sua stessa definizione. Ma al tempo stesso molto rimane da fare perché la democrazia riesca a illuminare di sé - nella distinzione, nella riarticolazione e nelle forme di riappropriazione - una zona opaca, indistinta, carica di vecchio e nuovo, resistente. Ora in questi casi, dove la trasparenza democratica rischia di costituire un mito, la democrazia deve armarsi di strategia politica verso altre politiche, di conoscenze e di duttilità, di mobilitazione di saperi ed energie. Non basta solo una democratica trasmissione di volontà, rispettosa di tutte le preferenze date, in una circolarità che ribadisce l’esistente; occorre anzitutto una consapevole volontà dei cittadini, formata in modo ampio e critico, e quindi la capacità politica dei governanti di proporre soluzioni più avanzate, riconfigurazione di interessi, immissione di strumenti innovativi, e molto altro ancora.
 Infine, in tema di rapporto di politica e democrazia, è pur vero che la democrazia si viene sempre più costituendo a livello mondiale, nella realtà, nella mentalità e nelle aspirazioni collettive, come la forma “normale” e universale della politica. Veramente pochi vorrebbero uscire dai vantaggi della democrazia, molti vorrebbero accedere a questa sfera, e lo stesso fondamentalismo islamico è facilmente leggibile anche come estrema resistenza, ancor più che al capitalismo, a quella modernizzazione democratica che è vista solo nella sua valenza di avanzante “espropriazione”. Il tema perciò del politico che precede o eccede la democrazia, o ne fuoriesce per esprimersi in altri ambiti, pur costituendo cruciale terreno di analisi e di pratiche sociali, può essere incluso nella generale formula di una politica democratica, o di una politica della democrazia. C’è qui tra l’altro un motivo dirimente, perché, da ultimo, tutti gli auspicabili processi di trasformazione sono iscrivibili solo in quel che è stato detto “l’interminabile lavoro della democrazia”.

Politica e democrazia, due dimensioni di per sé non coincidenti quindi, sembravano tuttavia aver trovato un equilibrio virtuoso nella seconda metà del Novecento a livello degli stati nazionali, dove sono stati garantiti meccanismi, per quanto imperfetti, di inclusione sociale, di estensione dei diritti di cittadinanza e di partecipazione politica. Questo equilibrio sembra essersi compromesso però in seguito all’avanzare di processi sempre più pervasivi di globalizzazione economica. Come viene a riconfigurarsi il rapporto tra democrazia e politica nell’orizzonte della globalizzazione?

Le forme della democrazia sono costrette, volere o no, a fare i conti - ponderati, critici, non apocalittici né di ottuso ottimismo - con i fenomeni della globalizzazione. Veramente, si tratta di un termine-concetto ancora controverso, oscillante, polisemico. Molti studiosi, di varia competenza, ancora discutono: se la globalizzazione sia una realtà o un mito; un processo irreversibile o reversibile; se sia un fenomeno della prima modernità, di fine ‘800-primo ‘900 o solo degli ultimissimi decenni; se si tratti di una globalizzazione solo economico-capitalistico o pluridimensionale (le globalizzazioni); se abbia padri-autori o se sia una sorta di processo senza soggetto; se i vantaggi che ne derivano siano inferiori o superiori ai danni; se preluda a una pacifica governance mondiale o riservi un futuro fosco di ancor più vistose diseguaguaglianze e di opprimenti forme di gerarchia economico-politica, e si potrebbe continuare a lungo (in italiano, un’eccellente “mappa” della globalizzazione è stata disegnata pochi anni fa da D. Zolo).
