Sommario: A cinque anni dalla sua scomparsa, il contributo ripercorre alcuni saggi danteschi di Maria Corti dedicati al Convivio, mettendone in luce i presupposti esegetici e soffermandosi su alcuni nodi centrali dell’analisi della studiosa, dal tema della felicità mentale a quello del rapporto tra filosofia e teologia in Dante. |
Prima pagina: A cinque anni dalla scomparsa di Maria Corti, si può tentare ormai di volgere uno sguardo d’insieme alle ricerche dedicate dalla studiosa al Convivio dantesco, in considerazione della fortuna che molte delle tesi che vi sono esposte hanno incontrato presso studiosi di varia formazione e nazionalità.
Sarebbe interessante soffermarsi su ognuno degli Scritti su Cavalcanti e Dante (d’ora in poi: Scritti), che raccolgono il lascito della Corti in materia dantesca, ma soltanto ad alcuni di essi, necessariamente, potrà in questa sede concedersi il tempo di un’adeguata riflessione. Privilegiando, tra i contributi inclusi nella raccolta - La felicità mentale, Percorsi dell’invenzione e altra varia saggistica d’occasione -, il primo di essi, La felicità mentale, originariamente apparso presso Einaudi nel 1983. Non solo perché è il libro che ha conosciuto una più ampia Wirkunggeschichte (la «felicità mentale» del titolo è stata ormai assunta – si pensi agli studi di Luca Bianchi e di Alain De Libera sull’aristotelismo latino del XIII secolo -, come una categoria storiografica), ma anche per la ragione, meno estrinseca, che in esso, con maggiore chiarezza che negli altri scritti, emergono le coordinate essenziali dell’interpretazione che la Corti ha fornito del pensiero di Dante. Proprio dall’analisi di questo punto muoveranno le nostre considerazioni.
Giace, al fondo dell’esegesi dantesca di Maria Corti, la stessa idea che, formulata dal Pietrobono già a partire dal 1915, aspramente divise le opinioni di costui da quelle di Michele Barbi. L’idea, ovvero, che nel pensiero di Dante ad una fase di «razionalismo», seguita alla morte di Beatrice e culminata con la stesura del Convivio, sia poi succeduta, con la Commedia, una fase radicalmente diversa, la quale, caratterizzandosi nel segno del ritorno all’«ortodossia religiosa» (si prescinda per ora dall’opportunità, sul piano storico, di tale categoria), avrebbe riaffermato, contro le tesi professate nel trattato volgare, la superiorità del sapere teologico (Beatrice) sul sapere filosofico (Virgilio). E se in qualcosa diversa da quella del Pietrobono appare la tesi generale della Corti, è nel grado di elaborazione concettuale cui la tesi medesima è sottoposta, non in altro, che tale differenza deve essere rinvenuta ed osservata. Ché l’interpretazione del Pietrobono si determinò e si svolse nell’ambito di una concezione dell’evoluzione interna al pensiero dantesco al tal punto coerente e coesa, da conferire ad ogni momento dell’opera di Dante la sua esatta posizione in rapporto allo schema esegetico proposto, là dove nella Corti, se delineati in modo nitido sono i due estremi entro i quali la studiosa suppone che il pensiero dantesco abbia svolto e consumato la sua parabola - l’aristotelismo radicale e l’averroismo da una parte, il tomismo dall’altra -, non di meno sfocati e come inerti rispetto alla tesi generale restano i singoli momenti nei quali la parabola, svolgendosi, avrebbe composto il suo disegno. |