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Guerra civile e storiografia
di Gennaro Sasso

Sommario: L’autore si misura con la questione del revisionismo storico discutendo il volume di Di Rienzo Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica. Si obietta a Di Rienzo che la debolezza di alcuni non può invalidare gli ideali dell’antifascismo, cioè di quella molteplicità di forze e culture che si trovò riunita a difendere, contro il regime fascista, la libertà che incarnava per esse l’idea di nazione. Questa idea, invece, era diversamente concepita da chi, come Gioacchino Volpe, ne propugnava la valenza naturalistico-vitalistica. La vicenda del grande storico, considerata alla luce delle sue convinzioni storiografiche più profonde, è più un esempio di inattualità che non di “persecuzione”.
Prima pagina: A Eugenio Di Rienzo, che ha dedicato quasi quattrocentocinquanta pagine a quel che nella storiografia italiana avvenne tra fascismo e antifascismo e, in particolar modo, nel periodo che, a partire dal 1943, arriva ai nostri giorni, occorre innanzi tutto riconoscere passione e dottrina: molta, forse troppa, passione, e molta (non troppa!) dottrina. Degli storici che ebbero il grido negli anni da lui studiati Di Rienzo ha letto, com’è ovvio, i libri, con particolare impegno, ne ha ricercate le carte, ha ricostruito i carteggi, per questa via e con questi documenti ha illuminato aspetti restati nell’ombra, o che comunque illuminati non erano stati a sufficienza. Il suo intento è stato infatti, in primo luogo, di recare un contributo decisivo alla battaglia che, a suo parere, dev’essere combattuta contro la «rimozione» che, da parte di molti, è stata fatta del passato, che pure era il loro e tutti li avvolgeva; nel quale si erano formati e che avevano collaborato, ciascuno con le sue forze, a costituire. Il passato, insomma, del quale erano coautori, e responsabili. Intento da condividere: anche se il risultato conseguito possa e debba essere discusso. È perciò, con qualche preliminare avvertimento, che Di Rienzo forse condividerà nella formulazione generale, sebbene gli sia accaduto di averne deviato, e che tanto più perciò richiede di essere ribadito e reso concreto in concreti giudizi

È impossibile passare indenni attraverso una dittatura che, come quella instaurata e imposta dal fascismo, per circa vent’anni esercitò sulla vita sociale, politica, culturale un controllo poliziesco capillare e spietato. E tanto più, naturalmente, questa difficoltà fu tale per coloro che ai loro pensieri dettero forma nella scrittura; per gli intellettuali che, scrivessero di filosofia o di storia o di letteratura, si dedicassero all’invenzione narrativa o, addirittura, alla poesia, dovettero fare sempre molta attenzione a quel che scrivevano e a come lo comunicavano, mettendo in atto «tecniche » di dissimulazione e di mascheramento, e, non di rado, anche di compromesso e di implicita complicità. Della dissimulazione non ci si deve meravigliare. Del cedimento di questo o di quello non è giusto fare materia di scandalo; né sarebbe bello trarne motivo di soddisfazione. Si deve piuttosto, o si dovrebbe, tener fermo che, se la viltà a cui taluni furono costretti assume forma particolare quando a farla insorgere sia il volto minaccioso del potere tirannico, proprio per questo sarebbe ipocrisia la pretesa che quello non fosse il volto della tirannide, che frutto di immaginazione e, appunto, di viltà fossero le minacce che ne provenivano; e che sempre e comunque i cedimenti e i compromessi debbano essere ascritti, non solo alla umana fragilità di chi se ne faceva autore, ma addirittura alla debolezza morale della causa antifascista. Che ospitava anche i deboli e i vili; e, dunque, come poteva essere una nobile causa?

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PUBBLICATO IL : 01-12-2005
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