Per quel che riguarda il nostro tema, la dibattuta questione riguarda com’è noto il futuro dello stato nazionale, con il suo corredo di diritto, democrazia, stato sociale, poteri di inclusione, di controllo e razionalizzazione sociale, ecc. Lo stato nazionale, in breve, è avviato a un inesorabile tramonto, per progressiva incapacità di affrontare problemi sempre più globali (a cominciare dalla guerra e dalle devastazioni ambientali), o ha ancora importanti funzioni da svolgere? E’ un fatto che strutture politiche, giuridiche, economiche, di natura sovra o transnazionale, hanno eroso compiti, confini e fonti giuridiche dello stato nazionale: dall’Unione europea (per noi) all’ONU e alle altre agenzie di carattere mondiale.
Uno dei problemi cruciali è di capire se assistiamo solo a una globalizzazione economica (o globalismo, per alcuni), che è certo per ora la forma più visibile e pesante, insieme alla scienza-tecnica, della mondializzazione, o se si diano e possano darsi altre forme di globalità: politiche e giuridico-istituzionali, sociali, ecologiche, culturali, civili, e così via. Volontario certo il globalismo, volontarie anche queste altre forme. Per il nostro discorso, il problema principale è oggi l’assenza di forme politiche in grado di fissare condizioni e limiti allo strapotere imperiale del neoliberismo che attuino il moderno nesso di politica ed economia. La questione riguarda il modo, o meglio i modi, per far crescere all’orizzonte forme politiche di contenimento e di rimodulazione del potere economico, nell’ambito di una futura cittadinanza cosmopolitica e di una società civile mondiale. Vi sono oggi molti studiosi che vedono a portata di mano, a cominciare da un accrescimento dei poteri (anche armati) delle Nazioni Unite, una democratizzazione globale e uno stato cosmopolitico. Credo che il lavoro sarà molto più lungo, accidentato, contrastato. Con l’occhio ai dati e ai venturi assetti politici mondiali, mi pare in tutti i casi che ci sia troppa enfasi retorica  nella diagnosi di “fine” dello Stato nazionale: sarebbe come dire che i vecchi iddii se ne sono andati e quelli nuovi non sono ancora venuti, né si sa bene come invocarli, o che lo stato resta una risorsa di chi può permetterselo. Lo stato nazionale per molti versi ha fatto il suo tempo (se non altro, a parer mio, perché basato sull’inclusione escludente), ma costituisce ancora un punto di forza per ogni trasformazione futura. Non si risponde così alla difficoltà della globalizzazione con rinazionalizzazioni, ma piuttosto cercando di orientare e muovere le politiche nazionali in direzione di un mondo nuovo, più unito e più giusto.
Circa il problema di ciò che deve essere tutelato, infine, un solo esempio. E’ vero che uno degli obiettivi del globalismo economico sembra consistere nello smantellamento dello stato sociale europeo, con il seguito di deregolamentazione dei diritti del lavoro, ecc. Credo che una globalizzazione a questo prezzo debba essere in tutti i modi contrastata. Gli europei, che già sono pervenuti a una  globalizzazione regionale, sia pur timida, devono piuttosto far sentire la forza delle loro buone tradizioni e del necessario impasto di politica e civiltà.

