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Il concetto di azione in ‘Il sacrificio come significato del mondo’ di Antonio Aliotta
di Stefania Pietroforte

Sommario:

In questa comunicazione, redatta in occasione del convegno La metafisica in Italia tra le due guerre. Dall’idealismo allo spiritualismo? organizzato dalla Pontificia Università Gregoriana e dall’Università degli Studi “Ca’ Foscari” di Venezia in collaborazione con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, si traccia un rapido schizzo del confronto che vide contrapposto Antonio Aliotta e il suo allievo Renato Lazzarini.
Nel grande saggio del 1936  Il male nel pensiero moderno. Le due vie della liberazione Lazzarini sosteneva che il pensiero moderno, non dissimile in questo da quello dei Greci, ha in sé un motivo irrazionalistico che lo mina alla base e che consiste nel ritenere che il male sia elemento essenziale nella struttura del rapporto tra universale e particolare. Male sarebbe, secondo Lazzarini, per quasi tutti i filosofi il limite che l’universale istituisce, o che trova, e che sempre deve risolvere per affermarsi come universale. Insomma è proprio il fatto che la metafisica si strutturi come rapporto dell’universale col particolare e pretenda questo rapporto come assoluto che appariva agli occhi di Lazzarini come una situazione concettualmente insostenibile.
Il ragionamento di Lazzarini venne accusato da Aliotta come una critica che colpiva i presupposti del suo stesso filosofare e per questo in Il sacrificio come significato del mondo (1947, ma composto negli anni precedenti) tentò di parare il colpo assestatogli dall’allievo non senza, però, mostrare i limiti nei quali il suo pensiero restava confinato.

Prima pagina:

Scriveva nei primi anni Settanta Giuseppe Semerari che l’esistenzialismo positivo di Nicola Abbagnano aveva avuto la sua radice nello sperimentalismo di Antonio Aliotta, suo maestro. Scriveva che «nel Novecento italiano, lo sperimentalismo aliottiano segna la svolta dalla filosofia dell’anteguerra alla filosofia del dopoguerra (per adoperare una nota metafora di Adriano Tilgher), dalla filosofia, vale a dire, del pre-assicuramento metafisico dell’uomo negli Ordini esterni del Logo o della Natura o della Storia alla filosofia che cerca di comprendere l’uomo nella sua problematica misura umana e lo ammonisce a contare unicamente sulle sue risorse, senza pretese di infallibilità, avendo come regola il tentare e ritentare. Perciò, radicalizzando lo sperimentalismo, l’esistenzialismo “positivo” fa del possibile, nella sua ambivalenza di possibilità-che sì e possibilità-che-no, la sua categoria fondamentale». Si impegnava poi a dimostrare che possibilità e pluralismo erano stati proprio i motivi teoretici che Aliotta aveva perseguito in forte polemica con l’idealismo e il positivismo: «Il non creare preclusioni o limitazioni aprioristiche verso le diverse possibili forme dell’esperienza, il collocare il centro dell’esperienza coerente e controllabile nel tempo e nella coscienza individuale, l’affermare, infine, il metodo positivo contro lo stesso positivismo sono altrettante prese di posizione contro le due principali correnti del primo ventennio della filosofia italiana di questo secolo». Effettivamente, che il centro dell’esperienza fosse la coscienza e che questa dovesse essere intesa come individuale e tutt’uno con il tempo, era convincimento profondo di Aliotta. Era un convincimento che, guadagnato sul campo dell’analisi psicologica che era stata oggetto dei suoi primi studi con De Sarlo, si era confermato nella ricostruzione critica che Aliotta aveva fatto in La reazione idealistica contro la scienza (1912) dove le principali filosofie della fine dell’Ottocento e dei primi anni del secolo successivo venivano analizzate alla luce di questo punto fermo: il pensiero è un valore indiscutibile, la coscienza è un primum, inderivato, originario. Aveva quindi ragione Semerari a dire così e ad aggiungere che Aliotta negava ogni elemento di apriorità nell’esperienza che non fosse l’esperienza stessa, cioè che non fosse la coscienza, e che proprio questo doveva essere inteso come una sorta di ritorsione del metodo positivistico contro il positivismo, perché il suo vero punto fermo era proprio che la coscienza fosse quella relazione originaria di soggettività e oggettività che era insieme anche tempo e che, essendo tempo, caricava su di sé inevitabilmente ogni possibile differenza e molteplicità questo potesse presentare, mai confondendosi, però, e quindi non dimenticando che il valore di quelle differenze, la loro intelligibilità e quindi il loro essere al mondo, era frutto della coscienza stessa. La coscienza era creativa, quindi, ma non era lo spirito assoluto degli idealisti che Aliotta aveva come il fumo agli occhi proprio perché assoluto. Essa era tempo, era un continuo porsi limitato, al quale succedeva un altro limitato porsi, forme sempre nuove dell’esperienza che essenzialmente avevano in comune il fatto di essere coscienza, cioè esperienza, e di essere affiancate da sempre nuova esperienza. Così la coscienza era il centro dell’esperienza perché era l’esperienza stessa, così non vi era di apriori altro che la coscienza, così, nella fedeltà a ciò che determinatamente, concretamente la coscienza mostrava nel tempo, cioè in se stessa, Aliotta obbediva al principio di “stare ai fatti” sconfessando la teorizzazione che il positivismo ne aveva imposta.

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PUBBLICATO IL : 19-05-2009
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