Prima pagina: Pietroforte: Prof. Trincia, nel Suo lavoro di filosofo lo studio della psicoanalisi ha un posto importante: Lei ha scritto Il Dio di Freud, uscito nel ’92, Freud e il Mosè di Michelangelo, pubblicato nel 2000, e tra poco sarà pubblicato dalla Morcelliana un volume intitolato Husserl, Freud e il problema dell’inconscio. Vorrei cercare di capire insieme a Lei se tra psicoanalisi e filosofia debba esserci un rapporto e quale possa essere. Un Suo articolo, apparso nel numero di luglio-agosto 2006 di “Reset”, dedicato proprio a questa questione, era intitolato: Un dialogo da riallacciare. Ma possono davvero filosofia e psicoanalisi dialogare? Dobbiamo figurarcele come due personaggi in grado di parlare una lingua comune, oppure dobbiamo immaginare la scena come quella di certi dialoghi platonici in cui uno dei due attori tiene in mano il bandolo della matassa e parla, mentre l’altro si configura come una semplice sponda che consente al primo di svolgere il suo discorso? Quale lingua potrebbe essere comune ad entrambe? Se filosofia e psicoanalisi possono davvero dialogare, quali sono le condizioni teoriche del loro confronto?
Trincia: Filosofia e psicoanalisi hanno dialogato, questa è la prima cosa che si deve dire. A partire naturalmente dalla riflessione che Freud ha fatto per costruire la sua metapsicologia e a partire dal suo lavoro di medico. Non bisogna mai dimenticare che Freud era un medico che si preoccupava di curare come medico le sofferenze psichiche dei malati che incontrava in ospedale all’inizio e in seguito nel suo studio. Fin dall’inizio Freud ha saputo quello che peraltro era in seguito evidente agli occhi di una persona della sua formazione (egli aveva avuto una formazione di tipo medico ma anche umanistico, oltre che ampiamente letterario), e cioè che parlare dei problemi della psiche significava parlare di quello che in filosofia si chiama “anima” e che dunque parlare dei problemi della psiche normale e malata, ricavare dai problemi della psiche sofferente e malata la struttura generale della psiche, significava riprendere il problema al centro della grande riflessione filosofica sull’anima, o sul soggetto umano fornito di un corpo e di un’anima. Forse questa è la prima cosa che bisognerebbe ricordare: Freud ha pensato il proprio lavoro, ha realizzato il proprio lavoro di pensatore dall’interno della propria attività clinica, come un lavoro nel quale (lo dice lui alla fine della sua vita, nel poscritto all’Autobiografia scritto nel ’35) la componente scientifica e la componente filosofica sono fortemente collegate. Sono a tal punto collegate che Freud, compiendo un’operazione di ricostruzione del suo passato che potremmo definire benevolmente falsificante, ha persino scritto che alla fine egli sentiva di tornare a quella filosofia, o meglio a quel pensiero (la parola filosofia non appare neanche in quest’ultimo scritto del ’35) che insieme con i motivi legati alla ricerca sulla cultura, sulla vicenda culturale del genere umano, ha costituito il suo primo interesse. |