Prima pagina: D.Prof. De Luca, vorrei parlare con Lei della traduzione fatta insieme a Chiara Bemporad dei Principi di politica del 1806 di Benjamin Constant, edita da Rubettino nel 2006. E’ una pubblicazione importante per quel che riguarda la conoscenza del pensiero di Constant, quindi è importante per la storia delle dottrine politiche e, più in generale, per la filosofia politica. Nell’Introduzione Lei accenna allo scopo di questa edizione italiana, che è duplice: da una parte, far conoscere meglio Constant, dall’altra mettere a fuoco un tornante decisivo della storia del pensiero politico. Questa traduzione è importante perché rende disponibile in Italia un’opera, un documento fondamentale per la ricostruzione filologica del pensiero di Constant. Ci potrebbe dire in che modo i Principi di politica assolvono a questa funzione? Inoltre, per quali aspetti il pensiero di Constant, secondo Lei, può contribuire positivamente ad arricchire oggi il pensiero politico?
R. La prima cosa da dire è che ci troviamo di fronte alla prima traduzione italiana dei Principi di politica. Esiste un’altra opera di Constant che ha lo stesso titolo: si tratta dei Principi di politica pubblicati da Constant nel 1815 etradotti in Italia per la prima volta nel 1965 da Umberto Cerroni (e già questo è un dato significativo: bisogna arrivare al 1965 perché venga tradotto nella nostra lingua un testo di uno dei massimi pensatori del liberalismo moderno). Ma i Principi di politica del 1815 (un’agile sintesi del pensiero politico-costituzionale di Constant) hanno ben poco a che fare con i Principi di politica del 1806, che Constant terminò per l’appunto mentre era in ‘esilio’ in Svizzera e che non poté pubblicare per motivi di opportunità politica (l’opera era fortemente antinapoleonica). L’opera del 1806, che è riemersa dai manoscritti di Constant nel 1961 ed è stata pubblicata per la prima volta nel 1980, è un grande trattato sistematico di filosofia politica, il vero e proprio opus magnum di Constant.
D. Non è facile orientarsi nella produzione constantiana, tra opere edite e inedite..
R. Sì, non è facile. Si tratta di una storia complessa, fortemente intrecciata alle vicende storiche del suo tempo, ma anche molto interessante. L’elaborazione del pensiero politico di Constant può essere scandita in tre fasi, che non a caso corrispondono a tre grandi periodi storici: il periodo termidoriano-direttoriale, l’epoca napoleonica e l’età della Restaurazione. Constant, che giunge a Parigi nel 1795, partecipa in prima persona alla tormentata vicenda del Direttorio, insieme a Madame De Staël (figlia di Jacques Necker, ultimo primo ministro liberale di Luigi XVI: entrambi sono nati in Svizzera e si sono conosciuti nel castello di Coppet nel 1794). Tanto Furet quanto Lefebvre, due storici che offrono letture per molti aspetti opposte della Rivoluzione francese, riconoscono in lui e in Madame De Staël gli intellettuali termidoriani per eccellenza, cioè coloro che si battono per distinguere la Rivoluzione dal Terrore, per salvare l’89 dal ‘94. Il giovane Constant scrive tra il 1795 e il 1799 dei brillanti pamphlets d’intonazione repubblicana e filo-rivoluzionaria: il suo scopo è riportare la rivoluzione nell’alveo dell’89, dopo il dérapage terroristico del periodo giacobino, e a tempo stesso tutelarne le conquiste contro le tendenze controrivoluzionarie sempre più forti nell’opinione pubblica. Sul finire dell’età direttoriale, dopo il colpo di Stato napoleonico, Constant entrerà a far parte del Tribunato, dal quale verrà espulso dopo due anni perché sarà uno dei pochi a fare opposizione al crescente dispotismo di Bonaparte. Espulso dal Tribunato, costretto ad una sorta di esilio nella natìa Svizzera, Constant si trova – a soli 35 anni – con un brillante passato alle spalle e nessuna prospettiva di fronte a sé. Egli si dedica allora alla stesura di quell’opera complessiva sui principi di politica che aveva sempre annunciato nei pamphlets del periodo direttoriale, ma alla quale non si era potuto dedicare perché l’urgenza della lotta politica non lo permetteva. Durante il Direttorio c’era sempre un’elezione incombente (si votava una volta all’anno), nella quale la sopravvivenza della repubblica o della libertà era in pericolo a causa dei controrivoluzionari o dei giacobini; c’era sempre un argomento sul quale intervenire, ad esempio un pericoloso elogio del Terrore fatto da uno scrittore filorepubblicano: in questo contesto Constant incarnò il prototipo dell’intellettuale militante, che interviene a caldo sulle questioni politiche urgenti, cercando sempre di raccordare i principi alle circostanze. La sua non era una riflessione accademica o dottrinaria, anche se questi pamphlets (che negli anni Ottanta del Novecento sono stati rivalutati da Furet e Gauchet) contengono importanti riflessioni politiche, ovviamente non di tipo sistematico. Negli anni dell’esilio (cioè dal 1802 in poi) Constant può invece dedicarsi ad una riflessione sistematica sui princìpi della politica alla luce del terremoto rivoluzionario e dei suoi esiti inaspettati. E’ il ‘mistero’ del 1789, di questa rivoluzione fatta per conquistare i diritti di libertà e che diede luogo dapprima alla dittatura giacobina, cioè alla prima dittatura assembleare della storia (con il connesso fenomeno del Terrore), e infine al cesarismo napoleonico (annunciando in tal modo le nuove forme di dispotismo del XX secolo). La Rivoluzione francese è un po’ il crogiolo della nostra identità politico-istituzionale, per lo meno sul continente europeo: in pochi anni vengono sperimentate per la prima volta forme istituzionali, linguaggi politici e anche nuove forme di dispotismo. Boissy d’Anglas disse, nel 1795: abbiamo alle spalle sei anni che sembrano sei secoli. Quelle nuove forme di dispotismo si riveleranno, peraltro, più pericolose di quelle ante-1789, perché la loro novità è il richiamo (strumentale) alla sovranità popolare. Tanto i giacobini (che si autoproclamano interpreti autentici della volontà del popolo), quanto Bonaparte (con i suoi plebisciti) fanno appello al consenso, quindi a un principio che ovviamente non faceva parte dell’armamentario dell’ancien régime. Ora, Constant ha vissuto in prima persona questa straordinaria esperienza, questo terremoto che ha completamente alterato i dati del problema politico, e comprende che è necessaria una riflessione sistematica alla luce di questa ‘accelerazione’ che ha improvvisamente ‘invecchiato’ le riflessioni di Rousseau e di Montesquieu (ossia, dei massimi pensatori politici del Settecento).
