Gramsci e il problema della filosofia italiana (nel 70° della morte) |
di Amedeo Vigorelli
| Sommario: Il saggio di Amedeo Vigorelli affronta un tema molto dibattuto, con l’intento di riprenderlo – a 70 anni dalla morte di Antonio Gramsci – per metterlo definitivamente in chiaro. Il tema è il rapporto di Gramsci con la filosofia italiana, più precisamente con quella di Croce e Gentile, rispetto alla quale il fondatore del partito comunista italiano è stato per lo più inteso come debitore. E’ proprio l’originalità di Gramsci che Vigorelli vuole far risaltare. Il suo discorso si svolge in polemico contrappunto soprattutto con l’interpretazione che Augusto Del Noce ha dato della gramsciana “filosofia della prassi”. L’autore indica i punti nei quali Gramsci si distingue da Gentile e da Croce e, dopo aver rimarcato la differenza, più brevemente riferisce la pars construens della sua filosofia, contenuta nell’undicesimo Quaderno e riguardante la natura e funzione del linguaggio e il rapporto tra filosofia e senso comune. Il lavoro di Vigorelli ha di mira la delineazione del profilo di Gramsci come di un «genio solitario … forse l’unico o certo il maggiore pensatore originale nel marxismo del novecento». | Prima pagina: 1. Affrontare il tema dei rapporti tra il pensiero gramsciano e la tradizione filosofica nazionale, significa essere rimandati innanzi tutto al problema del suo rapporto con il neoidealismo di Croce e Gentile. Ma – ed è il punto di vista che vorrei proporre in queste note – tale rapporto (benché a prima vista dominante) non esaurisce affatto il problema della concezione gramsciana della «filosofia» e della definizione conseguente di Gramsci come «filosofo italiano». A ben guardare, quello del debito o della «eredità» hegeliana della marxiana «filosofia della prassi» rivendicata in termini espliciti dall’estensore dei Quaderni del carcere ha finito per rivelarsi più un «pregiudizio» (quando non addirittura come un autentico «ostacolo epistemologico» per la disamina spregiudicata del contributo gramsciano al rinnovamento della filosofia italiana contemporanea) che uno strumento utile alla penetrazione ermeneutica della «novità» gramsciana. In una prima fase (quella degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta) a dominare era il rapporto con Croce, e la controversa valutazione della valenza «materialistica» o «idealistica» della proposta – contenuta nei Quaderni – dell’«Anti-Croce» quale antidoto necessario alla involuzione metafisica e positivista del marxismo e contributo dialettico al suo rinnovamento teorico [Q,1234 (q 10 § 11)]. Nella polemica tra marxisti «storicisti» e «dellavolpiani», che ebbe un peso decisivo nella maturazione di un «neomarxismo» nelle «nuove generazioni», prima ancora del problema – che appariva allora attuale – del «ritorno a Marx», a condizionare il giudizio sulla accettabilità o meno della provocazione gramsciana era la persistenza (sovente acritica) di uno scontato luogo comune storiografico, che identificava filosofia italiana con «dittatura idealistica di Croce-Gentile» sulla cultura nazionale del primo Novecento, che assumeva con tono largamente autoconsolatorio il topos banfiano del neoidealismo italiano quale sinonimo di «provincialismo» e di «arretratezza», che era disposta persino a riconoscere la «valenza filosofica» del marxismo, purché rimpannucciato in vesti accademicamente più consone: «neopositiviste», «esistenzialiste», «cristiane», e via discorrendo. La vicinanza di Gramsci a Croce, abilmente sfruttata nella politica culturale togliattiana per «traghettare» verso posizioni ideologiche non più scontatamente anticomuniste (e più «virtuosamente» antifasciste) numerosissimi intellettuali di formazione crociana o gentiliana, appariva come una riuscita operazione «egemonica», ma poteva facilmente ritorcersi sull’immagine stessa di Gramsci, nel suo ingenuo proporsi come «filosofo italiano», il cui «rovesciamento materialistico» dello hegelismo di Croce (anziché di quello originario di Hegel, su cui aveva operato la «rodente critica» di Marx ed Engels) non poteva che restituirci una versione «idealistica», «sovrastrutturale», e in definitiva anch’essa «provinciale» del marxismo. In questo giudizio liquidatorio la raffinata versione del marxismo «galileiano» di Galvano della Volpe (specialmente nella versione popolare dei suoi epigoni di destra e di sinistra: Lucio Colletti e Mario Tronti) finiva per incontrarsi con il «semplicismo» semi-tolstojano e il «marxismo letterale» di Amadeo Bordiga.
|
Continua la lettura scaricando il testo in formato PDF |
|
|
| |