Ottimismo e pensiero tragico |
di Andrea Bellocci
| Sommario: Il presente contributo vuol essere, innanzitutto, una radicale messa in discussione della tesi avanzata da Salvatore Natoli nel suo ultimo volume “Sul male assoluto – nichilismo e idoli nel Novecento”: la locuzione “male assoluto” nasce, com’è noto, ad Auschwitz, e con essa si indica perlopiù la comparsa di un male ormai inesorabilmente eccedente e resistente a qualunque tentativo di spiegazione; ebbene, Natoli tenta di demitizzarne il concetto, rintracciandone l’origine in un “evento mentale”, ovvero nella proiezione ed esternalizzazione del male che il singolo (o gruppo) compie sul capro espiatorio; il singolo, ora preservato nella sua purezza, si presenta egli stesso come il “bene assoluto”, mentre il capro espiatorio, che altro non è se non il “nemico assoluto”, viene pensato e nominato come “male assoluto”, da distruggere e sradicare. Questo tentativo di demitizzazione fallisce il bersaglio: in primo luogo, il fenomeno della proiezione (evidentemente ispirato alle tesi di Renè Girard) non dice ancora nulla circa l’essenza di quel male (di cui lo stesso Natoli peraltro ammette l’esistenza) che è in me, originariamente, prima dunque d’ogni proiezione, la quale, anziché ambire ad essere principio di spiegazione e genesi del male, si pone evidentemente come successiva e secondaria; in secondo luogo l’assolutezza del male sembra essere negata da Natoli in un altro senso ancora, ovvero che il male possa essere voluto per se stesso, e qui l’autore ricade inevitabilmente nella più tipica forma di intellettualismo etico. Si impongono di necessità due brevi riferimenti: ad Hannah Arendt, innanzitutto, richiamata da Natoli come mera conferma del fatto che il male è e può essere sempre e soltanto “banale”; la prospettiva di Arendt sulla banalità del male, ciò in accordo con buona parte della letteratura critica recente, può essere tuttavia interpretata come un approfondimento, sia pur in un’altra angolatura, della tesi precedentemente espressa sulla sua radicalità e assolutezza; in secondo luogo ad Hans Jonas, anch’egli, come Natoli, alle prese con l’argumentum Epicurei; ed infatti, se Natoli liquida piuttosto sbrigativamente in nesso male – Dio sostenendo che Dio, messo di fronte al male, non può che uscirne indebolito o perverso, Jonas non esita a sacrificare l’attributo dell’onnipotenza divina.
Che il male non possa essere pensato senza Dio è tesi sostenuta anche da Luigi Pareyson nell’ “Ontologia della libertà”: in questo caso, tuttavia, non solo i tradizionali attributi dell’onnipotenza, bontà e comprensibilità vengono ad essere annullati nell’abisso della libertà divina, ma la stessa origine del male, di cui viene affermato il carattere di realtà positiva, libera, spirituale, viene fatta risalire a Dio: l’inizio, configurato quale vera e propria alternativa, ovvero come scelta, implica infatti necessariamente un contatto col “nulla”, che viene a costituire in tal modo il versante meontologico dell’autogenesi divina.
Il male si configura come possibilità già sempre scartata, ma istituita proprio tramite il suo rifiuto.