Si dedica quindi alla stesura di questo grande trattato, che doveva avere (come lui stesso racconta) una parte dedicata ai principi politici e una parte dedicata ai mezzi costituzionali. Lo termina nel 1803, ma lo mette nel cassetto perché i riferimenti antinapoleonici (l’anno prima Napoleone lo aveva espulso dal Tribunato) non gli permettono di pubblicarlo. Tre anni dopo, però, nel 1806, lo ritira fuori dal cassetto, perché è apparso un pamphlet controrivoluzionario (di un certo conte Molé) che lo irrita particolarmente. Constant vuole replicare a questo pamphlet e pensa di estrarre dal suo trattato del 1803 un’operetta polemica, utilizzandone alcune parti. Questo ‘estratto’ – nell’arco di nove mesi – lievita sino a diventare un grande trattato autonomo, articolato in 18 libri, 131 capitoli, più una serie di corpose ‘aggiunte’. Si tratta di un’opera sistematica, nella quale Constant affronta tutti gli snodi della teoria politica: il problema della sovranità, il rapporto tra autorità e libertà, i diritti civili e politici, le tematiche economiche e fiscali (è un’attenzione senza precedenti, nel pensiero politico: un quarto di quest’opera è dedicato alla riflessione sui problemi economici e fiscali: Constant conosce di prima mano Adam Smith, Say, Stewart, gli economisti scozzesi, si serve di documenti sull’economia dello Stato francese, di analisi sui neonati Stati Uniti d’America). In esso troviamo anche tutta la tematica della differenza tra libertà degli antichi e libertà dei moderni, che nel 1819 Constant si limiterà a riprendere nella sua opera più nota, il Discorso sulla libertà degli antichi e dei moderni (questa celeberrima differenza deve molto, peraltro, a Madame de Staël, che nel 1798 scrisse un’opera di straordinario interesse – il Des circonstances actuelles, anch’esso rimasto inedito per quasi due secoli – alla quale Constant probabilmente collaborò e di cui si fece una copia parziale: lì troviamo la prima formulazione della distinzione tra libertà antica e moderna).
Nell’ottobre del 1806 i Principi di politica sono finiti, ma anche stavolta Constant non può pubblicarli, perché attirerebbe su di sé i fulmini di Bonaparte. Ancora una volta, quindi, l’opera finisce nel cassetto, dove rimarrà per un secolo e mezzo. Alcuni si sono chiesti perché non l’abbia pubblicata quando Bonaparte uscì di scena e perché, invece, abbia pubblicato altre opere, spesso nella forma del pamphlet o del saggio breve. In questa scelta emerge, a mio parere, un tratto tipicamente constantiano. Constant non è un dottrinario, un professore universitario alla tedesca: a lui non interessa scrivere l’opera sistematica, ma incidere nel vivo delle questioni politiche più urgenti e importanti. E allora cosa fa? Comincia a usare il suo grande trattato come un réservoir. Ne estrae le parti che gli servono sul momento. Si discute della responsabilità dei ministri, e allora lui estrae una parte del suo trattato e la pubblica sotto forma di saggio sulla responsabilità dei ministri. Insomma, Constant pubblica una serie di ‘tasselli’ della sua riflessione politica (il più famoso è il Discorso sulla libertà degli antichi e dei moderni), che ne faranno il maggiore teorico liberale dell’età della Restaurazione. Ma in realtà, tutto quello che pubblica dal 1814 al 1830 lo ‘estrae’ dai Principi di politica del 1806, che lascia inedito. Ora, così facendo Constant – se mi si perdona l’espressione – si è un po’ dato la zappa sui piedi da solo: ha infatti pubblicato prevalentemente quelle che si chiamano ‘opere di circostanza’, acute e brillanti, ma pur sempre opere di circostanza. E siccome noi siamo figli di una certa tradizione, di un certo pregiudizio per cui o c’è la grande opera sistematica o non c’è il grande pensatore, si è sempre sostenuto che Constant fosse sì un teorico molto brillante e capace di straordinarie intuizioni, ma non un grande pensatore. In realtà, le grandi opere sistematiche c’erano (i grandi trattati sono due: uno di filosofia politica, per l’appunto i Principi di politica del 1806, e l’altro di dottrina costituzionale), solo che Constant li lasciò nel cassetto. |