Esiste quindi un patrimonio di riferimenti culturali e di esperienze storiche del passato che deve essere tutelato. Se si volesse fare tuttavia una mappatura delle principali difficoltà e delle partite ancora aperte nelle democrazie su scala nazionale, da dove bisognerebbe partire?

E’ in corso oggi, per dirla al modo di Beck, una lotta per la definizione della democrazia, per ripensarla, lontani ormai sia da Rousseau che da Schumpeter. La democrazia per la verità è sempre in qualche modo ridefinita, come tutti i processi della volontà, è plebiscito di ogni giorno, secondo la formula un po’ enfatica di Renan; ma vi sono oggi imponenti e intuibili ragioni, a cominciare dal mondo globale, o dalle crisi e dai successi delle precedenti forme democratiche, per ridefinire il quadro, i problemi e le possibilità della democrazia, più o meno degli ultimi cinquant’anni. Sarebbe impossibile, naturalmente, tentare qui anche solo un elenco della attuali difficoltà delle democrazie. Mi limiterò così solo a toccare un punto, per altro delicato, di affanno e depressione afasica, e cioè il rapporto di cittadini e governanti.
 Da molti indicatori, è rilevabile una caduta delle forme tradizionali di partecipazione  democratica,  al di là delle tornate elettorali, ancora a volte vivaci, o dei fuochi che si accendono e finiscono presto in cenere. Già un piccolo, semplice ed esemplare libro, come la Postdemocrazia di C. Crouch, insegna da quanti lati, e soprattutto da parte dei vertici politici, la comunicazione democratica dal basso verso l’alto appaia frenata o bloccata. Vi sono numerosi fattori che determinano questa situazione, globali e locali. Qui è utile solo ricordare lo strutturale indebolimento in Europa delle grandi organizzazioni di massa, partitiche e sindacali, in quanto tramite, connettivo e selettivo, di partecipazione, strumento di educazione, apprendimento e capacità di domande. La crisi della tradizionale forma-partito ha un impatto di rilevante portata circa l’attuale assetto delle democrazie. Connesso anche a ciò, si verifica la perdita presso che di ogni significato del concetto di “rappresentanza”, e il convenire verso il centro, verso gli elettori mediani, dell’asse politico, che sembra smarrire il carattere di legale conflittualità iscritto nella democrazia: le stesse tradizionali partizioni di destra e sinistra sembrano avviate a diventare desuete, persino in taluni ambiti della sinistra (unità del fare, opposta solo all’antipolitica), e le forme plurali di democrazia sembrano stringersi intorno a un unico modello, basato sulla forma di partito-non partito, o partito essenzialmente in funzione elettorale. E ancora molto vi sarebbe da dire intorno alle ristrette aree della comunicazione politica mediatizzata, al leaderismo dell’immagine, all’ineguaglianza politica, alla connessione di politica e risorse finanziarie, e così continuando. Come si vede, una strada molto in salita per la partecipazione, anche se sono civilmente da incoraggiare tutti i tentativi dei partiti di rinnovare le forme comunicativo-partecipative (telematiche, settoriali, ecc.).
Resta tuttavia un dubbio maggiore: anche se si riducessero gli ostacoli e i limiti che oggi gravano su questo tradizionale ed essenziale connotato della democrazia, anche se la partecipazione riuscisse a colmare i disturbi e le interferenze, guadagnando sbocchi positivi, non è meno vero che essa è “costosa” in termini esistenziali, deludente perché non mette capo a esiti decisionali, o perché, diremmo, chiede e suggerisce, in modi spesso indeterminati, non “costruisce”. Questo elemento va certo valutato in rapporto al modo di essere delle donne e degli uomini che agiscono un determinato tempo della democrazia. Ma allora si tratta di capire come si possa, nel mondo attuale, accrescere e differenziare le forme della “partecipazione”. Il mio suggerimento è di includere, tra le tante novità che spesso sgradevolmente ci abitano, anche alcuni effetti positivi della democrazia, che ne determinano una sorta di crisi da successo. Voglio dire, anche attraverso la democrazia strati consistenti di cittadini (e a tema restano sempre le perequazioni inclusive) sono divenuti, mediamente, più colti, ricchi, adulti e capaci di articolati stili di vita. La politica democratica è rimasta indietro: i suoi riti, sempre più privi di mito, appaiono di norma troppo semplici e datati, anche se spettacolarizzati, più o meno prevedibili e previamente introiettati.  Il corrispettivo di ciò è la tendenza dei partiti a rifuggire da una sempre maggior complessa società civile (che non è solo facciata), facendosi sempre più “stato”; per certi aspetti, la politica stessa sembra avviata a diventare peculiare “sistema” di governance, con i cittadini prima come tassa d’ingresso, poi come “ambiente”.
In gioco vi è dunque la natura, la qualità, le opportunità, la mentalità e le forme di vita degli uomini e delle donne che oggi costituiscono gli attori orizzontali della democrazia. E il problema è come far rifluire questa maturità individualizzata, capace di costruire ricche e molteplici forme di vita, in un ambito sociale e anche politico. Ora, vi sono già oggi, e in numero tale da riuscire sorprendente e spesso misconosciuto, forme varie e fattive di individualità-sociale – movimenti, iniziative civiche, libero associazionismo civile, valorizzazione di forme di vita, apprendimento del microfare sociale per scopi definiti, volontariato, ecc. – che meritano di essere conosciute, valorizzate, protette giuridicamente e politicamente. Si potrebbe partire di qui, per far crescere un’importante riserva di ethos democratico, al tempo stesso cooperativo e conflittuale. Ma senza nessuna retorica di improbabili rovesciamenti. Il cammino è difficile e ognuno deve fare la sua parte, comprese le forme proprie e tradizionali della democrazia, per garantire un quadro di eguale e solidale eguaglianza, dove ognuno sia in grado di sviluppare e realizzare le proprie capacità. 

Nelle società attuali - ridefinite post-secolari in riferimento al nuovo protagonismo pubblico delle religioni - il dibattito culturale sembra spesso arenarsi nell’alternativa tra un nuovo integrismo religioso, tanto islamico quanto cattolico, ed un concetto di laicità che fa difficoltà ad offrire orizzonti valoriali propri, rischiando di ridursi ad una mera difesa delle procedure dello Stato di diritto dall’ingerenza delle istituzioni religiose. Da dove ripartire per ricostituire un concetto positivo di laicità, e un ambito reale di incontro e dialogo tra atei e credenti?

