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Enzo Paci: le due stagioni dell’impegno
di Amedeo Vigorelli

Prima pagina:

L’itinerario filosofico di Enzo Paci si presta particolarmente ad alcune riflessioni sulla controversa nozione dell’impegno degli intellettuali. Applicare al filosofo l’epiteto (compromesso con una impura prassi storica) di ‘intellettuale’ è operazione delicata e in sé discutibile. Nel caso di Paci, essa appare legittimata, non solo dal riconosciuto ruolo pubblico e ‘militante’ assunto (non solo in ultimo) dal suo magistero universitario; ma specialmente dalla lucida consapevolezza, sempre dichiarata dall’autore, di voler attingere, nella propria ‘impura’ teoresi, alle espressioni artistiche, letterarie, poetiche, musicali, più rappresentative del proprio tempo storico. Da questo punto di vista, un libro come Esistenza e immagine è, tra quelli di Paci, uno dei più rivelatori. L’impegno di Paci conobbe due stagioni, nettamente distinte e contrapposte: gli anni Trenta, quelli della maturazione dell’esistenzialismo positivo, sfociati nella collaborazione con la rivista “Primato” di Giuseppe Bottai; gli anni Cinquanta, aperti dalla fondazione della rivista “aut aut” e culminati nella rinascita della fenomenologia husserliana. In entrambe le fasi, Paci tentò di ‘influenzare la filosofia italiana’ (e, per suo tramite, l’intera cultura), avendo nello sfondo i grandi modelli novecenteschi di engagement, di quelli che un tempo si erano chiamati ‘chierici’: da Julien Benda a Maurice Merleau-Ponty e a Jean-Paul Sartre; da Benedetto Croce ad Antonio Banfi; da Edmund Husserl a Thomas Mann. Applicando l’immagine con cui Norberto Bobbio, nella sua Autobiografia, ha caratterizzato la ‘generazione littoria’ (cui appartennero entrambi), si potrebbe parlare, anche per Paci, di una “vita divisa in due parti” – inautentica l’una e l’altra “autentica” – segnate dalla linea di frattura della guerra mondiale. Ma (va subito aggiunto), il caso di Enzo Paci ha tratti peculiari – che ne accrescono, anziché limitarne, l’interesse storico – nel panorama abitato da quegli intellettuali, che qualcuno – con ironia un po’ impertinente – ha bollato come uomini “che vissero due volte”.

La personalità complessa e, per dir così, ‘stratificata’ di Enzo Paci (tratto che non sorprende del tutto, in un filosofo) non si lascia esaurire da alcuno degli stereotipi storiografici che si sono succeduti nel tempo, nel tentativo di afferrare quel fenomeno sfuggente che si è definito come ‘cultura fascista’. Non certo quello, a lungo dominante nella vulgata dell’antifascismo, della ‘barbarie’ del regime mussoliniano, cui non doveva essere concessa nessun giustificazione di dignità culturale. Ma neppure quello che ne ha rappresentato il semplice rovesciamento, e che ha finito per annettere a una indifferenziata ‘cultura fascista’, tutto ciò che si muoveva sotto l’egida imperativa dello stato totalitario. Né l’abito del ‘nicodemita’: della nascosta propensione all’antifascismo, ammantata di ‘onesta dissimulazione’; né quello del fascista ‘in buona fede’, che la giovanile esuberanza spingeva verso un ‘attivismo’ generoso, spontaneamente incline alla ‘fronda’ anticonformistica, si attagliano al riflessivo e precocemente maturo filosofo di Monterado. Le sue scelte, ispirate se mai ad un ‘cinico’ disincanto – dalla partecipazione alla guerra di Etiopia, come volontario del “Battaglione Universitario Curtatone e Montanara”, a quella, segnalata, ai Littoriali della cultura; dalla collaborazione a “Primato”, alla condivisione della Carta della scuola emanata da Bottai, nei primi anni di insegnamento liceale a Padova – erano già filtrate dalla precoce disillusione, per il fallimento della gobettiana ‘rivoluzione liberale’, e di Gobetti inveravano la cupa profezia di un regime ‘ventennale’, che avrebbe rappresentato la ‘autobiografia della nazione’. Ma neppure lo stereotipo dell’odierno revisionismo storico: quello dell’intellettuale ‘redento’, rapido a trasmigrare da un fronte culturale a quello opposto, sotto la lungimirante ala protettiva del ‘partito nuovo’ togliattiano, si adatta al caso di Paci. La sua scelta, nel 1946, si porrà di nuovo in antitesi con quella del maestro Antonio Banfi (che appunto a quel ‘passaggio del Rubicone’ lo esortava), e sarà piuttosto improntata a una volontaria ‘espiazione’: quella del ritorno agli studi e del volontario silenzio.

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PUBBLICATO IL : 30-04-2006
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