Infine è da mettere in luce come a monte del “discorso temerario” sul male in Dio non ci siano soltanto, come generalmente affermato dagli interpreti, le “Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana” di Schelling, ma anche, e soprattutto, le riflessioni condotte da Karl Barth sulla “mano sinistra” di Dio in “Dio e il Niente”: per entrambi i pensatori il male va pensato come alternativa scartata da Dio, ma istituita proprio tramite il suo rifiuto. Il riferimento a Pareyson è davvero paradigmatico: forse il male trova una sua più adeguata, spiazzante, tragica collocazione proprio nel pensiero tragico, che non esita a portare il conflitto e la negazione nel cuore stesso di Dio. In quest’ottica di pensiero, che supera di colpo l’alternativa tra teodicea ed ateismo come movimenti specularmene opposti ed unilaterali, il male, di certo, conserva tutto il suo carattere di eccedenza e scandalosità: alla luce del pensiero tragico i vari tentativi di demitizzazione, tra cui rientra a pieno titolo quello operato da Natoli, si rivelano vere e proprie strategie di minimizzazione ed edulcorazione del male. | Prima pagina: L’intento principale di Salvatore Natoli, nel suo ultimo volume “Sul male assoluto – nichilismo e idoli nel Novecento ”, è quello di mettere a fuoco l’ineludibile concetto di male, in ispecie il “male assoluto”. Ineludibile, si è detto, poiché, come afferma da subito l’autore, il male «è una questione decisiva per ogni filosofia, ne mette alla prova la verità»; e, occorre aggiungere, della massima urgenza, se, come viene ribadito poco avanti : «Il Novecento è stato il secolo di “Auschwitz” (…) E non è detto che Auschwitz sia il peggio perchè il Novecento ha inaugurato una sperimentazione dell’uomo sull’uomo come mai nella storia precedente dell’umanità. E non siamo che all’inizio». È necessario tuttavia, ai fini di un’adeguata comprensione del concetto di male, ovverosia in ordine alla sua pensabilità e realtà effettiva, «demitizzare il concetto di male assoluto». La formula “male assoluto”, specifica l’autore, allude a qualcosa di incontenibile, tragico, indominabile, ed è nata in riferimento proprio a quell’evento storico, Auschwitz, che più di tutti è divenuto emblema di un male disarmante, eccedente e resistente ormai a qualunque forma di spiegazione, un male per l'appunto “inspiegabile”.
Se del male circolante nel mondo, quello cosiddetto “relativo”, sottolinea Natoli, si possono trovare infatti delle “ragioni”, dinanzi al male assoluto la ragione si è trovata del tutto disarmata e impotente, tale l’orrore, l’abiezione a cui si era giunti: il misconoscimento, o meglio, la negazione dell’umanità : «disonorare il soggetto nel senso di negargli interamente l’umanità», questo è per l'appunto il male assoluto. Sennonché Natoli, con una brusca virata del discorso sin qui condotto, nega tuttavia che possa esistere “realmente” il male assoluto: assolutezza è attributo, infatti, che inerisce a un principio che esiste di per sé; il male, invece, «è certo potenza attiva ma non è principio, non esiste per sé e per esistere ha sempre bisogno di un bene da distuggere»; inoltre «se il male assoluto fosse davvero assoluto il mondo sarebbe già da tempo perito»; invece l’essere, l’esistenza, che è «potenza che è bene», ed è ciò contro cui si scaglia il male, ed entro cui si definisce il suo orizzonte, permane, resiste, né può essere abbattuto. A conferma di questa tesi Natoli si interroga sul fenomeno della “dissimulazione”: chi compie il male, cioè, non lo dichiara, ma si copre, si nasconde; questo avviene non tanto per vergogna, specifica l’autore, quanto per la consapevolezza, più o meno sentita, ma comunque presente, di muoversi entro un orizzonte di deformità, bruttezza, di negatività insomma. Questo fenomeno attesta, secondo Natoli, che in realtà l’uomo tende naturalmente al bene, alla pace, anche se quest’inclinazione è in parte e sovente oscurata da quel nucleo egoistico che va sotto il nome di “amore di sé”: «il fatto che la guerra debba essere giustificata, mostra fondamentalmente che essa non è voluta».
Il “paradosso” del male assoluto, nota a questo punto l’autore, è quello di essersi sempre presentato nella forma del bene, o meglio, del “bene assoluto”; la genesi del male assoluto è rintracciata da Natoli proprio in un «evento mentale»: esso «è il prodotto di una proiezione -e perfino di una dissociazione- in forza della quale gruppi sociali o individui esternalizzano il male, lo attribuiscono ad altro o ad altri fuori da sé, e inventano il nemico assoluto. Un nemico che non può essere redento, ma semplicemente distrutto (…) Se l’idea di male assoluto si genera così, si deve dire che essa è (…) il prodotto dell’ipostasi dell’assolutezza del bene». |
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