La laicità e i problemi che vi si connettono sono già diventati, e ancor più diventeranno, uno spinoso problema della convivenza democratica, civile e politica. Appena venti o trent’anni fa, la questione poteva sembrare non già risolta, ma impostata e piuttosto assestata su linee di discussioni intellettuali che, incontrandosi anche con un diffuso senso comune, sembravano promettere, in tema di laicità, più ampia pacificazione. Penso, per un solo esempio, alla diagnosi ottimistica stilata da uno studioso di orientamento cattolico, E. Poulat, nel 1987: fine essenziale del dibattito di cristianesimo e laicità, moderno riconoscimento dell’impossibilità di pervenire a una società unidimensionale di tutti credenti o di tutti atei, relazioni istituzionali stabilite su base laica (Liberté et laicité. La guerre des deux France et le principe de la modernité ).
Ritengo che dovrebbe essere studiato quando e come tale quadro sia venuto mutando, o perché vecchie questioni sono tornate a riproporsi con crudezza. Tra i motivi o gli esiti, comunque, mi sembra vi siano, detto un po’ alla rinfusa, questi: difficoltà nella definizione stessa del termine o lotta per impossessarsene (quasi nessuno più vuol dirsi non-laico); tra i cattolici, progressiva revoca del Concilio Vaticano II; effetti della globalizzazione e risposte in termini di chiusura tradizionalistica; accelerazione delle migrazioni e del pluralismo religioso; emergenza del fondamentalismo armato a sfondo islamico e di repliche dell’integrismo cristiano; ripensamento dello spazio pubblico delle religioni; povertà dileguante della consapevolezza dei “laici” in sede istituzionale, democratica e culturale, comprovata dalla  percezione da parte delle chiese di poter occupare uno spazio vuoto di senso, in ambito morale e politico. I punti su cui bisognerebbe lavorare, confrontarsi e reagire sono molti. Schematicamente, entro una rinnovata definizione della laicità, mi pare convenga disaggregare il problema in questi ambiti: identità e integrità personale; relazioni e convivenza plurale di credenti/diversamente credenti/atei; rapporto con le istituzioni democratiche; dialogo interreligioso.
Circa la definizione della laicità, comprensiva di molti nuovi problemi, si richiama qui solo l’esclusione di un atteggiamento sacrale-integrista e una laicità come potenziale patrimonio comune di tutti, nel verso di  un’accresciuta libertà delle coscienze nella loro capacità cognitiva e critica, interpretativa e comunicativa. C’è oggi un rilevante consenso intorno ai termini di una connotazione “universale” della laicità, che concerna tutti e non sia una proprietà esclusiva di alcuno. Il problema è certo difficile, da argomentare, ma si pensi solo alla tragedia di una società composta di fedi contrapposte e militanti, dell’assolutizzazione delle credenze, o alla prospettiva di una società monocorde, sgradevolmente unificatrice, dove forse nessuno vorrebbe vivere. Questo richiama naturalmente la questione dell’integrità della persona e delle sue convinzioni (un punto su cui la generosa proposta di Rawls sul consenso per intersezione non sembra purtroppo avere molta corda). La tesi, che a mio parere sarebbe da svolgere, sostiene che la laicità sia in realtà un affinamento della moderna coscienza di ognuno, una sorta di terapia per la buona cura del sé, purificata da interni dissidi, e persino un modo più ricco di vivere la purezza delle fedi religiose Non luogo di neutralizzazione indifferente e passivo, la laicità dovrebbe essere pensata come riflessiva capacità di liberazione e di  mobilitazione di energie.
Nell’ambito intersoggettivo e sociale, la comune laicità sembra aprire il campo alla bellezza delle diversità e della pluralità: si crede o non si crede in molti modi, con molte risposte di senso, molti sguardi su di sé e sul mondo, entro la specificità delle singole biografie; semmai, il tempo che viviamo dovrebbe spingere a una più aperta e comunicativa espressione dei propri vissuti, senza coprirsi con minimali prospettive ancestrali, naturalistiche ed etico-sacrali. In sede pubblica, l’agire democratico è costitutivamente intrecciato alla laicità, mentre non si vede in quale altro modo possa mantenersi una pacifica convivenza, rispettosa di tutte le opinioni e le fedi. La protezione, di necessità neutrale, delle istituzioni è un bene irrinunciabile, che tocca veramente tutti. Il gran parlare che oggi si fa del trapasso da una religione vissuta nel privato a una religione aperta allo spazio pubblico, mi riesce francamente incomprensibile. Nella democrazia matura, non mi pare affatto che vi siano oppressioni e censure circa il libero concorrere delle chiese, entro la società civile, alla espressione di indirizzi, esigenze e domande. Il punto è dove si vuol arrivare, e quale sia il tipo di società che per questa via si desidera istaurare.
Circa il dialogo interreligioso, infine, mi limito solo a ricordare l’imponente lavoro di ricerca venticinquennale che H. Küng ha svolto, con rispetto e senso critico, sulle religioni abramitiche, fino all’ultimo libro sull’Islam, all’insegna del motto: “non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni”. Vi si trovano importanti spunti sui modi di pensare e vivere una religiosità laica e “illuminata”. In particolare, si auspica, ma col conforto già di molte realtà in atto, una “interpretazione responsabile e pluralistica del Corano”, perché la rivelazione, fuori dalla sacralità assoluta e dalle formule “fisse e letterali”, è parola di Dio, manifestata al Profeta, agita dalle parole degli uomini; la religione non è una “disputa legale” ma “eredità spirituale”, che chiama in causa un’interpretazione dell’intero testo sacro “secondo categoriespirituali e intellettuali”. La speranzaprincipale di pacificazione sembra consistere così non tanto in modelli estranei di modernizzazione e secolarizzazione ma nell’assecondare, con il reciproco ascolto, le isole consapevoli di più affinata religiosità islamica.


PUBBLICATO IL : 17-02-2008


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