Sommario: Prendendo spunto dalla pubblicazione del volume di Aldo Ricci e Giuseppe Bongiorno, Lucio Colletti. Scienza e libertà (Ideazione, 2004), Tito Magri, che negli anni Settanta è stato allievo e collaboratore di Lucio Colletti, e attualmente ordinario di Filosofia Teoretica all’Università di Roma La Sapienza, esamina alcuni aspetti del pensiero del filosofo romano e ne traccia un profilo. Gli argomenti toccati nella discussione sono: la situazione culturale in Italia nel dopoguerra, l’analisi che Colletti ha fatto della dialettica e la sua coniugazione con la teoria politica, la personalità intellettuale del filosofo e le sue scelte politiche. L’intervista non si limita alla rievocazione, ma tenta, con gli strumenti della filosofia analitica, di ragionare alcune movenze della dialettica. |
Prima pagina: Pietroforte. Professor Magri, Lei è titolare di filosofia teoretica all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e, negli anni della Sua formazione universitaria, è stato allievo di Lucio Colletti e suo collaboratore nell’attività didattica. Nel 2004 è stato pubblicato un libro su Lucio Colletti che ne ricostruisce il profilo sia come intellettuale che come filosofo: Buongiorno P.-Ricci A. G., Lucio Colletti. Scienza e libertà (Ideazione). Lei ha letto questo libro? Ne ha ricavato un’impressione personale?
Magri. La cosa che colpisce leggendo il libro di Pino Buongiorno e Aldo Ricci, proprio a partire dalla ricca messe di citazioni dai lavori noti e meno noti di Colletti, in particolare dai lavori giovanili (quelli tra la fine degli anni Quaranta fino a tutti gli anni Cinquanta), la cosa che colpisce –dicevo- guardando indietro dopo tanti anni, è l’ambiente avverso in cui Colletti si formò e operò come filosofo. Che la ricerca filosofica in Italia né allora né, probabilmente, mai abbia avuto un qualche titolo d’egemonia, è cosa nota. Lo ricordava anche Croce. Ma che fosse così scarso il nutrimento che si poteva ricavare dalla discussione, dalla produzione filosofica italiana di quegli anni è cosa che lascia veramente sorpresi. Certo oggi non è che le cose vadano meglio, tranne che su un piano, il piano dell’informazione, del contatto con gli ambienti in cui si fa una ricerca filosofica più avanzata.
Pietroforte. A quali anni, a quale epoca propriamente si riferisce?
Magri. Parlo essenzialmente degli anni Cinquanta. Ho conosciuto Colletti come un uomo che aveva un’ansia e un bisogno quasi fisico di chiarezza ed analiticità. È impressionante, invece, vedere come nei suoi scritti di quegli anni si trovino inanellate metafore su metafore. A volte per cogliere il suo pensiero occorre un supplemento d’interpretazione, bisogna andare al di là di quella specie di crittografia intellettuale entro cui Colletti era formato e che aveva allora come unica forma espressiva e come unico tramite di riflessione. La stessa cosa si può dire per Della Volpe, aggiungendo però che Della Volpe avanza una proposta filosofica meno importante, meno interessante di quella di Colletti. Ma dopo aver premesso come sia sorprendente constatare quanto fosse avverso l’ambiente in cui Colletti si è formato come filosofo, vorrei sottolineare quanto, nonostante ciò, sia stato bravo e grande come filosofo. Mi concentrerò su quello che considero il momento culminante della sua carriera filosofica, il momento di riflessione che va da Il marxismo e Hegel, pubblicato nel 1969 (in particolar modo farò riferimento agli ultimi tre capitoli) alla famosa Intervista politico-filosofica del 1974 e al ben più importante saggio Marxismo e dialettica sempre del 1974 e pubblicato insieme all’Intervista (le tesi del saggio furono messe a punto da Colletti in altri lavori, nel corso degli anni ’70), quindi un periodo di 5 o 6 anni nel quale Colletti ha compiuto, secondo me, un’operazione filosofica di grande importanza, non solo per i risultati concreti in termini di critica di quella che allora era (non soltanto in Italia) una delle filosofie dominanti, cioè del marxismo, ma anche per il suo interesse e la sua bellezza come mossa filosofica. |